Programma della conferenza
VI Convegno Nazionale SISCC “Possiamo ancora capire la società. Comprensione, previsione, critica.” / Roma, 20/21 giugno 2024
Il convegno 2024 della SISCC, in continuità con quelli degli scorsi anni, intende esplorare le complesse relazioni fra potere e pratiche creative, il corto-circuito fra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale nonché le potenzialità che provengono da esperienze diffuse ma non necessariamente connesse. La SISCC ritiene che l’immaginazione sociologica debba essere supportata da una capacità di analisi scientifica e da una comprensione critica della società. Quale può essere allora il nostro ruolo di scienziati e scienziate sociali? E, in particolare, quale contributo possiamo dare alla comprensione della società proprio a partire dallo studio dei processi culturali e comunicativi che attraversano il nostro tempo?
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Panoramica della sessione |
Data: Giovedì, 20.06.2024 | |
9:00 | Registrazione partecipanti |
10:00 - 10:30 | Apertura del convegno: Apertura convegno e saluti istituzionali Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Sara Bentivegna Saluti istituzionali: Tito Marci, Preside Facoltà di Scienze Politica, Sociologia e Comunicazione Alberto Marinelli, Direttore del Dipartimento CORIS e Prorettore alle Tecnologie innovative per la comunicazione, Sapienza Università di Roma |
10:30 - 12:30 | Keynote 1: "Theorizing Interdependence, Envisioning a Politics of Care" Catherine Rottenberg, Goldsmiths University of London Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Michele Sorice |
12:30 - 14:00 | Pausa pranzo |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 1: Pratiche comunicative in transizione: quali sfide per le organizzazioni Luogo, sala: Aula Aldo Moro Chair di sessione: Gea Ducci |
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Pratiche comunicative in transizione: quali sfide per le organizzazioni 1Sapienza Università di Roma; 2Università di Urbino Carlo Bo; 3Università di Cagliari; 4Università di Firenze; 5Università di Torino; 6Università degli Studi di Messina; 7Università degli Studi LINK Chair: Gea Ducci, Università di Urbino Carlo Bo I processi di transizione che stanno investendo la società contemporanea dettano l’esigenza di analizzare con un approccio critico le pratiche comunicative adottate dalle organizzazioni in risposta a tali processi. In particolare, la crescente digitalizzazione avviata nei contesti organizzativi del settore pubblico e la spinta ad adottare politiche orientate alla sostenibilità e all’inclusione sociale, alla partecipazione e all’empowerment dei cittadini, alla gestione di crisi e emergenze, sembrano caratterizzare le principali transizioni in atto, a livello nazionale e sovranazionale. Le organizzazioni pubbliche infatti, adottano nuovi approcci strategici nella cura delle relazioni con i diversi pubblici/stakeholder negli attuali ecosistemi comunicativi caratterizzati da ibridazione (Jenkins et al. 2013), platformizzazione (Van Dijck 2018) e frammentazione (Bentivegna-Boccia Artieri 2021). Tali approcci risultano sempre più complessi e, se da un lato consentono alle istituzioni di svolgere un ruolo di agency delle transizioni in atto, dall’altro presentano rischi e fragilità che meritano una riflessione critica sul futuro della comunicazione pubblica. Quali sono dunque le principali sfide? Quali sono gli scenari di cambiamento delle pratiche comunicative nelle diverse realtà del settore pubblico? Il panel cercherà di rispondere a questi interrogativi attraverso quattro contributi di carattere teorico ed empirico che si focalizzano su contesti organizzativi differenti e caratterizzati da significativi processi di cambiamento che vedono nel fenomeno della transizione un obiettivo strategico e al contempo sfidante. Il primo contributo è dedicato al processo di transizione digitale della PA, con particolare attenzione alle ambivalenze legate all’impiego di strumenti di Intelligenza Artificiale nelle pratiche di comunicazione pubblica. In particolare, si farà riferimento a due differenti ricerche che riguardano la programmazione e l’utilizzo di chatbot, e il ricorso all’IA generativa da parte dei professionisti. Il secondo apporto è dedicato all’analisi della politica di comunicazione dell’Unione Europea per rafforzare la partecipazione dei cittadini nello spazio pubblico comunitario. A partire da una ricerca sulle principali iniziative partecipative promosse dalle istituzioni sovranazionali, nel contesto delle elezioni europee 2024, sarà indagato il modo in cui direttamente e indirettamente si attiva la partecipazione dei giovani e quali sono i rischi e le opportunità della transizione digitale. Nel terzo contributo l’attenzione è focalizzata sui processi di transizione delle istituzioni universitarie nel perseguimento di obiettivi di terza missione, con una funzione di “cerniera” tra i luoghi di produzione del sapere e l’opinione pubblica. Attraverso i dati relativi ad uno studio sulla comunicazione del public engagement negli atenei italiani, si guarderà alle pratiche di valorizzazione della conoscenza come ambito di relazione strategico per un agire responsabile delle università, ma anche come strumento di accreditamento e di legittimazione delle stesse istituzioni. Il quarto contributo, infine, si focalizza sulle complesse dinamiche tra political e public crisis management. Una ricerca sul caso Meloni-Gianbruno analizza le modalità attraverso le quali le narrazioni social degli attori istituzionali e le contronarrazioni dei news media contribuiscono a polarizzare i processi di agenda, operando uno slittamento delle dinamiche di consenso/dissenso da una dimensione privata della crisi a una dimensione pubblico-politica, i cui effetti interessano non soltanto l'attore politico ma anche l’istituzione che rappresenta (nel caso specifico, la Presidenza del Consiglio). . Ambivalenze di Chatbot e AI generativa nelle pratiche di comunicazione pubblica Alessandro Lovari, Università di Cagliari Gli studi relativi all’impatto delle tecnologie digitali sulla comunicazione pubblica, in particolare sulle dinamiche comunicative relative al rapporto fra istituzioni e cittadini, hanno messo in evidenza le ambivalenze legate all’utilizzo di nuovi dispositivi digitali in questo ambito, focalizzando l’attenzione su specifici momenti o fasi che caratterizzano l’evoluzione dell’ecosistema mediale, stante l’inevitabile legame e intreccio che sussiste fra tecnologie digitali e società (Lupton, 2018; Bentivegna-Boccia Artieri 2019). In quest’ottica, negli ultimi 15 anni è stato possibile delineare una fase caratterizzata dall’avvento del web 2.0 e dal crescente utilizzo di social media, app e sistemi di instant messaging (dal 2008 al 2018), come momento di trasformazione significativa delle forme e pratiche di comunicazione in ambito pubblico e di sviluppo delle relative professioni (Ducci, Materassi, Solito 2020; Lovari, Ducci 2022; Massa et al., 2022). La fase successiva (dal 2018 ad oggi), a fronte di gravi crisi ambientali e sanitarie, nuove fragilità e turbolenze politico-sociali, è caratterizzata da un’accelerazione dell’uso dei media digitali e da fenomeni crescenti come la disinformazione che hanno stimolato una riflessione critica rispetto alle opportunità e ai rischi della platformizzazione e datificazione della comunicazione pubblica (Ducci-Lovari 2021; Couldry, 2020), superando il prevalere di visioni polarizzate, euforiche o distopiche. Nell’ultimo anno, il vivace dibattito relativo all’uso di strumenti di intelligenza artificiale, fra cui chatbot/virtual assistant e AI generativa (Council of the EU 2023), sta interessando anche l’ambito della comunicazione pubblica (AGID 2019; Desouza et al. 2020). La sperimentazione di questi strumenti e il loro potenziale impatto sulle attività di informazione e comunicazione della PA e sulle professioni lascia ipotizzare l’avvio di una fase di transizione epocale. Tale sperimentazione è sospesa fra l’attesa di una regolamentazione puntuale (attuazione dell’AI Act europeo), la preoccupazione per il futuro dei professionisti e, al contempo, l’esigenza di acquisire consapevolezza e competenza su come attivare una comunicazione artificiale (Esposito 2022) che consenta di guidare la transizione anziché subirla, per superare e non incrementare il digital divide fra le amministrazioni e gli stessi cittadini. In questo contesto, è importante comprendere il cambiamento in atto e le ambivalenze ad esso connesse, analizzando la programmazione e l’uso dei chatbot/virtual assistant (Androutsopoulou et al. 2019) e il ricorso all’AI generativa nelle pratiche di comunicazione pubblica, tenendo conto delle culture digitali e degli approcci alla comunicazione con il cittadino presenti nelle organizzazioni, nonché del ruolo svolto dai professionisti nel processo di transizione. Al riguardo, si fa riferimento a due ricerche in corso sulla PA italiana: 1- La prima, condotta dalle Università di Cagliari e Sapienza, relativa all’uso dei chatbot per le amministrazioni centrali e regionali del Paese (i cui primi risultati sono stati presentati alla SISCC 2023), ha adottato un approccio metodologico attraverso due fasi. Inizialmente è stato costruito un corpus indicizzato di attori commerciali nazionali e internazionali di chatbot per la PA, valutati per rilevanza tramite PageRank su Google Search; successivamente, attraverso content analysis, sono state esaminate le narrazioni sulla Automated Intelligent Personal Chatbot Systems (AIPCS) presenti nei siti web istituzionali, utilizzando parole-chiave significative sulla base di alcuni ‘concetti sensibilizzanti’ (Blumer, 1986) definiti prima dell’indagine e che hanno costituito la base per successive operazioni di affinamento della categorie empiriche. 2 - Una ricerca avviata all’inizio del 2024 dall’Università di Urbino consiste in una mappatura della presenza e delle principali caratteristiche dei chatbot nei Comuni capoluogo di provincia e nella conduzione di interviste in profondità ai comunicatori di comuni preselezionati. Le interviste sono finalizzate a rilevare il ruolo del comunicatore pubblico nella programmazione degli assistenti virtuali, il ricorso dell’AI generativa nelle pratiche di comunicazione istituzionale e la percezione del relativo impatto sulla professione.
. La partecipazione come asset strategico della politica di comunicazione delle istituzioni europee. Il caso delle elezioni 2024 Marinella Belluati, Università di Torino,
La partecipazione rappresenta un principio fondamentale nella fase di transizione digitale della comunicazione dell’Unione europea, più volte sottolineato dalle istituzioni sovranazionali come un asset strategico per rafforzare il coinvolgimento dei cittadini nello spazio pubblico europeo e frenare le pressioni euroscettiche (D’Ambrosi 2023; Parito 2019; Belluati, Marini 2019). Nel policy making delle istituzioni europee tra le strategie e gli strumenti di comunicazione, viene sottolineata in maniera evidente la necessità di promuovere iniziative di democrazia deliberativa (Bobbio 2013) al fine di estendere i diritti di cittadinanza, compresi i diritti elettorali, attraverso la partecipazione democratica inclusiva. Va rilevato che le diverse dimensioni connesse alla comunicazione europea hanno progressivamente assunto funzioni trasversali, intersecandosi con le più recenti politiche europee. Dal Piano d’azione per la democrazia europea (2020) al Digital Services Act (2023), dalle politiche di sostegno ai giovani al Piano d’azione per l’educazione digitale (2021-2027), ma anche rispetto ai temi della dis/misinformazione e dell’hate speech la questione della partecipazione nell’ecosistema digitale è posta come risorsa strategica per la costruzione di uno spazio informativo europeo, adeguato a sostenere il processo di integrazione. Anche la strategia di comunicazione che accompagna la transizione digitale e lo sviluppo dell’Agenda Digitale contribuisce ad aumentare la consapevolezza della necessità di mettere al centro degli obiettivi europei la partecipazione attiva dei cittadini e delle cittadine e una visione multilivello del coinvolgimento di tutte le parti sociali: pubblico, privato e società civile. La successione di crisi globali (economica, migratoria, pandemica, bellica) che hanno impattato sulla vita quotidiana dei cittadini degli Stati membri ha spostato verso la dimensione europea il focus del dibattito pubblico e della individuazione di politiche e strategie per affrontare le sfide connesse, rendendo particolarmente complesso e incerto lo scenario in cui si svolgeranno le prossime elezioni europee (Trenz 2023). Partendo da tali considerazioni, ed in vista di uno dei momenti più salienti della vita pubblica delle istituzioni europee, quello elettorale, il paper mira a esaminare la strategia di comunicazione istituzionale promossa dal Parlamento europeo per stimolare la partecipazione dei cittadini alle elezioni del 2024, con particolare attenzione al target dei giovani. Se permane infatti una propensione, da parte dei giovani, a impegnarsi nell’ambito della “partecipazione non convenzionale” (Norris 1999) è osservabile anche un’interessante inversione di tendenza nel rapporto con la politica istituzionale. Dopo decenni di sfiducia nei confronti di partiti, governi e parlamenti, si osservano nei giovani segnali importanti di controtendenza, sia a livello nazionale, sia a livello europeo. Le elezioni europee del 2019, per la prima volta dopo molti anni, hanno visto un aumento della partecipazione rispetto alla tornata precedente, ed è proprio tra i più giovani che è stato osservato il maggiore aumento della partecipazione e la proposta più innovativa di formati comunicativi più ibridi e convergenti (Jenkins 2006; Chadwick 2016). L'obiettivo della presentazione è valutare l'impatto della campagna, attraverso lo studio delle principali iniziative partecipative promosse dalle Istituzioni europee (tra cui l’iniziativa Togheter.eu, una piattaforma collaborativa del Parlamento europeo, la campagna #UsailTuoVoto, in collaborazione con FantaSanremo, l’Evento europeo della gioventù EYE 2024, il progetto Ambassadors). Saranno presentati i primi dati dell’analisi dei contenuti presenti nel sito e nelle pagine social del Parlamento e della Commissione europea, per indagare il modo in cui direttamente e indirettamente si attiva la partecipazione dei giovani e quali sono i rischi e le opportunità della transizione digitale; verranno inoltre realizzate delle interviste in profondità ad attori istituzionali promotori dell’iniziativa e a giovani coinvolti nelle iniziative proposte per valutare motivazioni e aspettative. . Università in Transizione. Dal trasferimento della conoscenza alla comunicazione del Public Engagement Laura Solito, Università di Firenze
Tra le sfide che caratterizzano i processi di cambiamento delle istituzioni universitarie, la valorizzazione della conoscenza scientifica riveste oggi una crescente e indiscussa centralità. Non solo nel dibattito tra i numerosi attori che dentro l’accademia si interrogano e si confrontano sui perimetri della propria azione e sulla ridefinizione del proprio ruolo sociale in un clima di scetticismo e di sfiducia, ma anche tra gli studiosi che di tale fermento vogliono sottolinearne l’aspetto dinamico e sfidante, come in questo contributo. Frequentemente incardinata negli obiettivi di terza missione, la questione ha innanzitutto una valenza epistemologica, ossia è riferita alle modalità con cui il sapere scientifico viene prodotto, riprodotto e divulgato nella società. Da questa prospettiva, il ruolo del sapere esperto, tradizionalmente segnato da chiusura elitaria e asimmetria relazionale, è oggi chiamato a costruire forme collaborative di produzione, diffusione e applicazione della conoscenza. Dunque, da un’azione di mero trasferimento del sapere si passa oggi a parlare di Public Engagement, ovvero di una capacità di dialogo degli scienziati con i pubblici e i territori, di scambio e di collaborazione con altri attori e organizzazioni, di ingaggio e attivazione delle comunità locali e della società civile. Tale apertura, anche sollecitata da meccanismi premiali e di valutazione delle performance universitarie, si ricollega ad un’altra dimensione nodale, nelle università così come in molte altre istituzioni: la strategicità della sua comunicazione. Infatti, entro un contesto mediale densamente popolato e a fronte di processi di transizione digitale, le Università sono chiamate a rispondere innescando nuove dinamiche di costruzione del discorso scientifico e di diffusione dei risultati e dei prodotti della ricerca, agendo da cerniera tra la produzione di conoscenza e l’opinione pubblica. La comunicazione del sapere scientifico, pertanto, si configura oggi come “azione responsabile”, ma anche come obiettivo strategico da pianificare e perseguire con continuità, andando oltre l’episodicità a favore di una progressiva istituzionalizzazione e di riconoscimento del suo valore. Il presente contributo, parte integrante di un progetto di ricerca di interesse nazionale più ampio sulla trasformazione e la crisi del sapere esperto, si vuole soffermare sul ruolo che attualmente riveste il public engagement nelle università italiane, come strumento di diffusione della conoscenza, ma anche di accreditamento e di legittimazione di tali istituzioni. Ci chiediamo pertanto se le Università siano oggi effettivamente consapevoli dell’importanza che riveste il loro attivismo “sociale” e, più concretamente, come traducono tale consapevolezza nelle loro strategie di comunicazione. Ma poi: questo compito di valorizzazione della conoscenza per e con i propri stakeholders, in che modo trova spazio negli assetti organizzativi e nei documenti strategici e di pianificazione delle università italiane? Chi guida e traina in ciascuna organizzazione questo processo di cambiamento? A partire da tali domande, la ricerca si sviluppa su un campione rappresentativo di Atenei, selezionati in base alla loro grandezza, natura pubblica o privata e localizzazione geografica sul territorio nazionale. Mediante un’analisi del contenuto dei siti web istituzionali, dei prodotti digitali e degli strumenti specificamente dedicati alle attività di public engagement, si individueranno sia gli orientamenti strategici degli Atenei indagati, sia le pratiche comunicative adottate. In questo modo, seppur nella eterogeneità del panorama complessivo, potremo individuare fattori comuni e coordinate condivise dalle Università nei complessi processi di transizione. . Pubblico/istituzionale vs. privato/politico: il crisis management del caso Meloni/Gianbruno, tra narrazioni social e contronarrazioni giornalistiche Marica Spalletta, Università LINK Roma
Nel corso dell’ultimo decennio e, in misura più marcata dopo lo scoppio della pandemia, i social media hanno rivoluzionato il modo in cui le organizzazioni politico-partitiche e gli attori istituzionali gestiscono le situazioni di crisi (Crouch 2020; Lovari, Bowen 2020), favorendo la transizione da processi comunicativi fondati sui media mainstream a logiche partecipative di gestione dell’emergenza (Kelleher 2017; Hall, Hmielowski 2019). Questa centralità dei social media nelle dinamiche di gestione della crisi non è tuttavia esente da alcune “ombre”, che tendono a collocarsi precipuamente lungo la sottile linea rossa che, nell’ambito della comunicazione pubblica, storicamente separa la dimensione politica da quella istituzionale (Coombs, Holladay 2014; Chadwick, Stromer-Galley 2016), ancor più nel contesto italiano (Lovari, Ducci 2022): se i social media assumono infatti un ruolo strategico di “awareness system” (Maireder, Ausserhofer 2014; Spalletta et al. 2021) tanto nei confronti dei cittadini (Liu et al. 2013) quanto delle istituzioni (Coombs, Holladay 2014; Austin, Jin 2017), essi tendono anche a trasformare la gestione istituzionale di una crisi in management politico della stessa: da una parte, delineando un percorso parallelo e alternativo tra quelle strategie improntate a logiche di accounting e meaning-making, che identificano le dinamiche di public crisis leadership , e le strategie trasformative, trainate da una forte componente ideologica e ispirate a una logica di sense-making, che caratterizzano invece la political crisis leadership (Ansell et al. 2014; Boin et al. 2017); dall’altra parte, innestando processi di agenda pubblico-istituzionale ispirati a logiche di polarizzazione (Bentivegna, Boccia Artieri 2021), che i news media a loro volta ri-mediano secondo processi di significazione ispirati a pratiche di attivismo diffuso (Spalletta 2023). Alla luce di tali premesse, la presente ricerca esplora le complesse dinamiche tra political e public crisis management che prendono forma nell’ecosistema digitale, analizzando quella peculiare crisi che ha recententemente coinvolto la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (ovvero la fine della relazione con il compagno Andrea Giambruno), ma la cui gestione (e i cui effetti) travalicano la sfera privata per sconfinare invece nel contesto pubblico, invadendo al contempo la dimensione istituzionale e quella politica. Le ipotesi che la ricerca sottopone al vaglio dell’analisi empirica possono essere così riassunte: - la scelta della Premier di gestire pubblicamente una crisi privata determina uno slittamento, nei processi di engagement, degli effetti della crisi dalla dimensione individuale (Giorgia Meloni) a quella istituzionale (la Presidenza del Consiglio); - la scelta della Premier di gestire politicamente una crisi privata determina una polarizzazione del coverage giornalistico, che tende a “incorniciare” la crisi all’interno di dinamiche politico-partitiche che investono egualmente la coalizione di governo e l’istituzione Presidenza del Consiglio. Dal punto di vista metodologico, la ricerca utilizza gli strumenti della media content analysis, per analizzare due diversi corpora testuali: da una parte la comunicazione social autoprodotta da Meloni e i commenti postati dagli utenti, al fine di comprendere se e come le dinamiche di consenso/dissenso travalicano la sfera individuale e privata per invadere quella pubblica; dall’altra parte gli articoli che sei diverse testate giornalistiche a stampa dedicano alla crisi, al fine di comprendere se e come i frame interpretativi suggeriti contribuiscono a ricondurre la vicenda privata all’interno dell’alveo pubblico-politico.
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14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 2: Guerra, conflitto e mediologia Luogo, sala: Aula Calasso Chair di sessione: Giovanni Fiorentino Chair di sessione: Davide Bennato |
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Guerra, conflitto e mediologia 1Università della Tuscia; 2Università di Catania; 3Università di Urbino; 4Università di Salerno; 5IULM; 6Università di Modena e Reggio Emilia Chairperson Giovanni Fiorentino, Università della Tuscia Co-chairperson Davide Bennato, Università di Catania A partire dal 24 febbraio 2022, la guerra tra Russia e Ucraina è entrata prepotentemente nella vita quotidiana del cittadino occidentale con una tempesta digitale di immagini e suoni, per lo più attraverso il terminale dello smartphone. Nel tempo della comunicazione ibrida e produttiva, a due anni dall’inizio della guerra, parole, suoni e immagini vanno e vengono ancora dall’Ucraina per fare la guerra e aggredire le nostre forme dell’abitare rispondendo alla necessità collettiva di generare anticorpi che combattano l’assuefazione all’ambiente mediale, producendo l’esperienza di una guerra disincarnata e più o meno normalizzata e addomesticata dall’intrattenimento social. Siamo di fronte a una guerra tra “macchine”, cioè missili contro missili, carri armati contro carri armati, droni comandati a distanza, da soldati che manipolano joystick davanti a uno schermo, siamo ancora di più di fronte a una guerra combattuta sul piano dell’immagine – una guerra di propaganda – prodotta nello spazio mediatico. Con l’obiettivo di arricchire una mappa di ricerca aperta, questo panel intende comporre una prospettiva complessa di analisi secondo ottiche e punti di vista diversi, utilizzando un ambito mediologico ibrido e di confine, in grado di insistere su un sistema guerra-media altrettanto ibrido, evitando le polarizzazioni consuete per provare a ragionare secondo prospettive e fuochi complementari e diversi. Il panel affronterà il discorso attraverso quattro focus specifici. Maschilità in battaglia. Militarizzazione e ritorno del virilismo bellico nel racconto occidentale del conflitto tra Russia e Ucraina La guerra in Ucraina scoppiata nel Febbraio 2022 è stata raccontata dai media occidentali come una battaglia tra rappresentazioni della maschilità diametralmente opposte. Il primo intervento si propone di dimostrare come la rappresentazione delle due (apparentemente) inconciliabili maschilità di Putin e Zelenksy siano a) un dispositivo retorico usato per riportare la guerra entro uno schema manicheo e semplificato, fatto di immaginari che si propongono come mutualmente escludenti; b) un modo per reinstallare all’interno della narrazione occidentale principi tipicamente maschili come il militarismo, l’eroismo bellico, il sacrificio in nome di un valore più alto (Sjoberg & Via 2010). Cyber War. Il combattimento nel dominio cibernetico (e mediologico) Oltre lo spazio fisico dello scenario bellico, il combattimento in un ambiente mediale digitale ibridizzato cui stiamo assistendo si è sviluppato principalmente su diversi livelli (Floridi, Taddeo, 2016; Heintze, Thielbörger, 2016; Libicki, 2009; Whyte, Mazanec, 2023). Il paper si propone di analizzare i seguenti nodi di riferimento attraverso alcune esemplificazioni sintetiche.
Media sintetici e deglobalizzazione. Lo scontro tra visioni globaliste versus retrotopiche nella guerra comunicativa basata sui deepfake A partire da uno scenario di deglobalizzazione precipitato con il conflitto russo-ucraino. il focus dell’analisi verterà in questo caso sui deepfake intesi come media sintetici fondati sull’intelligenza artificiale (Meikle 2023) che hanno assunto particolare centralità nella guerra contro l’Ucraina. Con il paradosso che questi strumenti di “cyberwarfare” liminari e di fusione, che fanno dell’ibridazione il proprio principio estetico e comunicativo, vengono utilizzati tanto dalla parte globalista e progressista quanto da quella retrotopica e indennitaria per rivendicare i propri valori e legittimare la propria visione del mondo. La forma della battaglia, oggi. Fra sociologia della cultura, sociosemiotica, spazialità e immagini Nel quarto e ultimo focus vengono ripresi alcuni modelli polemologici, in un confronto fra sociologia della guerra e dei conflitti, per poi pervenire, attraverso alcuni esempi e casi studio, all’analisi dei relativi modi di rappresentazione e auto-rappresentazione degli attori in campo. In specifico, si analizzeranno i modi di presentare e costruire gli spazi del conflitto, a partire dai casi specifici della “dichiarazione di guerra” di Putin del 24 febbraio 2022, ed una serie di video propagandistici come il tristemente celebre “Winter is coming”. . Maschilità in battaglia. Militarizzazione e ritorno del virilismo bellico nel racconto occidentale del conflitto tra Russia e Ucraina Manolo Farci, Università degli studi di Urbino Carlo Bo La guerra in Ucraina scoppiata nel Febbraio 2022 è stata raccontata dai media occidentali come una battaglia tra rappresentazioni della maschilità diametralmente opposte (Wojnicka, Mellström, de Boise 2022). Da un lato, la figura convenzionalmente machista di Vladimir Putin può essere intesa come un esempio perfetto di «mascolinità egemonica» (Connell 1995), archetipo dello «strong man» (Rachman 2022), versione radicale di ipermascolinità (Jeffords 1993; Romanets 2017). Non solo le rappresentazioni del leader russo che si sono susseguite in questi anni, ma il regime stesso di Putin si è andato fondando sull'attribuzione di caratteristiche maschili al Paese (Novitskaya 2017; Riabov & Riabova 2014). Al contrario, la mascolinità interpretata da Volodymyr Zelensky sembra muoversi in direzione completamente opposta al suo avversario. Dalle performance queer come comico in cui ridicolizzava i valori tradizionali e patriarcali della mascolinità cosacca (Bureychak & Petrenko 2015), allo stile di leadership mostrato durante la guerra, apparentemente più empatico e non timoroso di mostrarsi vulnerabile, Zelensky sembra distanziarsi nettamente dai caratteri tipici della maschilità egemonica, attribuiti a Putin. Tuttavia, il culto della personalità che ha investito il leader ucraino a partire dallo scoppio della guerra, ritratto come un eroe della resistenza e oggetto di vera e propria devozione da parte dell’opinione pubblica occidentale, ha finito per avvicinare la sua immagine pubblica all’ideale dell’uomo forte che caratterizza la leadership russa. E così mentre Putin si dipinge come il leader alla guida di una nazione vigorosa che fieramente si oppone alla penetrazione dei valori dell’occidente, un maschio alfa abituato a una concezione assolutistica del potere, Zelensky si mostra come il condottiero di un popolo di uomini guerrieri, pronti a morire e sacrificarsi per l’integrità dei propri territori. L’intervento si propone di dimostrare come la rappresentazione delle due (apparentemente) inconciliabili maschilità di Putin e Zelenksy siano a) un dispositivo retorico usato per riportare la guerra entro uno schema manicheo e semplificato, fatto di immaginari che si propongono come mutualmente escludenti, b) un modo per reinstallare all’interno della narrazione occidentale principi tipicamente maschili come il militarismo, l’eroismo bellico, il sacrificio in nome di un valore più alto (Sjoberg & Via 2010). Per supportare questa ipotesi, il lavoro analizza un corpus di 100 immagini dei due leader politici in questione. Le immagini, scelte in base al loro tasso di engagement online, sono state estratte da un campione di 10.000 news giornalistiche, circolate nei cinque quotidiani più seguiti in termine di follower su Facebook (Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa, Il fatto quotidiano e il sole 24 ore) durante il primo mese di guerra. Le immagini sono state esaminate applicando i principi della Multimodal Critical Discourse Analysis (Machin 2016) un approccio analitico che esplora come le rappresentazioni visuali contribuiscano alla creazione di significato in maniera che riflette e promuove scelte e interessi ideologici. Integrando l'analisi critica del discorso (CDA), che tradizionalmente si focalizza sui testi scritti per identificare le relazioni di potere sociali presenti sia in modo esplicito che implicito, la MCDA estende questa indagine alla dimensione visiva e multimodale della comunicazione (Ng 2018). In particolare, le categorie di analisi utilizzate per studiare le immagini dei due leader comprendono l'indagine della tipografia, dell'iconografia (pose, oggetti, ambientazione, fotogenia, partecipanti), del simbolismo iconografico (convenzioni culturali e storiche e associazione di significato), della modalità e degli . Cyber War. Il combattimento nel dominio cibernetico (e mediologico) Alfonso Amendola, Università degli Studi di Salerno Il conflitto russo-ucraino ha nuovamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica il fenomeno della Cyberwar, come “quinta dimensione della conflittualità” (Martino 2014). Nonostante non rappresenti il primo e unico conflitto implicante azioni offensive o difensive cibernetiche attuate congiuntamente alle operazioni militari convenzionali (Borg 2012, Clarke, Knake, 2010; Giannuli, Curioni, 2019), la cyberwar tra Russia e Ucraina ha attirato l’interesse mediatico mondiale in modo decisamente incisivo. Il conflitto russo-ucraino ha nuovamente portato all’attenzione dell’opinione pubblica il fenomeno della Cyberwar, come “quinta dimensione della conflittualità” (Martino 2014). Nonostante non rappresenti il primo e unico conflitto implicante azioni offensive o difensive cibernetiche attuate congiuntamente alle operazioni militari convenzionali (Borg 2012, Clarke, Knake, 2010; Giannuli, Curioni, 2019), la cyberwar tra Russia e Ucraina ha attirato l’interesse mediatico mondiale in modo decisamente incisivo. . Media sintetici e deglobalizzazione. Lo scontro tra visioni globaliste versus retrotopiche nella guerra comunicativa basata sui deepfake Nello Barile, IULM Il temine deglobalizzazione indica la perdita di energia del progetto globalista, a causa di una serie di crisi che hanno colpito la società mondiale dall’undici settembre alla pandemia, per raggiungere il suo picco con l’invasione dell’Ucraina. Come la globalizzazione da cui deriva, anche la deglobalizzazione è un fenomeno “multidimensionale” (Tomlinson 1999) che investe l’economia, la geopolitica, il consumo e la comunicazione contemporanea. Se fino agli inizi del nuovo millennio, persino le visioni più critiche e antiglobaliste convenivano sull’idea della creazione di un unico impero (Negri, Hardt 2002), capace di saldare e fondere gli interessi di nazioni, organismi sovranazionali, colossi multinazionali, Industrie mediali ecc., la tendenza attuale indica la spaccatura dell’Impero perlomeno in due parti: quella del blocco atlantista e quella del blocco sino-russo, con il fatidico Global South che oscilla a seconda delle circostanze. La fuga dei brand globali dal territorio russo, in seguito all’attacco dell’Ucraina, unita al processo di depiattaformizzazione, sono stati il segno più evidente dell’inversione di marcia che ha assunto l’immagine mediatica e frivola delle fashion influencer che con gesto dadaista facevano a pezzi le loro adorate borsette Chanel. Non è un caso che McDonald's, metafora stessa della globalizzazione e della sua immane macchina per l’infointrattenimento (Barber 1995), è diventato protagonista della deglobalizzazione, chiudendo migliaia di ristoranti in Russia per essere sostituito da un brand locale. Seguendo lo stesso trend, le piattaforme americane hanno lasciato il Paese, come nel caso di Netflix contro cui si sono mosse alcune class action degli utenti delusi. Ancora oggi l’arte, il . La forma della battaglia, oggi. Fra sociologia della cultura, sociosemiotica, spazialità e immagini Federico Montanari, Università di Modena – Reggio Emilia L’intento di questa proposta è quello di partire da alcune premesse teoriche di tipo culturologico e semiotico-culturale, per studiare le forme della guerra, e in specifico della battaglia attuale, con riferimento soprattutto alla guerra di Ucraina: vista anche la, per alcuni, inaspettata, durata di questo conflitto; in un confronto con la situazione generale di “guerra mondializzata” (Morin), o di guerra mondiale “a pezzi” (Papa Francesco, e prima Khaled Fuad Allam), con i casi di Gaza, del mar Rosso, ecc. L’idea è innanzi tutto, di riprendere alcuni modelli polemologici, in un confronto fra sociologia della guerra e dei conflitti, con studiosi come Joxe, e ricerca che insiste sulle relazioni internazionali, in particolare l’ambito di quella che è stata definita “Critical Geopolitics” o nuova geopolitica discorsiva, con autori come Gerald Toal, in grado di tenere in conto gli ambiti retorico-semiotici e appunto discorsivi dei conflitti. Per poi pervenire, attraverso alcuni esempi e casi studio, all’analisi dei relativi modi di rappresentazione e auto-rappresentazione degli attori in campo (discorsi di alcuni leader o esponenti politici ed ideologi, ecc.); e, in specifico, dei modi di presentare e costruire gli spazi del conflitto, spazio proprio, spazio altrui, idea, ad esempio, di “Russia” come vera patria portatrice della verità e della giustizia, ecc. Con l’intenzione di discutere ampiamente e criticamente lo stato attuale: |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 3: Teorie e pratiche del dialogo interreligioso in Italia: una prospettiva sociologica Luogo, sala: Aula T01 Chair di sessione: Giuseppe Giordan |
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Teorie e pratiche del dialogo interreligioso in Italia: una prospettiva sociologica 1Università di Padova, Italia; 2Università di Torino, Italia; 3Università Cattolica del sacro Cuore; 4Università di Firenze Come molti altri contesti a livello internazionale (Becci et al. 2013), anche la società italiana è caratterizzata da un veloce processo di cambiamento culturale che tocca anche l’ambito della religione. Tanto a causa dei flussi migratori come a seguito delle profonde trasformazioni che stanno avvenendo all’interno della religione di maggioranza, il campo religioso in Italia si sta differenziando in maniera crescente: non esiste provincia del territorio nazionale che, accanto a quelle cattoliche, non registri la presenza di comunità musulmane, ortodosse, protestanti, e in maniera meno marcata, di gruppi induisti, sikh e buddhisti (Pace 2013). In questo contesto di crescente diversità e complessificazione, gli amministratori locali e nazionali, come anche i leader delle comunità religiose e i rappresentanti di altre istituzioni sociali che sono coinvolti a gradi differenti da tali cambiamenti, sono impegnati nel garantire la coesione sociale anche attraverso la pratica del dialogo interreligioso. Il governo della diversità religiosa, in questa prospettiva, non è più comprensibile esclusivamente all’interno dello schema delle relazioni “chiesa-stato” (Martinez-Arino 2019 e 2021, Griera e Nagel 2018, Giorgi e Annicchino 2017), e quindi da un punto di vista esclusivamente giuridico o politologico (Ferrari et al. 2020, Ozzano e Giorgi 2016), ma richiede un approccio specificamente sociologico, capace non solo di mappare gli strumenti e le pratiche di governo della diversità religiosa, ma di evidenziarne anche le caratteristiche specifiche e le dinamiche di cambiamento a seconda dei contesti locali e regionali. Oltre a contribuire al rafforzamento dei processi democratici attraverso il coinvolgimento nelle dinamiche partecipative (Finke 2013), il dialogo interreligioso studiato da una prospettiva sociologica può essere compreso come un continuo processo di confronto, negoziazione e collaborazione tra gli amministratori pubblici, gli attori religiosi e non religiosi, e gli altri attori sociali e culturali (Martikainen 2013). Il dialogo interreligioso, da questo punto di vista, rappresenta un elemento molto importante per comprendere come sia a livello locale, sia a livello regionale e nazionale, una molteplicità di attori sociali, provenienti dalla società civile come anche dal mondo politico, religiosi e non religiosi, interagisce sia in maniera formale che informale, per promuovere la conoscenza reciproca e la mutua legittimazione dei diversi gruppi religiosi. L’obiettivo del panel è quello di introdurre il tema del dialogo interreligioso all’interno di una analisi sociologica più ampia sui processi comunicativi, da un lato, e sui processi partecipativi e gli spazi democratici, dall’altro, mettendone in evidenza il contributo che esso può offrire per la comprensione e la previsione dei cambiamenti che stanno avvenendo in Italia, non solo in relazione al multiculturalismo crescente, ma anche alla sempre più difficile governance dello spazio pubblico, soprattutto in ambito urbano. L’ambizione è quella di offrire sia un inquadramento teorico delle dinamiche sociali e culturali inerenti al dialogo interreligioso, come anche l’esempio di alcune pratiche che ne sostanziano concretamente l’esercizio. Nella prima presentazione si mette in evidenza come il principio della libertà di/dalla religione offra la cornice per comprendere la possibilità e la rilevanza del dialogo interreligioso come pratica sociale (Richardson 2006). Le iniziative e gli attori del dialogo interreligioso a Torino sono al centro della seconda presentazione, mentre la terza illustra l’utilizzo dei linguaggi artistico-performativi come medium del dialogo interreligioso a Brescia. Discutendo i presupposti di due paradigmi di definizione del dialogo interreligioso, il paradigma normativo e il paradigma della pragmatica del dialogo interreligioso, la quarta presentazione analizza il “Progetto AMIR”, il quale impegna alcuni dei più importanti musei di Firenze e di Fiesole nel coinvolgimento di migranti come guide transculturali e transreligiose. . Praticare la libertà di/dalla religione. L’esempio del dialogo interreligioso Olga Breskaya, Università di Padova Giuseppe Giordan, Università di Padova La libertà di/dalla religione, vista come principio fondamentale dei diritti umani, svolge un ruolo cruciale nel garantire un dialogo aperto e inclusivo all’interno della società civile. Essa protegge equamente individui e gruppi religiosi e non religiosi e funge da fondamento per la partecipazione non discriminatoria nei processi democratici (Ferrari 2015; Fox 2015; Grim e Finke 2011). Il concetto di libertà di/dalla religione è costruito socialmente e ha significati diversi in vari contesti sociali, culturali e politici (Richardson 2006). Il dibattito pubblico sulla libertà religiosa in Italia ha talvolta assunto caratteri divisivi, mettendo in discussione varie sfere della vita pubblica e privata, in una società sempre più diversificata e secolarizzata (Giorgi, Giorda, Palmisano 2022). Recenti ricerche hanno affrontato la libertà religiosa principalmente da prospettive giuridiche e politiche, concentrandosi sulla neutralità dello Stato, sull’analisi delle sentenze dei tribunali e sullo studio delle politiche pubbliche (Ferrari et al. 2020; Ozzano e Giorgi 2016). Lo scopo di questa presentazione è quello di fornire una panoramica delle prospettive sociologiche sulla libertà religiosa, considerando le possibilità della sua operazionalizzazione in vista della ricerca empirica, con un’attenzione particolare al ruolo svolto dal dialogo interreligioso. A partire dai contributi di Berger (2014), Finke e Stark (1992), Richardson (2006, 2015) e Fox (2015, 2020), verranno illustrate quattro prospettive analitiche utili a definire in termini sociologici il concetto multidimensionale di libertà di/dalla religione (Breskaya e Giordan 2019). Gli argomenti teorici proposti dagli autori appena citati ruotano attorno a quattro prospettive che, insieme a quella dei diritti umani, costituiscono gli elementi chiave della definizione sociologica della libertà di/dalla religione: 1) la centralità dell’idea di autonomia individuale nel prendere decisioni riguardanti i significati della vita personale, in un contesto di crescente diversità culturale (Berger 2014); 2) l’importanza di un ambiente religioso pluralistico, in grado di rispondere alle diverse esigenze di ricerca spirituale e religiosa degli individui, in un contesto di deregolamentazione pubblica della vita religiosa: questo favorisce sia una maggiore concorrenza religiosa tra i diversi gruppi religiosi (Finke e Stark 1992), sia la possibilità/necessità del dialogo interreligioso; 3) l’impatto sociale delle sentenze dei tribunali su questioni che toccano l’esercizio della libertà religiosa: tale processo di giudizializzazione evidenzia il ruolo dei tribunali intesi come istituzioni autonome che producono i significati condivisi della libertà religiosa all’interno della società (Richardson 2015), mettendo spesso in discussione il ruolo di altre istituzioni (Mayrl e Venny 2021); 4) la centralità della competizione tra le istituzioni politiche e religiose nella regolamentazione delle minoranze religiose così come dei gruppi religiosi dominanti (Fox 2015, 2020). Il contributo sociologico nello studio della libertà religiosa intesa come concetto multidimensionale mette insieme la dimensione normativa (principi di non discriminazione e di uguaglianza) con la dimensione valoriale, la quale affronta tanto le questioni del significato ultimo dell’esistenza individuale quanto le sfide sociali per sostenere il dialogo tra i diversi gruppi religiosi e tra questi e i gruppi non religiosi. All’interno di questa cornice, la libertà di/dalla religione costituisce il quadro di riferimento normativo per la comprensione delle pratiche di dialogo interreligioso, offrendo norme che regolano l’interazione tra le istituzioni religiose. Allo stesso tempo, il dialogo interreligioso in questo contesto può essere visto come una pratica e uno strumento per la promozione della pace, della coesione sociale, della tolleranza e dell’inclusione. Le pratiche del dialogo interreligioso, in definitiva, portano alla riformulazione del significato del concetto stesso di religione, mettendo in tensione una “religione buona”, umanizzante e riconciliante, che contribuisce alla giustizia, all'uguaglianza e alla pace, con una “religione cattiva”, pericolosa perché può essere utilizzata come strumento di violenza (Hurd 2015a, 2015b). . Libertà, governance e dialogo interreligioso. Il caso torinese Matteo Di Placido, Università di Torino Stefania Palmisano, Università di Torino
Il campo religioso, parte integrante del più ampio campo sociale, è un ambito privilegiato per lo studio sociologico delle relazioni tra stato, società civile e minoranze religiose nonché degli interessi, delle alleanze e dei conflitti tra gli attori coinvolti. Nel contesto italiano, sebbene ancora marcatamente cattolico, lo studio di questo campo diventa sempre più urgente perché i cambiamenti che lo stanno attraversando (secolarizzazione, pluralismo, incremento delle fedi della migrazione, nuove spiritualità…) pongono sfide rilevanti per la gestione della religione e della diversità religiosa a livello nazionale, locale e all’interno di molte istituzioni pubbliche come scuole, ospedali, caserme e prigioni (Giorgi, Giorda e Palmisano 2022). In particolare, l’assenza di un quadro normativo organico nonché la necessità di interfacciarsi con ordini legislativi (e.g., leggi nazionali e ordinanze amministrative locali) e forme di riconoscimento giuridico diverse (e.g., concordato e intesa) contribuiscono all’eterogeneità delle forme e delle opportunità di dialogo interreligioso in Italia, e quindi anche alla necessità di analisi sociologiche capaci di interpretare lo scenario in continua evoluzione con un’attenzione specifica agli attori sociali coinvolti. In questo contributo, partendo dalla disamina delle più rilevanti teorie della libertà religiosa (Breskaya, Finke and Giordan 2021; Breskaya, Giordan and Zrinščak 2021; Breskaya and Giordan 2019) e della governance della diversità religiosa (Burchardt 2020; Martínez-Ariño 2020, 2021; Griera and Nagel 2018), proponiamo un’analisi delle iniziative e degli attori del dialogo interreligioso nella città di Torino attraverso una prima mappatura degli archivi online degli atti promulgati dal Consiglio Comunale (34), Giunta Comunale (21) e Consiglio Regionale (41) dal 1 gennaio 2000 al 31 dicembre 2023. Più nello specifico, discuteremo di come il dialogo interreligioso sia una pratica sociale che deve essere compresa all’interno della più ampia cornice normativa dei diritti di libertà religiosa e della governance della diversità religiosa, dando importanza anche ai “meccanismi di azione-coordinamento” (Bader 2007), inclusa l’autoregolamentazione e il coinvolgimento di una pluralità di attori (tra cui lo Stato, le istituzioni locali ma anche le stesse comunità religiose, reti e associazioni interreligiose) e altre forme di corporate governance come i partenariati pubblico-privato. Presenteremo, quindi, una tipologia delle iniziative di dialogo interreligioso a Torino, ideata a partire dalle proposte più rilevanti in letteratura che tengono conto sia delle dimensioni generative degli spazi, della materialità e delle pratiche (Martínez-Ariño et al., 2023), sia della natura bottom-up, middle-middle e top-down delle iniziative discusse (Burchardt and Giorda 2021; Giorda and Cozma 2020; Griera, Giorda and Fabretti 2018). Considerando lo spazio urbano come una dimensione empirica di particolare rilievo – dove interagiscono governance locale e nazionale nonché molteplici attori e processi della regolazione pubblica – ci soffermeremo su alcuni progetti di dialogo interreligioso di spicco. A titolo di esempio, prenderemo in esame: la “Casa delle Religioni”, un progetto multi-level tra religioso e secolare; la “Cura dello Spirito”, avviato nel 2006 – in risposta a una valutazione della qualità dei servizi ospedalieri da parte dei pazienti dimessi dall’Ospedale Universitario Città della Salute e della Scienza di Torino – con l’obiettivo di ovviare alla mancanza di una politica nazionale in materia di governo religioso e di interventi standardizzati in ambito ospedaliero; e il “Patto di condivisione” (precursore locale del Patto Nazionale per un Islam italiano) tra Centri Islamici e Città di Torino, che intende valorizzare e promuovere i valori della convivenza, del rispetto reciproco, della comune conoscenza e del dialogo. Lo scopo del nostro intervento è duplice: teoricamente, avanziamo una proposta innovativa che combina la dimensione spaziale, materiale e pratica del dialogo interreligioso con quella della multi-level governance della diversità religiosa; metodologicamente, arricchiamo l’approccio tipico della letteratura di riferimento – incentrato sullo studio dei dispositivi istituzionali di regolamentazione della diversità religiosa e del dialogo interreligioso – attraverso l’analisi dei posizionamenti, ruoli e interazioni tra gli attori coinvolti. . Fare (e disfare) il dialogo interreligioso tra istituzioni, codici, corpi Barbara Pizzetti, Università Cattolica del Sacro Cuore Maddalena Colombo, Università Cattolica del Sacro Cuore
Il contributo riguarda un’analisi dell’esperienza di dialogo interreligioso attraverso i linguaggi artistici, collegati ad eventi live pubblici (Progetto “Dòsti Festival delle Arti e delle Culture Religiose”), che si svolge a Brescia dal 2016 con la partecipazione sia di istituzioni (Prefettura, Comune, Università, Diocesi) sia della società civile organizzata e spontanea (associazioni e comunità di fede, centri religiosi e culturali, operatori culturali, artisti e cittadini); l’iniziativa è promossa da una Associazione a carattere locale e multiculturale (Pizzetti, Colombo, 2019). Il ricorso ai linguaggi artistico-performativi come medium del dialogo interreligioso si richiama al concetto di performance (Schechner, 1999; Fele, Giglioli, 2001; Cossu, 2006) che comprende iniziative come feste, celebrazioni, riti, happening, ecc. come strumento di co-costruzione di comunità. Questa esperienza è radicata in una realtà locale, di lunga tradizione multiculturale e con elevate percentuali di residenti stranieri, che influenza modi, pratiche e luoghi della comunicazione (Colombo, 2023), incluso l’offerta di spazi di espressione delle minoranze in un’ottica sia di libertà di/dalla religione (Breskaya, Finke, Giordan, 2021), sia di inclusione ed interazione interculturale (Carpani, Innocenti, 2023). L’analisi mette in luce il processo (non lineare) di costruzione del campo d’azione e del “codice” inteso come insieme di forme, significati e regole. Obiettivo è dimostrare che il dialogo effettivo risulta dalla mediazione tra lo slancio da parte degli attori partecipanti, e il supporto di una rete istituzionale agli attori stessi ma anche al processo creativo. Il contributo si articola in tre parti. Nella prima parte (il “fare”) si ricostruiscono le fasi di avviamento e le prime sperimentazioni del contenitore festival, i cui obiettivi sono: contribuire alla conoscenza e allo scambio tra persone e gruppi di diversa convinzione religiosa; favorire la riscoperta della religione e della spiritualità come elementi identitari ma anche universali; contribuire al superamento di immaginari preconcetti, soprattutto verso le religioni di minoranza, generando nuove modalità di aggregazione e condivisione, di partecipazione dal basso, di rappresentazione positiva della multietnicità. Si sottolinea l’importanza dei “corpi” (intesi nella più vasta accezione di persone in relazione attraverso la presenza fisica ma anche di veicoli di segni e visioni) (Bernardi, Fornari, Le Breton, 2016), e quindi la difficoltà del dialogo nel periodo di sospensione dei “corpi” durante l’emergenza pandemica, quando si è reso necessario adottare linguaggi sostitutivi. Si passa poi alla parte critica (il “disfare”), in cui si elencano i punti d’arresto nel processo dialogico, distinguendo quanto proviene dalle istituzioni e quanto avviene (in maniera imprevista) nelle interazioni tra individui e gruppi. In particolare, ci si sofferma sugli incidenti interculturali avvenuti a causa di diverse interpretazioni delle forme artistiche e dei messaggi interreligiosi negli eventi live. Le incomprensioni vengono fatte risalire a giustificazioni forti e/o deboli dei codici utilizzati, che entrano in collisione con i vincoli posti da un determinato canone religioso, e quindi sollevano issues relative ai diritti, al rispetto, alla distanza sociale e culturale. Nella terza parte (il “ricomporre”) si tratta delle strategie e pratiche di riconciliazione / ricomposizione adottate a seguito della presa di coscienza dei punti di arresto e di una elaborazione collegiale delle vie d’uscita. La prima strategia è l’incontro dei “corpi” e l’ingresso del festival dentro i luoghi di culto dove i “corpi” pregano; la seconda è l’ampiamento dei linguaggi con l’introduzione di performance teatrali e prodotti dal basso, ad esempio con videomaking e disegno infantile, con i quali si porta di fronte ad un pubblico l’esito di un’elaborazione dei significati religiosi e spirituali già mediata dalle persone che partecipano all’esperienza creativa. La terza è il cammino verso l’istituzionalizzazione, intrapreso con la costituzione in associazione e i tentativi di costruire reti formalizzate con le realtà aggregate e le amministrazioni, constatando il doppio ruolo che le istituzioni assumono in questo processo: facilitanti e legittimanti, ma anche selettive e ambivalenti. . Perché dialogare? Dalla normatività alla performatività del dialogo interreligioso. Spunti per una sociologia delle pratiche di senso nel dialogo interreligioso Marco Bontempi, Università di Firenze
Il paper discute i presupposti di due paradigmi di definizione del dialogo interreligioso e dei suoi scopi: il paradigma normativo e il paradigma della pragmatica del dialogo interreligioso. Il primo, estremamente diffuso nelle pratiche di governance del pluralismo religioso delle istituzioni politiche locali, procede secondo una logica deduttiva, finalizzata a tematizzare la diversità nel senso multiculturale di “molteplicità di particolarità”. La diversità viene tematizzata e riconosciuta come “tratto peculiare” di quella determinata religione o confessione. Il riconoscimento, quando avviene, è in gran parte attraverso le forme dei diritti di tutela di quella particolare identità religiosa e nella possibilità di accedere a speciali condizioni. In questo approccio basato sui principi, alle persone che compongono le comunità religiose si chiede di agire secondo i principi fondamentali di riconoscimento, pluralismo, rispetto delle differenze, collaborazione, in breve, si chiede un agire eticamente democratico nelle relazioni tra comunità religiose e nel modo di vivere la propria appartenenza religiosa. Questo approccio al pluralismo religioso mira alla realizzazione di una sfera pubblica religiosa - in senso habermasiano - nella quale gli attori religiosi agiscono un dialogo fondato su un ethos civico come una pratica che stimola i partecipanti ad elaborare le proprie convinzioni religiose nella forma di argomenti ragionevoli e per questo condivisibili dall’altro. Il cambiamento che questo approccio persegue può essere sintetizzato su due piani: il piano delle forme del riconoscimento alle comunità e identità religiose e il piano delle trasformazioni soggettive nelle capacità di relazione delle persone. Nel paper si presentano e discutono alcuni dei principali limiti di questo paradigma. Il secondo paradigma inquadra i fenomeni di dialogo interreligioso come pragmatica del dialogo interreligioso, cioè dell’uso che si fa e si esperisce delle identità religiose in situazioni concrete. In questa prospettiva le identità religiose non sono pensate come blocchi omogenei, né come chiuse nelle determinazioni dottrinali o nell’ortoprassi, ma come realtà agite soggettivamente e collettivamente, che connettono e articolano la dimensione soggettiva della persona alla propria identità collettiva di membro religioso. Una prospettiva di pragmatica del dialogo interreligioso in prima battuta si interroga non su cosa dovrebbe esistere e come dovrebbe esistere per avere condizioni favorevoli di dialogo interreligioso, ma qual è l’esperienza di chi fa il dialogo interreligioso e in quali condizioni accade l’esperienza del “sentirsi compreso” dall’altro religioso, nonostante le grandi differenze. Centrale è l’analisi delle pratiche del dialogo, inteso come processo performativo il cui scopo primario è la generazione di esperienze religiosamente significative per l’identità dei partecipanti. Questa prospettiva viene applicata nella presentazione del “progetto AMIR”, un progetto che impegna alcuni dei più importanti musei di Firenze e di Fiesole nel coinvolgimento di circa 80 migranti come guide transculturali e transreligiose – a circa 4000 visitatori in 5 anni - attraverso le collezioni dei musei della rete. Nel contesto di una valorizzazione delle persone con un passato migratorio come portatrici di valori e punti di vista inediti sulle opere, soggetti attivi capaci di sviluppare narrative autonome e di arricchire di contenuti e di esperienze originali i musei e la loro presenza nella città, nel paper vengono sottolineate le esperienze propriamente interreligiose che mostrano una fenomenologia non ordinaria del dialogo interreligioso come processo situato di co-costruzione di senso. |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 4: L’inciviltà politica: percezioni, pratiche e conseguenze per la democrazia Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Alberto Marinelli |
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L’inciviltà politica: percezioni, pratiche e conseguenze per la democrazia 1Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 2Sapienza, Università di Roma; 3Università di Urbino; 4Università di Siena L’inciviltà politica: percezioni, pratiche e conseguenze per la democrazia Chair: Alberto Marinelli
È opinione diffusa che il benessere della democrazia richieda l'impegno attivo dei cittadini e il loro interesse per la vita pubblica e politica. Tuttavia, questo principio fondamentale sembra essere messo in discussione e minacciato dall'attuale deterioramento del dibattito pubblico e dall'aumento dell'inciviltà politica. L'inciviltà politica è aumentata nell'ultimo decennio, coinvolgendo sia gli utenti dei social media che i politici e i media. Il coinvolgimento di capi di Stato, leader di partito e rappresentanti chiave dei media in episodi di inciviltà (Bentivegna & Boccia Artieri, 2021) che hanno segnato il dibattito pubblico contemporaneo, conferma l'interpretazione secondo cui l'inciviltà politica costituisce una risorsa strategica (Herbst, 2010), da sfruttare per obiettivi differenti, per esempio, guadagnare attenzione e visibilità pubblica, promuovere l'identificazione dei cittadini con la leadership del partito, controllare l'agenda mediale, ecc. (Bentivegna e Rega, 2022). Di conseguenza, accademici, politici e cittadini sono ugualmente preoccupati per le conseguenze dannose dell'inciviltà politica sulla democrazia. Una delle conseguenze comprovate dell'inciviltà è la disaffezione politica dei cittadini (Mutz & Reeves, 2005), soprattutto negli Stati Uniti. Uno studio comparativo condotto in Germania, Regno Unito e Paesi Bassi ha dimostrato che, nonostante i diversi contesti sociali e politici, l'inciviltà provoca un aumento del cinismo, della disaffezione politica e dell'alienazione dei cittadini dalla vita politica (Otto et al., 2020). Inoltre, la ricerca ha anche dimostrato la relazione tra l'inciviltà politica e la crescente polarizzazione affettiva dei cittadini (Borah, 2014; Humprecht et al., 2020). Infatti, di fronte all'inciviltà politica che delegittima sia gli attori politici sia, più in generale, le istituzioni della democrazia, i cittadini tendono a inasprire l'avversione nei confronti di chi è percepito come diverso (Iyengar et al., 2012) e a partecipare a forme di mobilitazione "contro" secondo la logica tradizionale di in-group vs out-group. La percezione di un clima di costante ostilità tra gli attori politici favorisce indirettamente anche l'aumento di comportamenti anti deliberativi e polarizzati tra i cittadini (Gervais, 2019). In questo scenario, il panel vuole incoraggiare un momento di discussione della comunità scientifica nella cornice di progetti PRIN sull’inciviltà politica. A tal fine il panel si compone di quattro presentazioni sul tema dell’inciviltà politica e un momento di discussione. La prima presentazione discute i risultati di due indagini condotte nel 2022 su un campione rappresentativo di cittadini italiani al fine di indagare la percezione dell'inciviltà politica da parte dei cittadini all’interno di contesti differenti (campagna elettorale e everyday politics) e il ruolo svolto nel merito dai consumi informativi e dall’attivismo in relazione alla politica nei social media. Il secondo lavoro riporta i risultati di una revisione sistematica della letteratura sull'inciviltà politica, volta a evidenziare problemi legati alla definizione teorica del concetto e delle sue dimensioni costitutive e a individuare proposte in grado di superare i limiti esistenti e mettere a punto strumenti di analisi utili allo studio del fenomeno nella sua multidimensionalità. Il terzo intervento discute i risultati di una ricerca sulla presenza di forme di inciviltà all’interno della copertura giornalistica della campagna elettorale del 2022. Il quarto intervento riporta i risultati di una revisione sistematica della letteratura relativa all’inciviltà in relazione a piattaforme e pratiche fringe, con l’obiettivo di valutare in modo critico il bilanciamento tra la necessità di identificare comportamenti che potrebbero essere pericolosi e il rischio che tale identificazione possa portare a discriminare o emarginare gruppi sociali già svantaggiati. . La percezione dell'inciviltà politica e informativa tra sensibilizzazione e desensibilizzazione Giovanni Boccia Artieri (Università di Urbino), Sara Bentivegna (Sapienza, Università di Roma), Rossella Rega (Università di Siena)
Recentemente abbiamo assistito a un aumento dell'uso dell'inciviltà e dell'ostilità da parte di candidati e partiti politici (Klinger et al. 2022; Reiter e Matthes 2022), soprattutto durante le campagne elettorali, dove si sono intensificati gli attacchi agli avversari sotto forma di diffamazione, discredito, derisione e simili (Brooks e Geer, 2007; Gross e Johnson, 2016). Inoltre, sia i media tradizionali sia le piattaforme online danno ampia visibilità alle espressioni di inciviltà per competere nell'economia dell'attenzione, attirare un pubblico più ampio e attivare comportamenti di coinvolgimento degli utenti. Di conseguenza, gli individui che seguono l’informazione più assiduamente hanno più occasioni di imbattersi in comportamenti incivili. Questo vale non solo per i cittadini abituati a consumare le fonti di informazione tradizionali, ma anche per coloro che sono attivi sui social media e ricevono le notizie politiche indirettamente attraverso il noto meccanismo "news reach me". In entrambi i casi, la questione cruciale - ancora da indagare - riguarda le conseguenze di tale esposizione sui cittadini. In particolare, se l'esposizione ripetuta ai comportamenti incivili degli attori politici aumenti la sensibilità delle persone nei loro confronti o se, al contrario, porti a un’assuefazione e desensibilizzazione. Alla luce di precedenti ricerche che hanno esaminato la percezione dell'inciviltà politica da parte dei cittadini (Kenski et al., 2020; Stryker et al., 2016), questo studio esplora se e come la sensibilità dei cittadini a diversi tipi di inciviltà politica (discorsiva, informativa, volgare, violenta e discriminatoria) varia in base a fattori contestuali e variabili individuali. L'obiettivo è esaminare la percezione dei cittadini dell'inciviltà politica in generale e dell'inciviltà informativa in particolare, confrontando il contesto di "everyday politics " con quello di "campagna elettorale". Inoltre, cerchiamo di identificare i predittori della percezione e di comprendere il ruolo svolto dal consumo mediatico e dall'impegno degli individui sui social media in relazione alla dimensione politica. A tal fine, abbiamo realizzato due sondaggi con metodo Cawi (il primo all'inizio del 2022 e il secondo dopo la campagna elettorale italiana del 2022) su un campione rappresentativo della popolazione italiana. A 2.000 intervistati è stato chiesto di fornire le loro valutazioni su dieci statement relativi al comportamento incivile degli attori politici in vari ambiti. L'individuazione degli statement deriva dalla nostra concettualizzazione dell'inciviltà politica e da una revisione dell'elenco elaborato per una precedente indagine (Bentivegna et al., 2022). Per ogni affermazione è stato chiesto agli intervistati di valutare il grado di civiltà/inciviltà utilizzando una scala da 1 a 5. Oltre alle dieci affermazioni contenenti elementi di inciviltà, sono state inclusi due statement in cui non erano presenti elementi di inciviltà come item di controllo. I risultati mostrano che, rispetto all’everyday politics, in campagna elettorale si attiva un meccanismo di sensibilizzazione verso i comportamenti incivili dei politici, confermando che l'inciviltà è un concetto dipendente dal contesto. Inoltre, è emersa l'esistenza di un doppio meccanismo, sensibilizzazione/desensibilizzazione, e il ruolo quasi antitetico giocato, da un lato, dal consumo di news media e dall’altro, dall'impegno in relazione a contenuti politici nei social media: mentre il primo può essere considerato un fattore di resilienza all'inciviltà, in particolare all'inciviltà informativa, l'attività sui social media in relazione alla politica sembra essere associata alla desensibilizzazione sia nei confronti dell'inciviltà generale sia e soprattutto nei confronti di quella informativa. In altre parole, i cittadini che guardano, ascoltano/leggono le notizie con attenzione sono meglio attrezzati per riconoscere le varie forme di inciviltà, compresa la distorsione dell'informazione, e quindi sviluppano una maggiore sensibilità al suo utilizzo. Al contrario, la diffusione di contenuti incivili e fuorvianti è stata pressoché normalizzata nelle pratiche degli utenti dei social media. . Lo studio dell’inciviltà politica dal 2010: temi, metodi e prospettive interpretative Rossella Rega (Università di Siena), Giovanna Mascheroni (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Le revisioni sistematiche della letteratura sono utilizzate per classificare la letteratura esistente su un dato oggetto di ricerca, identificando le lacune nella ricerca empirica e i problemi teorici da (Grant & Booth, 2009). La revisione sistematica della letteratura sulla ricerca esistente in materia di inciviltà politica è stata realizzata mediante un protocollo di ricerca concepito per essere completo nella copertura delle pubblicazioni rilevanti, coerente nell'applicazione delle stesse stringhe di parole di ricerca in tutte le banche dati ed efficiente nel ridurre al minimo il numero di ricerche non pertinenti. La ricerca finale è stata perfezionata attraverso varie sessioni di test su Web of Science e Scopus mediante le stringhe "uncivil AND politic*" e "incivility AND politic*". Il numero totale di risultati della ricerca è stato di 948 su WoS (Core collection) e 685 su Scopus. Sono stati inclusi tutti gli studi sull'inciviltà politica nelle sue varie declinazioni/forme e in tutti i media (compresi i media tradizionali, i discorsi politici durante le campagne elettorali, post pubblicati nelle piattaforme, etc.). Sono stati invece applicati i seguenti criteri di esclusione nella ricerca: studi sull'inciviltà in contesti diversi da quello politico (ad esempio, sul posto di lavoro o in epoca coloniale, ecc.); studi pubblicati in lingue diverse dall'inglese; recensioni di libri; studi che non fornivano sufficienti dettagli sui metodi utilizzati. Eliminando tutti i duplicati, il dataset finale è composto da 322 risultati unici. I risultati hanno rivelato che la maggior parte degli studi sull'inciviltà politica sono stati pubblicati a partire dal 2017: queste ricerche documentano, infatti, un netto aumento dell'inciviltà politica nel dibattito pubblico a partire dal referendum sulla Brexit e dalla campagna presidenziale statunitense del 2016, che ha visto la vittoria di Donald Trump. Gli eventi politici e le trasformazioni nel sistema dei media digitali hanno una ripercussione sia quantitativa che qualitativa sul campo di studi, traducendosi, infatti, non solo in un aumento degli studi sul tema, ma anche nell’evoluzione delle domande di ricerca e delle prospettive interpretative. L'analisi iniziale degli abstract e delle parole chiave mostra, infatti, uno spostamento dell'attenzione degli studiosi nel periodo osservato riguardante diverse dimensioni dell’inciviltà politica. Partendo dai media presi in esame, si può vedere che, mentre nella fase iniziale prevalevano articoli focalizzati su legacy media quali stampa cartacea, tv e radio, successivamente l’attenzione si focalizza sull'inciviltà politica online. Dal punto di vista delle piattaforme di social media considerate in questi studi, Facebook è stata la principale (e unica) piattaforma analizzata nel periodo 2011-2016. Dopo il 2016, la maggior parte delle ricerche ha esaminato l'inciviltà politica su Twitter. In termini di attori coinvolti, l'attenzione si è spostata progressivamente da giornalisti e partiti politici a leader e/o rappresentanti politici e cittadini, principalmente nella veste di utenti di social media. Di conseguenza, abbiamo osservato una crescente attenzione per i commenti incivili all’interno di questi spazi, con una concentrazione sempre più marcata della ricerca sui commenti degli utenti a contenuti informativi e news-stories pubblicate da testate informative. Dal punto di vista dell'oggetto di studio, mentre la percezione dell'inciviltà ha dominato la ricerca empirica fino al 2010, gli studi sulle emozioni e sulla polarizzazione hanno acquisito maggiore centralità in un secondo momento (dal 2019-2020 in avanti). Dall'analisi delle coppie di parole ricorrenti negli articoli, inoltre, è emerso che la ricerca degli ultimi anni si è ampiamente concentrata sulla "polarizzazione affettiva", sulle "emozioni ostili" e sulle "emozioni negative". Questioni, pertanto, diverse dall'inciviltà politica nella concettualizzazione classica del termine (Stryker, 2016; Muddiman, 2017) ma che vanno di pari passo con un incremento degli studi psicologici a svantaggio degli approcci politologici (prevalenti nella fase iniziale e intermedia di sviluppo della letteratura) più interessati agli effetti e alle conseguenze più ampie dell’inciviltà per i sistemi democratici. . L’inciviltà nell’occhio di chi racconta: il coverage giornalistico nella campagna 2022 Sara Bentivegna, Anna Stanziano (Sapienza, Università di Roma)
La campagna elettorale del 2022, che ha creato le condizioni per la nascita del primo governo guidato da una donna e sostenuto da una coalizione all’interno della quale un partito con radici dirette nell’esperienza fascista è risultato il partito più votato, non sarà certo ricordata per il coinvolgimento degli elettori. Il voto che ha costituito un turning point nella storia della politica italiana è stato preceduto da una campagna che non è stata apprezzata da molti elettori e che spesso è stata considerata incivile (ITANES 2023, Salvarani e Turato 2023, Bentivegna et al. 2024). Alla luce di questo dato, è importante, a nostro avviso, disporre di dati puntuali sul “racconto” della campagna elaborato dai giornalisti che – pur se ridimensionati sul fronte del controllo del monopolio informativo – continuano a mantenere una loro centralità nella post-sfera pubblica (Bentivegna e Boccia Artieri 2021) e a offrire spunti di lettura ai cittadini (Zaller 1992). Se un’analisi simile ha rilevanza rispetto a qualsiasi campagna elettorale, essa aumenta addirittura nel caso della campagna in esame: convocata improvvisamente, di breve durata, collocata in un periodo inusuale come quello estivo, con una coalizione data in netto vantaggio e con una leader di partito con la carica di Presidente del Consiglio in pectore. Che si sia in presenza di un progressivo e diffuso incattivimento delle campagne elettorali è un dato che gli studiosi hanno ben chiaro da diversi anni (Nai e Maier 2021). Meno chiaro, invece, risulta il ruolo giocato dal coverage giornalistico nell’individuazione del clima generale percepito dai cittadini. In questo lavoro, abbiamo focalizzato la nostra attenzione sulla presenza di “forme di inciviltà all’interno della copertura giornalistica della campagna. Prendendo le mosse dall’osservazione di Gitlin (1980) secondo cui l’inciviltà è notiziabile per i giornalisti per il semplice fatto che viola norme consolidate (di buona educazione, rispetto reciproco, rispetto istituzionale, etc.) e che, quindi, è un buon punto di osservazione per raccontare le campagne, ci siamo chieste quanta e quale influenza potesse avere la partisanship degli outlet informativi nella determinazione dell’attenzione prestata al fenomeno. L’enfasi sulle forme e le espressioni incivili rintracciabili nel contesto elettorale è funzionale, infatti, non solo a richiamare l’attenzione degli utenti – sulla base del famoso paradosso secondo cui esse producono al contempo fastidio ed attrazione (Mutz 2015) – ma anche a rendere evidenti le fratture all’interno dell’elettorato, sulla base della logica dell’in-group e out-group. Così, il racconto dell’inciviltà suscita l’attenzione dei cittadini, contribuendo a catturare nicchie di pubblico e, contemporaneamente, offre conferme e argomenti sulla distanza tra le posizioni in campo, evidenziando la polarizzazione in atto. In base a questa ipotesi, che sostiene un ruolo ben definito assunto dai partisan media, l’attenzione all’inciviltà è il frutto della logica giornalistica, da una parte, e dell’adozione di un frame interpretativo volto a evidenziare l’esistenza e i confini delle parti in gioco, dall’altra. Per verificare questa ipotesi, abbiamo raccolto 82.894 testi riconducibili alla campagna pubblicati dai principali media outlet nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2022 (25 agosto-25settembre). A partire dal corpus contenente tutti i testi pubblicati sulla campagna elettorale, abbiamo individuato i casi incivili tramite un algoritmo di supervised machine learning con l’ausilio di QDA Miner, un programma per l’analisi qualitativa dei testi computer-assisted. Questo processo ha permesso di individuare 1.902 testi incivili (tra articoli, post e tweet) pubblicati nel periodo in analisi. Il sub-corpus contenente casi di inciviltà è stato poi analizzato al fine di individuare i temi correlati all’utilizzo di un linguaggio incivile. . L’inciviltà ai margini: studiare l'impatto delle pratiche e delle piattaforme fringe sul dibattito pubblico Giovanni Boccia Artieri, Stefano Brilli, Elisabetta Zurovac (Università di Urbino Carlo Bo)
Il panorama contemporaneo delle piattaforme digitali è caratterizzato da un intricato mix di spazi pubblici, semi-pubblici e privati. Questi spazi variano in termini di visibilità, regolamentazione e pubblico ma sono allo stesso tempo interconnessi attraverso dinamiche di migrazione reciproca tra ambienti marginali e mainstream. La comprensione di queste dinamiche è fondamentale per comprendere l'attuale deterioramento del dibattito pubblico e l'aumento dell'inciviltà politica. Tali processi sono rafforzati dalla partecipazione dei cittadini a piattaforme online alternative o “fringe”, che sono state correlate a ecosistemi di disinformazione, alla diffusione di miti cospirativi e alla normalizzazione del pensiero populista e dell'estremismo politico (Schwarzenegger, 2022). La letteratura recente ha mostrato come esista una relazione interdipendente tra l'aumento degli spazi online alternativi e la crescita delle forme di estremismo di estrema destra (Holt, 2018; Walther & McCoy, 2021), sottolineando così una crescente preoccupazione per il fatto che “gli spazi online appartati possono funzionare come laboratori che sviluppano punti di vista estremisti che poi trovano un ingresso nel mainstream” (Lewandowsky et al., 2020, p.84). Allo stesso tempo, questi spazi “danno voce a comunità emarginate e svantaggiate” (ibidem), quindi possono anche rappresentare nuove risorse per il dibattito pubblico. Questo paper espone le basi teoriche e metodologiche del progetto di ricerca CORIT- “Countering Online Radicalization and incivility in ITaly: from fringe to mainstream”, finanziato dal Programma Next Generation dell’Unione Europea. Il progetto si concentra sullo sviluppo di narrazioni marginali, gruppi e azioni modellate con la capacità di “intossicare” il sistema dei media ibrido italiano. In termini più specifici, verranno delineate le principali considerazioni concettuali, tecniche ed etiche nello studio della Telegramsfera italiana. Questo include un esame della sua influenza sulle piattaforme di discussione mainstream insieme alle sue dinamiche che indicano uno spostamento verso piattaforme e comunità marginali. Fin dalla sua nascita nel 2013, Telegram si è posizionato come uno spazio ideale per gli individui in cerca di privacy e sicurezza - un'opportunità che fa appello a coloro che immaginano un Internet libero e a coloro che sono costretti a utilizzare tale spazio come unico mezzo sicuro di coordinamento (Urman e Katz 2022). Telegram, in questo senso, sembra essere un ambiente ottimale per il tracciamento delle informazioni e per i contesti in cui le narrazioni cospirative tendono a prosperare (Schulze et al. 2022, Herasimenka 2022). Il paper si basa su un’analisi e una valutazione critica delle fonti raccolte tramite Scopus e Scholar intorno ai termini chiave “fringe platform/social media/online spaces” e “deplatforming”. La presentazione si propone due obiettivi primari: in primo luogo, si cerca di esplorare il modo in cui la letteratura accademica costruisce il concetto di piattaforme, pratiche e gruppi online fringe, con l'obiettivo di analizzare criticamente come l'imperativo di caratterizzare comportamenti potenzialmente pericolosi debba confrontarsi con il rischio di contribuire all'alterazione di tali gruppi; in secondo luogo, la presentazione approfondirà le considerazioni metodologiche che emergono in questo campo di studi, in particolare in relazione all'esame degli spazi "below the radar" (Boccia Artieri et al. 2021) e dei "movimenti non etici" (Törnberg e Törnberg 2024).
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14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 5: Migrazioni e pratiche artistiche: teorie, interventi, processi Luogo, sala: Aula Multimediale Chair di sessione: Valentina Fedele |
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Migrazioni e pratiche artistiche: teorie, interventi, processi 1Università degli Studi Link Campus, Italia; 2Flacso(argentina); 3Università della Calabria; 4Gratz Universitat Migrazioni e pratiche artistiche: teorie, interventi, processi Chair: Valentina Fedele . Introduzione Dopo la “crisi migratoria” del 2015-2016, si sono diffuse analisi concentrate sulla relazione tra migrazioni e le pratiche artistiche, declinata sia come strumento nei processi di emersione e superamento delle esperienze traumatiche (McGregor e Ragab 2016; Rose e Bingley 2017; Kalmanowitz e Rainbow 2016), che come possibile terreno di costruzione di forme di comunicazione interculturale che sfida narrazioni egemoni (Holle, Rast e Ghorasci 2021; Catalani 2021). A partire da questi studi, il panel raccoglie tre contributi con diversi approcci disciplinari, riferiti contesti ed esperienze migratorie differenti, che sostengono, però, la riflessione sul rapporto tra migrazioni e arti/pratiche artistiche, con specifico riferimento alla possibilità che queste rappresentino un’approccio euristico utile, che, permettendo di abbracciare le molteplici dimensioni che ne attraversano gli spazi - di partenza, attraversato, di arrivo - riescono anche ad intravederne, forse anticiparne, la potenzialità trasformativa, nell’impatto sociale, identitario, culturale. Sotto il primo profilo, elementi costitutivi dell’arte emergono come aspetti rilevanti nell’elaborazione dell’esperienza migrante. Le pratiche artistiche sono connesse alla manualità, a un coinvolgimento fisico nel processo di creazione, che materializzando l’esperienza agisce sull’abilità di regolare le emozioni. Le emozioni trasferite in un artefatto, infatti, “cominciano ad occupare uno spazio fisico fuori dall’individuo, possono essere sentiti, ci si può interagire, e, dunque, potenzialmente determinarne il cambiamento" (Kalmanowitz e Rainbow 2016: 60). La dimensione fisica della pratica artistica non esaurisce però il processo di creazione, sollecitando quella che Knill, Levine e Levine (2005: 83) chiamano la logica dell’immaginazione: in tal modo, l’arte facilita l’espressione catartica, trasformativa, che sostiene la rielaborazione di emozioni legate ai traumi e delle memorie inconsce. Tale processo di coscientizzazione è fondamentale nella costruzione di percorsi di riconoscimento e auto-riconoscimento (Honneth 2002), soprattutto quando agevola direttamente o indirettamente lo storytelling (McGregor e Ragab 2016; Holle, Rast e Ghorasci 2021), creando uno spazio in cui, richiamando Halbwachs (2007), le memorie individuali dei migranti e delle migranti contribuiscono alla sedimentazione di memorie collettive della migrazione - la possibilità, dunque, di sviluppare una comprensione e una riflessività specifica - ma anche alla rielaborazione di nuove memorie sociali. Sotto il secondo profilo, l’arte migrante interroga direttamente la dimensione pubblica dell’arte (Adorno, 1984; 1994; Benjamin 1985; 1992), mostrando una potenzialità comunicativa non convenzionale in grado di mettere in discussione in modo non discorsivo, narrative egemoniche (Young 2001). La dialettica tra arte e società costituisce quello che O’Neill (2008) chiama uno spazio in between tra sentire soggettivo e realtà oggettiva, uno spazio potenziale di negoziazione, che nutre la percezione creativa, uno spazio liminale (Holle, Rast e Ghorasci, 2021), transizionale, di doppia assenza ma anche di doppia presenza culturale (Cava, 2014), che coinvolge tanto i paesi di origine, quanto quelli di destinazione. La dimensione pubblica dell’arte migrante costruisce di entrambi una potenziale ibridizzazione, che si nutre dei processi di comunicazione contemporanei, delle eterogenizzazioni e delle connessioni dell’immaginario. Da questo punto di vista, l’opera degli artisti e delle artiste migranti nella sua dimensione pubblica rappresenta una sfida interpretativa. Martiniello (2015: 1230) distingue a tal proposito due principali assi: l’“artistic metissage”, che si concentra su come i migranti, ma anche le minoranze etniche, ispirino le produzioni artistiche alla loro esperienza di vita; e la critica alla sfera culturale, considerata un ulteriore momento di confisca e incorporazione. è possibile, però, una terza prospettiva, che mantiene insieme l’agency dell’individuo e la capacità trasformativa dell’arte, rispetto alla globalità e multi-polarità dell’esperienza migratoria, considerando la potenzialità di cambiamento rispetto agli spazi culturali attraversati: l’ arte migrante non è, infatti, solo arte sulla migrazione, ma anche arte dalla migrazione, attraversa temi diversi - amore, bellezza, territorio - di cui propone nuove forme interpretative, rappresenta temi nuovi, che cambiano il panorama culturale dei paesi di accoglienza. . 1. Approssimazioni di frontiera: pratiche artistiche per costruire soggettività resistenti. Fabrizio Di Buono, FLACSO Argentina Le migrazioni comportano un processo di approssimazione tra luoghi, culture, società e individui, tra loro distinti, che, in mancanza di un’interazione tra questi punti che si muovono con le persone, presuppongono una desoggettivazione obbligata o una soggettivazione passiva della persona migrante. Franco Cassano (1989), a tal proposito, mette al centro il verticalismo gerarchico che sorge quando una persona (o un sistema) denomina la propria alterità, vale a dire modella e immagina l’altro, senza che questi possa avere una propria soggettività: “ogni soggetto pone sé stesso come centro del mondo spingendo gli altri sullo sfondo, facendoli diventare ambiente, talvolta inquieto e pericoloso per la sua stabilità” (2023, p. VIII). Per evitare ciò, suggerisce, occorre vivere l’esperienza dell’altro: “un esercizio di decentramento, di indebolimento della nostra chiusura in noi stessi” (2023, p. VIII). L’arte ci offre un terreno di espressione e enunciazione, dove l’anthropos (l’altro) può far emergere la propria soggettività, disfarla e costruirla, compiendo una disidentificazione attraverso altre forme di abitare il proprio quotidiano. Il tessuto sociale contemporaneo, infatti, è soggetto a continue tensioni distruttive che portano alla “demolizione di un orizzonte di comprensione comune” (Steyerl, 2018, p. 33), lasciando spazio a insiemi di storie artificiali, verticistiche, ritagliate e parziali. Pertanto, diventa necessario elaborare istanze e pratiche di narrazioni collettive che mettano al centro la partecipazione e la pluralità dello spazio sociale, per far emergere quelle narrazioni soggiacenti al modello dominante, esprimendo e abitando lo spazio con significati e valori alternativi (Williams, 1977). Mouffe (2014) sostiene che “l’obiettivo delle pratiche artistiche dovrebbe essere quello di sostenere lo sviluppo di queste nuove relazioni sociali che sono possibili attraverso la trasformazione del processo di lavoro. Suo compito principale è la produzione di nuove soggettività e l’elaborazione di nuovi mondi” (2014, p. 95). Creare soggettività dall’arte permette agli individui, inseriti nel vortice di una società capitalista finanziaria, di attuare pratiche di disidentificazione (Vich, 2021), ripensando le forme nelle quali sono stati socializzati e costruiti come soggetti. Nei territori di arrivo, i migranti sono oggetto di una specifica condizione sistemico-normativa che risponde alla “gerarchizzazione razziale della società” (Quijano, 2000). Le politiche migratorie dei paesi d’accoglienza riducono il migrante in un formato preimpostato, fatto di schede da compilare e programmi da seguire per il migrante, che ne modellano l’esperienza futura e presente. In questo contesto, le pratiche artistiche possono desoggettivizzare la costruzione sociale eterodiretta e sostenere la costruzione di nuove soggettività collettive a partire dalla propria esperienza, ma soprattutto dal loro sentire e pensare, esprimendo non solo una visione del mondo, bensì una “sensibilità del mondo” (Mignolo, 2011). Tutto ciò produce effetti collettivi sullo spazio sociale e politico abitato da supposti “noi” e “altri”, mettendo in crisi questa costruzione dicotomica della società. Concentrandosi sull’esperienza della costruzione del “mapeo coletivo” (Iconoclasistas, 2008) in Argentina, il saggio riflette sui processi di soggettivazione che si attivano attraverso le pratiche artistiche, in riferimento alle persone migranti della comunità paraguayana, e permettono l’apertura dell’individuo rispetto al processo di socializzazione iniziale, includendo l’alterità del mondo esterno. I contesti della diaspora mettono in crisi la formazione originaria del soggetto, sottoponendolo a una sfera sensoriale, sentimentale e razionale in movimento, cambiante e incerta, dove il linguaggio di destinazione e quello incorporato entrano in collisione. Così come la normativizzazione del processo d’inserimento del migrante entra in contrasto con l’esperienza del soggetto in questione, rendendolo subalterno al contesto d’arrivo. Le pratiche artistiche spingono verso il contatto con questa alterità, attraverso un processo ditraduzione che va oltre le frontiere linguistiche, bensì effettuano un processo di coscientizzazione bidirezionale che va dal contesto verso il migrante e dal migrante verso il contesto di accoglienza. . 2. L’uso della Teatroterapia e dei Narrative Therapy Groups per ricucire le fratture identitarie dei minori stranieri non accompagnati. Bonadies Simonetta; Polito Alberto, Università della Calabria Una vasta letteratura scientifica (E. Cantor-Graee, J.P. Selten, 2005) rileva quanto l’esperienza migratoria sia correlata alla salute psicofisica. Infatti, se da un lato la migrazione può rappresentare un’evoluzione individuale e contribuisce ad ampliare le opportunità di agency del singolo, dall'altro essa espone il migrante a fattori di rischio. La separazione dal proprio contesto familiare e sociale, la perdita di sistemi di supporto, l’esistenza di barriere linguistiche e culturali, le difficili condizioni socioeconomiche, i traumi subiti prima e durante il percorso migratorio, lo stress e la sofferenza dovuta all’esilio in una terra sconosciuta e, spesso, alla presenza di condotte discriminatorie nei Paesi di destinazione, contribuiscono alla “fragilizzazione” della popolazione migrante, anche rispetto allo sviluppo di forme di disagio mentale (M. Aragona et al. 2013). Nel caso specifico dei Minori non Accompagnati questi processi incidono su specifiche fratture identitarie nella formazione stessa dei soggetti, considerata la specifica fase evolutiva. Antropologi e storici hanno dimostrato come l'esperienza e il concetto di adolescenza varino a seconda dei contesti storici e socioculturali (P. Ariès, 1968; A. Cunningham, O.P. Grell, 2017) e, pertanto, la percezione di sé stessi come adolescenti e la percezione dei compiti evolutivi da affrontare in questa fase. Questa diversità, però, non è riconducibile ad una semplice differenza fra culture: è necessario, infatti, considerare i fattori politici, sociali ed economici che producono povertà, diseguaglianza e guerre, plasmando l’esperienza dell’adolescenza. Indipendentemente dalla cultura e dalla società di origine, questa è comunque un passaggio verso il mondo degli adulti e una legittimazione alla partecipazione piena alle dinamiche societarie. Il viaggio migratorio comporta, al contempo, un cambiamento dello status socioculturale costituendosi come vero e proprio rito di passaggio. Michael White (1992) identifica tre fasi attraverso cui si sviluppano i riti di passaggio: fase di separazione, fase di margine, fase di re-incorpora- zione. Nella prima fase l'individuo viene separato dal contesto in cui si trova (contesto di origine), nella seconda attraversa un passaggio simbolico che rappresenta il culmine del rito (viaggio), nella terza viene reintegrato nella società e nella sua identità con un nuovo status sociale (nuova identità all’interno del nuovo contesto sociale). Il contributo si concentra sull’esperienze narrative attivate in un centro di accoglienza per minori non accompagnati in Calabria attraverso la Teatroterapia e la Terapia narrativa. Queste ultime si di- mostrano strumenti psicologici trasversali a tutti i linguaggi e si costituiscono come forma espressi- va capace di rappresentare la realtà e i suoi diversi linguaggi (poetico, narrativo, musicale, pittorico, corporeo), la storia, il presente, il passato, il futuro, il sogno, la fantasia, l’immaginazione. Proprio per questo rappresentano una modalità alternativa e nuova di presa in carico dei migranti ed in par- ticolare dei minori che hanno l’opportunità di creare nuovi percorsi di sperimentazione di sé stessi e delle proprie capacità e risorse, cercando al contempo di rileggere, rinarrare e dare un significato nuovo e univoco ai molteplici cambiamenti che essi hanno vissuto durante il percorso migratorio. Il lavoro sulle proprie narrazioni, sul recupero del proprio potere personale di cambiamento e sul processo di autodeterminazione diviene in questi casi un lavoro essenziale da compiere insieme a professionisti capaci di cogliere i significati culturali divergenti portati dalle persone. L’uso della Teatroterapia e dei Narrative therapy groups è risultato particolarmente utile per migliorare la percezione del benessere psicologico dei MSNA all’interno dei centri di accoglienza, favorendo la mediazione dei conflitti e l’espressione delle proprie emozioni, la costruzione della propria identità, una maggiore consapevolezza delle proprie capacità sociali e relazionali in un contesto interculturale. . 3. Pratiche estetiche di resistenza Gabriele Leone, Gratz Universitat Il contributo riflette sulle pratiche artistiche collegate alla diaspora curda in relazione a varie espe- rienze di resistenza politica (Eccarius-Kelly, 2020; Toivanen, 2021; Hussain, 2022) a partire dall’analisi di alcune espressioni grafiche del “Kurdistan diasporico”, selezionate in Austria nelle città di Innsbruck e Graz. La diaspora curda ha spesso espresso la propria identità culturale e politica tramite la creazione di murales o arte di strada. I murales sono una forma di espressione popolare per molte comunità della diaspora, utilizzati per affermare la propria identità e presenza negli spazi pubblici superando i filtri comunicativi classici imposti dalle normali agenzie informative. Nel contesto della diaspora curda, i murales spesso raffigurano immagini legate alla cultura, alla storia e alla lotta politica curda (Eliassi, 2016), con l’obiettivo anche di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla causa curda e a sfidare le narrazioni e le rappresentazioni dominanti del popolo curdo, che risentono di una lettura occidentalo-centrica della “questione curda” (Meiselas, 2008; Galip, 2015; Mohammadpour & Soleimani, 2019). Questa ha spesso prevalso incidendo, in particolare, sulla frammentazione dei curdi, un elemento sfruttato in accezione coloniale anche dagli stati ospitanti imponendo ad essi una valutazione riduttiva. Questa valutazione operata attraverso l’ottica coloniale è stata pienamente accolta dai neonati stati nazionali dell’area mediorientale che in nome della difesa dell’unità della patria hanno applicato contro le tribù e il tribalismo un emergente discorso di biopolitica razziale, in virtù della quale si individua la resistenza etnica come affermazione di tribalismo e di premodernità: “da ciò deriva la lotta tra lo Stato, rappresentante della modernità secola- re, e l’identità curda, somma di tribalismo e banditismo.” (Mohammadpour & Soleimani, 2019:134). La valutazione della “questione curda” secondo l’ottica etno-nazionalista tende ad indi- viduare ogni richiesta di riconoscimento culturale come reazionario e dannoso per l’unità del popo- lo (Mohammadpour & Soleimani, 2019). Nonostante la nuova ottica della teoria sociale post-colo- niale che non vede nel termine tribù e tribale un’accezione negativa, l’utilizzo del lemma impone una tendenza alla marginalizzazione e alla costruzione di categorie come razza, nazione, etnia e cit- tadino. Da questo punto di vista le pratiche artistiche nella diaspora, nello specifico la street-art possono rappresentare una contro-rappresentazione e narrazione pubblica della questione curda, anche al di là di espressioni legate a gruppi politici limitati o di celebrazioni folkloristica di momenti rievocati- vi come il Newroz. Tale rappresentazione può passare anche attraverso sporadiche e individuali forme iconiche che vengono consegnate come messaggi grafici sui bordi delle strade da ignoti wri- ters. Esse recano spesso simboli e richiami ad una esortazione di lotta il cui significato politico si condensa in una immagine che tanto più è efficace tanto più è cruda. Le pratiche estetiche di resistenza pur nella loro saltuarietà e particolarità riescono ad avere un rit- mo che valica il transitorio e si pone come protagonista di una iterazione rivoluzionaria. Il graffito, il canto, la pittura assumono un valore che, superando la fugacità e la caducità dell’effimero, si pro- pongono come atto che, pur individuale, diviene poiesis collettiva (Butler, 2023). Queste considera- zioni richiamano il concetto di “spazio di apparenza” (Arendt 2017) che non coincide né con un luogo né con una infrastruttura, in cui si genera qualcosa di nuovo per esercitate una poiesis collet- tiva. Questo “spazio di apparenza” esprime un potere creativo che nasce dallo scarto delle differen- ze e si impone come potere di libertà, come espressione di un momento estetico in cui le varie istanze acquisiscono tangibilità (Butler, 2023). Le “pratiche estetiche di resistenza” della comunità diasporica curda svolgono un ruolo importante anche nelle relazioni madre patria-diaspora (Délano & Gamlen, 2014), mostrando un impatto significativo sulle strategie e sulle tattiche utilizzate dalla popolazione curda nella lotta per l'autonomia o l'indipendenza (Schiller, 2005). |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 6: Ambiente e attivismo Luogo, sala: Aula VI Chair di sessione: Roberta Bartoletti |
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Comprendere e interpretare la realtà sociale attraverso forme di conoscenza condivisa. Un’esperienza di ricerca sui Living-Lab in Sardegna 1Dipartimento di Storia, Scienze dell'Uomo e della Formazione, Università degli Studi di Sassari, Italia; 2Nucleo di Ricerca sulla Desertificazione (NRD), Università di Sassari, Italia Appare sempre più complicato il compito di osservazione e interpretazione delle dinamiche socio-culturali nei diversi ambiti della vita quotidiana, a partire dalla constatazione dell’aumento di complessità nelle dinamiche del mutamento sociale. Ancor più ardua è la sfida che la sociologia deve affrontare nel tentativo di prevedere quali siano le possibili traiettorie di sviluppo di fenomeni sociali ancora in divenire, le cui connotazioni appaio spesso in modo parziale e mai nell’interezza delle proprie manifestazioni. Questa tendenza sembrerebbe amplificarsi nei contesti rurali in cui è possibile trovare gli indizi della complessità esplicitati attraverso conflitti sociali più o meno latenti, esperienze innovative di partecipazione civica, oppure mediante originali strategie comunitarie di riattivazione della coesione sociale (Moralli 2022). Le cosiddette aree fragili sono in realtà i contesti sociali e culturali in cui il potenziale di mutamento intrinseco nell’azione comunitaria si può esprimere appieno. Assumono, quindi, rilevanza le forme e i luoghi in cui si esplicitano le dinamiche della partecipazione che facilitano l’emersione del potenziale trasformativo delle comunità, offrendo uno sguardo prospettico sulle trasformazioni sociali. Questo contributo intende presentare i risultati di una ricerca empirica frutto della sinergia di due progetti europei (Sustain-COAST e OurMED finanziati nel programma PRIMA-Horizon 2020) a forte connotazione interdisciplinare che prevedono la collaborazione tra ricercatori provenienti da diverse regioni del Mediterraneo, con l’obiettivo di sostenere e promuovere l’attuazione di una strategia comune di ricerca e innovazione nel perseguimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. In questa sede proponiamo alcune delle principali riflessioni teoriche in relazione alle attività progettuali realizzate nel caso studio dell’ area vasta di Arborea (Sardegna) e concentrate principalmente sulle dinamiche partecipative nei processi di governance delle risorse ambientali. Attraverso la realizzazione di interviste in profondità, è stato possibile ricostruire la percezione comunitaria del rischio ambientale e analizzare i processi partecipativi interni alla governance delle risorse ambientali. Ne è emerso un contesto sociale in cui alcune specifiche categorie di stakeholder sono state solo marginalmente coinvolte nei processi decisionali da parte di soggetti istituzionali, soprattutto perchè non sono state riconosciute pienamente le loro potenzialità in termini di competenze pratiche e del ruolo conoscenza tacita (Polanyi 2018). Di fatto questi sono elementi erroneamente ritenuti distanti dall’idea di capitale sociale e politico, ma in realtà sono determinanti per superare i conflitti e le tensioni sociali secondo percorsi partecipati di sviluppo di conoscenze a partire sul patrimonio culturale comunitario (Gibson 2017). La realizzazione di un Living Lab all’interno dell’area oggetto di studio ha confermato queste potenzialità in nuce, ma emerse in maniera esplicita durante le interviste. La creazione di un luogo aperto, di un laboratorio di esperienze condivise, ha portato alla co-costruzione di un bagaglio di conoscenze di varia natura (scientifiche, locali, tacite, di governance innovativa, ecc.) utili per individuare e definire operativamente le tensioni e le criticità più impellenti agli occhi della comunità (Ceseracciu, Branca, Deriu, Roggero 2023). Contestualmente, il Living Lab si è rivelato essere anche luogo fertile per l’elaborazione di strategie risolutive, prospettive interpretative e declinazioni originali e innovative dei processi partecipativi. L’esperienza empirica in un contesto apparentemente periferico come quello di Arborea ha innescato una serie di processi conoscitivi replicabili, con i dovuti accorgimenti metodologici, negli altri casi studio del Mediterraneo. Dal quadro complessivo che ne consegue, emerge in modo evidente come una comunità, se messa nelle condizioni di diventare un laboratorio di esperienze condivise, può effettivamente diventare luogo di innovazione e di sperimentazione sociale capace non solo di interpretare le forme socio-culturali del presente ma anche le traiettorie di sviluppo delle comunità nel prossimo futuro. L’Ultima Generazione o ecoteppisti? L’attivismo sulla crisi climatica tra media agenda, notiziabilità e demonizzazione Sapienza Università di Roma, Italia La crisi climatica è entrata da anni nell’agenda della politica internazionale, pur non traducendosi in una priorità nella transizione ecologica o in consapevolezza della posta in gioco nelle opinioni pubbliche nazionali (Boyce and Lewis, 2009; Hansen, 2015; Boykoff, 2011; Pinto et al., 2019; Stecula and Merkley, 2019). Un ruolo fondamentale è svolto dalla copertura fornita dai news media o dal dibattito politico. In Italia, negli ultimi due anni le proteste dei movimenti contro l’emergenza climatica, quelle di Ultima Generazione, ma anche quelle di Fridays for Future, Extinction Rebellion o Greenpeace, hanno suscitato e continuano a suscitare un dibattito vivace e polarizzato. Si tratta di esperienze concentrate nell’arduo compito di modificare l’agenda dei media attraverso iniziative creative, provocatorie, performative (Goodman et al., 2016; Berglund and Schmidt, 2020). Spesso è proprio sull’indubbia notiziabilità di queste azioni nonviolente che si concentra l’attenzione dei media e il dibattito pubblico ponendo in secondo piano le issue proposte. Questa contrapposizione, tipica del rapporto tra media e movimenti sociali radicali, almeno a partire dagli anni ‘60 del secolo scorso (Gamson and Wolfsfeld, 1993; Gitlin, 2003), stimola una serie di domande rilevanti sia per lo studio di questo tipo di azioni che per il funzionamento della tematizzazione giornalistica e del sistema dei media, per il suo rapporto con la politica e la sfera pubblica mediatizzata. Sono state individuate tre domande di ricerca: D1. Dinamiche dell’attenzione e cambiamento climatico: Dalle quattro dimensioni tradizionali dell’analisi dei conflitti mediali e dei processi di definizione dell’agenda discendono le specifiche questioni affrontate riguardanti: l’entrata nell’agenda (agenda-setting), gli effetti di salienza, framing e gerarchia. Qual è l’influenza delle proteste sulla rappresentazione mediale dei temi ambientali? Quanto spazio mediatico viene concesso ai diversi movimenti e a quali degli obiettivi e temi proposti viene dato risalto? Che ruolo hanno le proteste nella costruzione del dibattito sulla crisi climatica? D2. Attivismo creativo e paradosso della visibilità nell’era dei social: la ricerca dell'attenzione dei media mainstream e un uso sempre più ampio dei social media modificano gli obiettivi e strategie dell’azione collettiva modificando anche i rapporti tra gruppi e dinamiche interne, spesso portando a conseguenze inattese. In quale modo l’utilizzo di queste tattiche contribuisce alla loro efficacia e alla risposta dell’opinione pubblica? Quali sono i tipi di azione e le tattiche più notiziabili e diffondibili? Che rapporto c’è tra la visibilità di una singola azione e quella di altri movimenti e azioni? D3. Crisi, cambiamento sociale e demonizzazione. La risposta dell’establishment politico e del sistema mediale possono essere diverse e articolarsi nel tempo. Quali sono le strategie di «negazione dell’agenda» utilizzate per rispondere alle sollecitazioni dei movimenti ambientalisti? In che modo evolvono nel tempo e quali sono le differenze tra testate e media? A fronte di tali quesiti tre sono le metodologie e strategie di ricerca adottate: 1. l’analisi del contenuto dell’agenda dei principali quotidiani nazionali; 2. la ricostruzione dei principali cicli di protesta, dei maggiori eventi realizzati, delle strategie di comunicazione sulle piattaforme; 3. l’analisi del dibattito pubblico sui principali programmi di approfondimento televisivo. I principali risultati confermano, da una parte, quanto l’utilizzo di azioni “mediageniche” sia particolarmente efficace nel catalizzare l’attenzione dei media mainstream e nel polarizzare il dibattito sui social media (Jenkins et al., 2016; Sobieraj, 2011), d’altro canto questo comportamento permette alle testate più orientate politicamente di costruire una contronarrazione demonizzante (DeLuca, 2005; Dunlap and McCright, 2010; Hoggan and Littlemore, 2009). Ci si focalizza sugli aspetti più provocatori delle azioni e sui gruppi più radicalizzati in termini comunicativi, contribuendo a mantenere un’attenzione superficiale, relegando la crisi climatica al rango di scelte post-politiche più che al centro delle politiche e della politica (Hammond, 2017). Green Influencers e Attivismo Digitale: una mappatura del panorama di #ecotok Italia Università Lumsa, Italia Considerato il contesto dell’accresciuta efficacia dei social media nel promuovere la sensibilizzazione ambientale (Bedard & Tolmie, 2018) e della recente attenzione rivolta alle pratiche di attivismo digitale (Knupfer et al., 2023), il contributo proposto analizza le peculiarità della comunicazione in tema di sostenibilità ambientale nel panorama italiano su TikTok. Nel contesto della piattaformizzazione dei media (Poell et al. 2019), la letteratura ha evidenziato come gli influencers, inizialmente concentrati sulla promozione commerciale (Colucci & Pedroni, 2022), siano portati a esprimere posizioni su questioni pubbliche, rendendo sfumato il confine tra attivismo digitale e influence culture. Emergono, così, i green influencers, impegnati nella sensibilizzazione dell'opinione pubblica sulla sostenibilità (Abell & Pittman, 2021). La crescente mediazione digitale degli interessi culturali e sociali (Murru & Vicari, 2021) mostra però anche un’evidente dimensione collettiva. La letteratura ha osservato come le affordances delle piattaforme digitali (boyd, 2010; Davis, 2020), quali l'hashtag, consentano l'auto-organizzazione in comunità e il contributo a flussi di informazione da parte degli utenti. In particolare, #ecotok rappresenta un fenomeno di natura medio-ecologica e addirittura cross-mediale (Denicolai & Domenici, 2023) che ha ispirato la nascita di un movimento orizzontale di attivismo sociale (Ecotok Collective) con attualmente 21 influencers coinvolti. Le numerose visualizzazioni a #ecotok evidenziano l’interesse degli utenti sulle tematiche trattate. È d’altronde stata la stessa piattaforma a registrare un incremento di 6 volte in un anno del numero di visualizzazioni di contenuti a tema ambientale, identificati anche da vari altri hashtag (TikTok Creative Centre, 2022). Su TikTok, tali comunità emergono, infatti, anche attraverso processi mimetici legati alla selezione e diffusione dei contenuti. I principi di mimesi sembrano inoltre essere incentivati dalla logica della piattaforma, favorendo l’aggregazione di "imitation public" (Zulli et al., 2022). Considerato il quadro di riferimento, è stata svolta un’analisi tematica, secondo il framework adottato nella ricerca di Jones et al. (2023), con oggetto 46 video pubblicati da green influencers italiani nel corso del 2023. La raccolta dei video è stata effettuata tramite una ricerca per hashtag, combinando #ecotok e #italia, eseguita utilizzando la funzione “scopri” di TikTok. Per limitare il numero di video, sono stati analizzati i metadati, e selezionati quelli con oltre mille likes al momento del campionamento. L'analisi mira a comprendere le pratiche e gli attori predominanti in #ecotok Italia, identificando i principali trend e tipologie di contributori. Le pratiche comunicative legate alla sostenibilità all’interno di #ecotok, in Italia, mostrano una varietà di approcci che riflettono l'impegno della community verso tematiche green. La comunicazione ambientale adattandosi alla natura della piattaforma, combina creatività e meme per trattare temi come biodiversità e inquinamento (Hautea et al., 2021). La varietà di pratiche utilizzate sembra allinearsi dunque con l'interpretazione di Denicolai e Domenici, che considerano #ecotok come un'espressione di intelligenza collettiva che contribuisce alla co-costruzione di una coscienza civica comunitaria (Mulgan, 2018). Relativamente ai temi trattati, emerge un trend orientato a informare la community su questioni ambientali cruciali mediante uno storytelling che comunica in modo chiaro e sintetico. I video analizzati presentano evidenze scientifiche, sottolineando il potenziale di TikTok nel gestire la sostenibilità in brevi formati senza perdere la sostanza (Huber et al., 2022), come dimostra la durata media dei video analizzati pari a 43 secondi. Tra i risultati preliminari, spicca la diversità di contributori nel panorama italiano, con profili non riconducibili a singole personalità, come magazine e pagine, e profili personali di creators. Nonostante ciò, non risultano green influencers italiani associati a collettivi o associazioni, a differenza dell'esempio sopracitato di Ecotok Collective. Il contesto italiano si presenta, dunque, come ambiente di particolare interesse al fine di indagare il rapporto dinamico tra attori collettivi e singoli individui nell’ambito dell’attivismo digitale ambientale. Eco-Bytes: Minecraft, Campagne Ambientali e Attivismo Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia Introduzione La comunicazione dell’ambiente e della sostenibilità rappresenta una dimensione cruciale per i decision maker e gli stakeholder, sia a livello globale che locale. Coinvolgere i cittadini in questo campo costituisce una sfida saliente che affronta da un lato l’apatia pubblica, o addirittura il negazionismo, e dall’altro la disinformazione. Raggiungere efficacemente la cittadinanza richiede nuovi tipi di istanze comunicative che sfruttino il potenziale dei nuovi media. A tale riguardo, i videogiochi sono emersi come uno strumento promettente nella promozione di consapevolezza, riflessione e critica, nonché come driver d’azione e di cambiamento comportamentale. La riflessione accademica si è concentrata in particolare sui cosiddetti "serious games" (Frasca, 2008), ossia giochi sviluppati appositamente per avanzare una tesi, di cui è stato largamente enfatizzato il valore educativo e le potenzialità per il game-based learning, soprattutto rispetto al cambiamento climatico (Madani et al., 2017; Fernández Galeote & Hamari, 2021). Questi studi si sono focalizzati principalmente – e spesso esclusivamente – sul software di gioco, sottostimando di conseguenza le influenze del più ampio ecosistema socio-materiale videoludico in cui esso viene a inserirsi. A fronte di ciò, il presente contributo adotta invece una prospettiva sistemica e propone un modello analitico multidimensionale che mette a fuoco i processi di co-costruzione tra l’ecosistema videoludico – in cui rientrano il software, i giocatori, i suoi commentatori (streamers) - l’istanza comunicativa, gli stakeholder coinvolti e la più ampia questione ambientale in essere. Metodologia La ricerca si sviluppa a partire da due casi studio, ovvero due progetti ambientali top-down basati sul popolare gioco sandbox 3D Minecraft (Mojang, 2011), che consente agli utenti di costruire ed esplorare mondi virtuali. Il primo è una campagna istituzionale del 2021, in cui gli sviluppatori hanno realizzato una mappa interattiva di Venezia per promuovere la sostenibililità attraverso una serie di pratiche verdi, come coltivare orti urbani, sanzionare i conducenti che utilizzano veicoli inquinanti o creare economie solidali. Il secondo è un progetto scolastico del 2020, che ha coinvolto anche un attore del corporate, in cui gli studenti delle scuole elementari hanno ricostruito la centrale elettrica locale per studiare l’uso dell’acqua e la sua conversione in energia idroelettrica, garantendo la protezione della flora e della fauna della Valle del Po. In particolare, sono state svolte interviste semi-strutturate ai promotori dei progetti e agli sviluppatori del software (N=6) per comprendere il processo di realizzazione a monte, eventuali criticità e conflitti, nonché i risultati attesi e le relazioni tra gli attori e le materialità coinvolte. Risultati e conclusioni Attraverso l’analisi di due casi studio, questa ricerca esplora le intersezioni tra (a) le sostenibilità a livello locale (b) la rete di attori e stakeholder coinvolti nella comunicazione della sostenibilità e (c) l’ecosistema videoludico, che include gli asset e le caratteristiche del software, così come l’articolazione della sua comunità (inclusi utenti, modders, streamers, spettatori, distributori...). Da questa prospettiva, si riconosce come i videogiochi possano ricoprire ruoli molteplici e talvolta contraddittori all’interno di istanze comunicative di tipo ambientale. L’analisi mostra infatti come i compromessi implicati dall’uso di questi media all’interno di tali campagne - relativi ad esempio alle modalità di mediazione del sapere veicolato, al capitale sociale degli attori coinvolti, al supporto politico, alla rilevanza del caso ecologico in essere - siano attentamente gestiti dagli stakeholder per garantire il finanziamento e la realizzazione effettiva. Inoltre, vengono sottolineati alcuni limiti nelle attuali modalità di valutazione degli esiti di tali progetti e dei loro benefici a breve e lungo termine per il contesto locale. Si avanzano in conclusione alcune idee per superare tali limiti, con l’obiettivo di sfruttare al meglio il potenziale dei videogiochi per affrontare una sfida urgente quanto quella ambientale. |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 7: Industrie e immaginari mediali Luogo, sala: Aula VII Chair di sessione: Sergio Brancato |
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Big clash. L’audiovisivo tra piattaforme online e AI generativa: uno sguardo sociologico sulle (vere) funzioni dello storytelling nelle serie TV riflessive Università di Roma Tre, Italia Il paper esplora narrazioni e immaginari sociali attorno alla tecnologia, con particolare riferimento a piattaforme online da un lato e AI generativa dall’altro, partendo dal presupposto che tali immaginari siano plasmati soprattutto dalle serie televisive di ultima concezione e mirando dunque ad esplorarne la politica della rappresentazione. Un rito di carta. Libri e “librarietà” nella comunicazione delle imprese italiane Sapienza, Italia Scenari e stato dell’arte Il contributo approfondisce il fenomeno delle monografie organizzative di carattere librario e la sua evoluzione nel contesto italiano. I libri editi dalle organizzazioni per documentare la propria storia e attività rappresentano un genere distintivo e di lunga tradizione dell’industria culturale, caratterizzato da rilevanti espressioni sul piano quantitativo e qualitativo. Tuttavia, con poche eccezioni, tali artefatti culturali spiccano tra i generi meno conosciuti e indagati, al punto da rappresentare un singolare caso di «libri-non libri», sovente derubricati come nicchia e accidente di puro colore nella storia della comunicazione. La marginalità del filone può essere spiegata piuttosto alla luce di alcuni storici «paradossi comunicativi»: prima fra tutti, l’autoreferenzialità delle organizzazioni stesse, che tendono a condannare tali pubblicazioni a un ciclo di vita effimero e d’occasione e, dunque, a una difficile accessibilità da parte dei ricercatori. Obiettivo e metodo A partire da questo scenario, il contributo punta a discutere l’evoluzione storica e contemporanea del fenomeno nella prospettiva degli studi culturali e di comunicazione, nell’intento di ripercorrere le peculiarità del caso italiano, lo stato dell’arte nel settore e le implicazioni per la teoria e ricerca. Il binomio organizzazioni-libro appare infatti pregnante e meritevole di essere decifrato attraverso gli strumenti critici dell’indagine culturale: ciò con speciale riferimento, da una parte, ai temi della formazione e comunicazione dell’identità e memoria organizzative e collettive; dall’altra, al ruolo cardine che il libro e la librarietà giocano nel panorama dei media e delle forme culturali della modernità. Il contributo offre una rassegna ragionata della letteratura interdisciplinare e dei risultati delle ricerche di carattere esplorativo condotte da chi scrive nel contesto delle attività scientifiche che fanno capo a BiblHuB, biblioteca culturale e di ricerca sulla comunicazione di imprese e organizzazioni promossa alla Sapienza dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. Le attività di ricerca, a tutt’oggi in corso, hanno previsto la realizzazione di casi di studio, interviste ai testimoni privilegiati, analisi delle caratteristiche testuali e contestuali dei company book. Tali approfondimenti quali-quantitativi hanno consentito di delineare il sistema culturale dei company book e mettere a fuoco le principali fasi, gli attori e i «classici» di settore che, nel tempo, hanno animato lo sviluppo di una distintiva tradizione nazionale attraverso l’apporto di una molteplicità di approcci e discipline (storia, letteratura, arte e design, scienze sociali). Implicazioni per la teoria e ricerca Le implicazioni sono discusse nella prospettiva dell’analisi culturale e della comunicazione, ambito nel quale i company book dispiegano appieno la propria qualità «serendipitosa» di oggetti (apparentemente) fuori posto e persino provocatori. Da una parte, relativizzano infatti il concetto di libro e, in particolare, quei requisiti di autorialità e credibilità che è consuetudine invalsa considerare alla base del «patto comunicativo» con il lettore; dall’altra, la loro natura «ibrida» evidenzia ricorrenti e soprendenti intrecci tra sfera spirituale e materiale – tra figure di intellettuali, artisti, editori e imprenditori – che innervano la tradizione culturale italiana e, in generale, la storia sociale del libro. I libri delle organizzazioni hanno la funzione di oggettivare la cultura e preservarla in forma «materiale» e «documentata», ma non possono essere considerati degli statici artefatti: rappresentano, piuttosto, l’esito di un complesso rito identitario – l’esperienza del «farsi libro» – che coinvolge le organizzazioni e i loro leader, segnando un «prima» e un «dopo» nella vita aziendale, finanche a innescare un positivo effetto d’iniziazione e dipendenza culturale. Tale processo attiene, inoltre, alla produzione di media analogici che «rimediano» l’antica tradizione del libro come oggetto d’arte e di design, per rilanciarne – al tempo della Rete – la qualità di potente macchina culturale e di comunicazione attraverso il tempo. Tra Pixel e Paillettes. Nuovi paradigmi e nuove disuguaglianze nella moda del futuro Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia La moda e il progresso tecnologico sono sempre stati due campi collegati. Il ruolo della moda nella formazione delle distinzioni di classe, degli immaginari, della co-produzione di autocoscienza, degli stereotipi di genere e della formazione e costruzione dei corpi è stato a lungo studiato, e l'avvento delle nuove tecnologie digitali ha accelerato queste dinamiche. Al contempo, le forme assunte dalla filiera della moda si sono moltiplicate, a partire dalla produzione, fino alle opere creative e comunicative. È noto che la moda, storicamente, ha giocato un ruolo potente nel determinare stereotipi fisici e immaginari di genere: il suo ruolo nella co-produzione della consapevolezza di sé e nella formazione e costruzione dei corpi è uno dei cardini degli studi di settore. Inoltre, un altro ruolo fondamentale della moda è sempre stato quello di marcare le differenze di classe, come consumo ostentato, come "desiderata" a cui solo pochi privilegiati potevano accedere. Questo lavoro si interroga sulle questioni delle disuguaglianze materiali e della rappresentazione del corpo, dove il digitale sfida sempre più il confine tra materialità e non-materialità, realtà e immaginazione. Gli ambienti ludici virtuali si pongono, da questo punto di vista, come i campi più di frontiera, perché, da un lato, sono sempre più oggetto di interesse da parte dei brand, dall'altro, sono aperti alla possibilità di creazione da parte degli utenti, non sempre seguendo un canone consolidato. La relazione tra moda, gioco e media tradizionali è ibrida, a cavallo tra online e offline, tra materiale e "non materiale", tra realtà e finzione. La domanda di ricerca è se le dinamiche di costruzione di immaginari, definizione di stereotipi di bellezza estetica, azioni sui corpi sia "meccaniche" che culturali, istanze di genere attribuite alla moda dalla letteratura esistente siano replicate anche nel contesto digitale, oppure se queste dinamiche stanno cambiando con e per l'azione di questo nuovo tipo di fruizione del prodotto moda, sia come "oggetto materiale" che come "oggetto culturale". Per fare ciò, questa ricerca impiega, in maniera sinergica, un approccio netnografico e uno visuale, utilizzati per costruire e analizzare un set di dati composto da pubblicità e immagini di personaggi di videogiochi; l’approccio metodologico scelto vuole rispondere alla natura stessa dell'oggetto di studio: sia la moda che i videogiochi hanno una natura spiccatamente visiva; entrambi dipendono e vivono all'interno di contesti mediatici digitali, interconnessi e globali. I materiali delle pubblicità e le immagini dei personaggi dei videogiochi selezionati vengono campionati in base a tre peculiarità ben definite: 1. la possibilità di essere giocati online in modalità multiplayer; 2. la popolarità della piattaforma scelta; 3. la presenza di personaggi antropomorfi. Le piattaforme di gioco così selezionate sono: 1. League of Legends; 2. Fortnite; 3. Apex Legends; 3. Overwatch; 4. Valorant; 5. PUGB. All'interno di queste piattaforme, gli utenti svolgono il duplice ruolo di consumatori e produttori. Fanno quindi parte della "prosumer culture" e contribuiscono attivamente alla definizione di rappresentazioni e idee riferite al corpo. Tuttavia, i contenuti selezionati per questo studio non sono basati sui fan, infatti la scelta di concentrare l'analisi sulla pubblicità e sui contenuti "ufficiali" di queste piattaforme è legata al desiderio di esplorare quali significati, rappresentazioni e immagini vengono veicolati dai produttori, in una dinamica top-down, seguendo quindi la modalità di comunicazione dei canali tradizionali della moda. La pandemia, che tra le sue conseguenze ha portato un aumento del tempo trascorso utilizzando media digitali, soprattutto tra i giovani, ha generato un diffuso aumento del fenomeno del ritiro sociale, ragione per cui questi mondi “altri”, questi “metaversi”, con le loro regole, estetiche e dinamiche, meritano, più che mai di essere esplorati. Gli immaginari di Harry Potter tra fantasy e spiritualità: Una ricerca quantitativa sugli studenti italiani Università degli Studi di Padova, Italia Esiste un cospicuo dibattito in ambito sociologico, e più in generale nelle scienze sociali, rispetto al fenomeno sociale e mediatico generato da Harry Potter. Questa saga ha rappresentato un vero e proprio fenomeno sociale per una generazione di ragazze e ragazzi, spingendo gli scienziati sociali a interrogarsi sull’impatto che avuto nel campo religioso. Al di là dello studio della dimensione religiosa all’interno della produzione editoriale e mediatica di Harry Potter, nonché delle reazioni delle diverse tradizioni religiose rispetto alla dimensione magica di questa saga, alcuni sociologici hanno esaminato il fenomeno sociale generato dall’opera di J. K. Rowling alla luce delle teorie della modernità e della secolarizzazione sviluppate e applicate negli ultimi decenni nei paesi occidentali. Quest’ultimo dibattito può essere schematizzato delineando due posizioni generali che ipotizzano due tendenze sostanzialmente opposte. Da una parte, seguendo la teoria dell’“hyper-real religion”, gli elementi delle religioni tradizionali e della cultura popolare si intrecciano per rispondere alle tendenze moderne in termini di consumo e individualizzazione religiosa. Pertanto, fenomeni come quello di Harry Potter promuovono forme di reincanto del mondo attraverso una proliferazione di “miti soggettivi”. Le pratiche dei fans di Harry Potter sono state così analizzate adottando i concetti di “fandom religion”, “film-based religion” ed “implicit religion”. Dall’altra parte, un numero minore di studiosi ha individuato nel fenomeno sociale generato da Harry Potter una dimensione prevalentemente secolare, la quale ripropone modelli e logiche in linea con i processi della secolarizzazione. Tale condizione favorisce quindi molteplici forme di disincanto in linea con le dinamiche sociali diffuse nei paesi occidentali. Ad ogni modo, all’interno di questo dibattito sono molto pochi gli studi che analizzano evidenze empiriche sull’argomento. Questa presentazione discute i dati di una ricerca quantitativa che ha visto nel biennio 2022-2023 la raccolta di 872 questionari rivolti a ragazzi e ragazze dai 17 ai 23 anni nelle regioni Emilia-Romagna, Sicilia e Veneto. La ricerca ha approfondito gli immaginari dei giovani italiani su alcune importanti opere letterarie che hanno avuto una trasposizione cinematografica. Questa indagine ha esaminato gli elementi più importanti all’interno di questi immaginari giovanili e se essi ricadono entro categorie secolari o afferenti al campo spirituale/religioso. Per rispondere a questa domanda è stato chiesto ai rispondenti di leggere dei lunghi stralci delle suddette opere – scelti appositamente poiché significativi – e poi di rispondere a dei quesiti su ciascuno degli immaginari riconosciuti. Secondo l’analisi dei dati raccolti, circa il 6% dei ragazzi e delle ragazze che hanno partecipato alla ricerca individua nella saga di Harry Potter un immaginario spirituale e/o religioso, il quale si integra con un ulteriore immaginario (nel questionario è stato chiesto difatti di individuare i due principali immaginari per ogni opera). Nella larga maggioranza dei casi, tuttavia, i rispondenti identificano in Harry Potter un immaginario morale, mitico e/o metaforico. Una successiva analisi dei dati permette di approfondire i profili dei ragazzi e delle ragazze che associano Harry Potter all’immaginario spirituale e/o religioso. In effetti, sono riscontrabili delle variazioni per quanto riguarda il genere del rispondente, il suo orientamento religioso (ateo; agnostico; in ricerca/curioso; religioso) e la religione in cui è cresciuto (cattolicesimo; islam; ortodossia). In conclusione, questa ricerca suggerisce che, sebbene gli studi che indicano nel fenomeno sociale di Harry Potter la presenza di forme di reincanto non siano di certo privi di un riscontro empirico, essi sembrano comunque marginali tra i giovani della ricerca a distanza di quasi 15 anni dalla proiezione dell’ultimo film. Rispetto ai processi di secolarizzazione nei paesi occidentali, infine, questa attrazione spirituale/religiosa per Harry Potter sembra concentrarsi nei ragazzi che si riconoscono come “in ricerca” o “curiosi” e non in quelli che dichiarano un orientamento religioso più definito. |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 8: Genere, lavoro e disuguaglianze Luogo, sala: Aula VIII Chair di sessione: Paola Rebughini |
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Shaping The Identity: narrazione mass mediale del sex work in Italia e in Belgio La Sapienza, Italia Il XXI secolo ha visto susseguirsi diversi tipi di crisi: economica, ecologica, sanitaria, umanitaria, e neoliberale (Rottenberg, 2020). Tali crisi sono riflesse nella maggiore richiesta di informazioni da parte dei cittadini, legata al concetto classico di 'Need for Orientation' (Lewin, 1943): le questioni sui diritti umani (apparentemente) non correlate alle recenti crisi possono ricevere una minore priorità nell'agenda giornalistica, come i diritti delle sex workers. Questo studio analizza in modo comparativo il discorso mediatico sulla prostituzione in Italia e in Belgio, esplorando potenziali differenze narrative in paesi europei con legislazioni diverse sui diritti delle sex workers. Infatti, in Italia la prostituzione non è riconosciuta come professione legittima, mentre il Belgio l'ha decriminalizzata completamente nel giugno 2022. L'analisi si concentra su 15 articoli di giornale belgi (in fiammingo e francese) e 15 articoli italiani, da gennaio 2020 a dicembre 2023. La ricerca considera l'impatto della crisi economica e dei cambiamenti nelle dinamiche relazionali dovuti al lockdown, che, secondo la letteratura scientifica, hanno contribuito ad un aumento dell'interesse degli utenti sulle piattaforme dell'industria del sesso e ad un cambiamento narrativo nel racconto mediatico (Jones, 2022). I trenta articoli selezionati sono stati analizzati attraverso un metodo qualitativo combinato di analisi del contenuto e CDA (Critical Discourse Analysis). L’analisi del contenuto è stata applicata alle immagini allegate agli articoli, ed ha fornito una panoramica introduttiva del tema generale della notizia, categorizzandola (ad esempio: crimine, intervista ad una sex worker, easy money, ecc.). L'Analisi Critica del Discorso (Richardson, 2007) è stata scelta come metodo per esaminare l’articolo all’interno del suo contesto sociale, esplorando e incrociando le seguenti categorie: valore notizia, tono di voce, stereotipi, referenti, figure retoriche e framework ideologico. I risultati preliminari rivelano tratti comuni ai due paesi nella costruzione identitaria delle sex workers negli articoli di giornale; in particolare, l'accento sul crimine, dimostrato dall'alto numero di articoli, e l’incalzante presenza di domande relative alle relazioni personali delle lavoratrici intervistate. Emergono anche differenze significative: la narrazione italiana è contrassegnata da una maggiore prevalenza di stereotipi, e da una attenzione molto scarsa alle effettive condizioni di vita delle sex workers, a differenza della narrazione belga. Il confronto delle narrazioni mediatiche tra due paesi europei è un significativo punto di riflessione circa l'attenzione ai diritti umani durante periodi di crisi sociale. L'Italia, nelle sue politiche, sembra essere meno attenta ai diritti delle minoranze, tra cui individui LGBTQIA+, donne e migranti. Le sex workers non solo, spesso, appartengono a questi gruppi, ma subiscono anche una forte stigmatizzazione pubblica, e la narrazione mediatica sembra allinearsi con la limitata attenzione istituzionale. Al contrario, in Belgio, un paese più attento ai diritti civili delle minoranze, la narrazione mediatica è meno stereotipata, offrendo un'identità più complessa alle sex workers. Perché l’occupazione femminile non decolla? Il rapporto tra sistema di tassazione, agevolazioni per la famiglia e ingresso delle donne nel mondo del lavoro Università La Sapienza, Italia Nel mercato del lavoro c’è un muro invisibile che separa uomini e donne ed è dato da un divario di genere che supera i 19 punti percentuali. Obiettivo del lavoro è indicare alcune delle cause per le quali in Italia l’occupazione femminile non riesce a decollare. Sono diversi i fattori, sia legati al contesto economico globale (pensiamo alla pandemia da Covid 19) sia al contesto socio economico e culturale dei singoli paesi, che hanno un ruolo nell’impedire e/o rallentare l’ingresso e la permanenza nel mondo del lavoro delle donne e nel perpetuarsi di un modello sociale che vede l’uomo come breadwinner e la donna come caregiver. Il presente lavoro analizza in particolare gli effetti e le potenzialità che derivano non solo dal sistema di tassazione ma anche dal sistema delle agevolazioni legate alla famiglia qui analizzata come luogo di produzione di beni, servizi e redditi e come ammortizzatore sociale1. Partendo dall’osservazione dei dati sul divario occupazionale di genere e dall’analisi del sistema famiglia-lavoro, si passano a rassegna i diversi modelli di tassazione e gli strumenti che hanno un potenziale impatto sull’offerta di lavoro da parte delle donne. L'analisi prenderà in considerazione alcuni recenti studi anche della Banca d’Italia sul Fisco, in particolare sul ruolo della detrazione per il coniuge a carico, e sul sistema di welfare italiano per dimostrare che sia il sistema di tassazione sia il sistema legato alle agevolazioni presentano meccanismi che disincentivano l’ingresso e la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Il lavoro presenterà delle possibili soluzioni da inserire nel sistema per frenare questi effetti disincentivanti e per dare impulso al lavoro femminile. Meccanismi di premialità per le famiglie dove entrambi i coniugi lavorano, come quelli previsti per l’assegno unico (D. Lgs 29 dicembre 2021, n. 230) che riprendono modelli già sperimentati in altri paesi, hanno una portata innovativa in quanto tentano di compensare, almeno in parte, l’impatto negativo che alcuni strumenti di sostegno rischiano di avere sull’offerta di lavoro da parte delle donne. Nel contesto attuale italiano il costo che genera il lavoro femminile in termini di maggiori imposte e di perdita dei benefici associato a una carenza di servizi capaci di avviare un processo di defamilizzazione,esternalizzando una parte dei carichi di cura, pone l’occupazione femminile in un circolo vizioso. L’incrocio tra sistema di tassazione, agevolazioni e mercato del lavoro si rivela allo stesso tempo gendered2 e genderizing. UNO SGUARDO INTERSEZIONALE SULLE PRATICHE DI VALUTAZIONE E CERTIFICAZIONE DELLE COMPETENZE Università degli Studi di Bari "Aldo Moro", Italia La Global Convention on the Recognition of Qualifications concerning Higher Education (UNESCO, 2019) esorta ad assicurare a tutti gli individui il diritto di vedersi riconosciute le precedenti esperienze di apprendimento (in ambito formale, non formale e informale) in modo trasparente e non discriminatorio al fine di supportare realmente l’opportunità all’apprendimento permanente per chiunque, possibilità eque di accesso a istruzione superiore o di ricerca di occupazione. Il presente contributo si interroga con un’ottica di genere e intersezionale (Crenshaw, K., 1989) sull’esistenza, a livello internazionale, e sulla validità di procedure di valutazione, riconoscimento e validazione di competenze acquisite precedentemente in un’ottica di continuum educativo (Merico; Scardigno; 2023), destinate prioritariamente a target sensibili (donne rifugiate, richiedenti asilo, persone con background migratorio) sui quali pressante può essere la “minaccia dello stereotipo” (Steele, Claude M. 1997) da parte di se stessi, della società, del valutatore, e di cui il capitale culturale spesso non è riconosciuto o valorizzato. Valorizzare le soft skill di soggetti costretti a migrazioni è cruciale per rendere riconoscibile a livello sociale il bagaglio di risorse che portano con sé e le loro potenzialità, concorrendo ad una integrazione attiva e può avere conseguenze importanti sulle loro opportunità di vita, in particolare in ambito professionale e accademico, ma anche personale e sociale. Il rischio che emerge, all’interno di una cornice in cui tende a predominare una razionalità neoliberista, è quello di una possibile configurazione delle competenze e della logica che le sostiene come dispositivi di soggettivazione e inferiorizazzione che mirano ad una economicizzazione di ogni aspetto dell’esistenza e a restituire una visione depauperata dell’umano. “Impresa di sé", “imprenditore di se stesso” (Gorz, 2003, Foucault, 2005), è la norma che sempre più viene interiorizzata dai soggetti agenti con conseguente esacerbazione della competitività, dell’individualismo, dell’autoreferenzialità, della massimizzazione dell’utilità individuale, della solitudine e del timore dell’alterità (d’Aniello, 2023). Accanto al sistema religioso, familiare, giuridico, politico, dell’informazione, l’ambito dell’istruzione, quindi della valutazione e delle competenze, può essere letto come una forma di Ais (Apparato Ideologico di Stato, Althusser, 1976), con l’obiettivo predominante di riprodurre “forze produttive e rapporti di produzione”, un assoggettamento servile a dinamiche di potere dominanti e un’esposizione differenziata a varie forme di precarietà. Indagare tali dinamiche con una prospettiva di genere e intersezionale e un approccio valutativo di tipo realistico e critico (Pawson; Tilley; 1997) consente di far luce negli interstizi, di soffermarsi su identità definibili come “incroci di dinamiche discriminatorie” o comunque portatrici di svantaggio e difficoltà, e di far emergere specifiche problematiche o successi, e, con uno sguardo costruttivista, mettere in evidenza ostacoli strutturali. La ricerca prevede la realizzazione di una ricerca bibliografica mirata e l’analisi secondaria dei documenti al fine di ricostruire le pratiche e le esperienze internazionali più significative per la certificazione delle competenze delle donne migranti e uno studio comparativo delle pratiche analizzate. Understanding society through politics of belonging: the case of Kurdish women in diaspora Università di Bologna, Italia May (2011) defines belonging as a sense of ease with oneself and one’s surroundings. Miller proposes that belonging is ‘the quintessential mode of being human [...] in which all aspects of the self, as human, are perfectly integrated – a mode of being in which we are as we ought to be: fully ourselves’ (2003: 218). This paper considers belonging an important aspect of being a person: it is ‘fundamental to who and what we are’ (Miller, 2003: 217). Belonging involves a process of constructing a sense of identification with one’s social, relational, and material surroundings (Miller, 2003) or ‘of recognizing – or misrecognizing – the self in the other’ (Leach, 2002: 287). This paper analyzes the politics of belonging through meanings of a sense of home and sense of belonging found in the 19 biographical narratives of three-generation Kurdish-Alevi women who come from Northern Kurdistan and Turkey and live in the diaspora in Germany. This research focuses on the collective memories, life stories, migration experiences, and diaspora effect in making and re-making homes, sense of belonging(s), and identities from a gendered and inter-generational perspective. This intersectional study will show what it feels like to feel at home in terms of belonging and identities: what is home, how diaspora influences/forms/changes the idea of home, how the host country influences the concept of home, what are the inter-generational transmissions of the sense of home, belonging and identities? The politics of belonging is a complex issue. It is more than everyday life structure and encompasses the relational, cultural, and sensory connections; in this sense, analyzing the ‘sense of home and belonging’ found in the narratives of Kurdish Alevi women in the diaspora shows transformation not only from one generation to other but it also indicates a broader social change within the societies they are linked to because experiences of belonging and identities are dynamic and sensitive to changes (Armbruster, 2002; May, 2011; Yuval-Davis, 2006) since self and society are interconnected and cannot be analyzed separately (Simmel 1964; Elias and Schröter, 2001; May 2011). In this research, the biographical approach has been considered as more than just an interview method since narratives on belonging(s) and identities which are constituted within, not outside representation, arise from the “narrativization of the self” (Hall 1996:4). According to Apitzsch and Souti (2007) biographical research is interested in the ‘process-related’ and ‘constructive nature of life histories’, and it distances itself from identity models which regard identity as something static and rigid. Biographical methods offer a major understanding of the connections between agency, social structures, and processes: ‘‘how individuals experience the objectively structuring, empirically observable features that place them historically where they are’’ (Erben, 1998:14 in Woolley, 2009:18). For this reason, the biographic interview as research method is crucial in understanding the relationship between the self and the structure and the ‘embeddedness of the biographical account in social macro structures’ (Apitzsch and Siouti. 2007:7). |
14:00 - 15:30 | Sessione 1 - Panel 9: L'intreccio tra vita familiare e professionale: una prospettiva di genere e generazionale Luogo, sala: Aula T02 Chair di sessione: Sara Mazzucchelli |
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L'intreccio tra vita familiare e professionale: una prospettiva di genere e generazionale 1Università Cattolica di Milano; 2Università di Macerata; 3Università degli Studi di Milano-Bicocca; 4INAPP - Struttura Mercato del lavoro L'intreccio tra vita familiare e professionale: una prospettiva di genere e generazionale: Chair: Sara Mazzucchelli
Il discorso sulla conciliazione tra famiglia e lavoro non è certamente nuovo ed è profondamente mutato negli ultimi anni: se fino a qualche decennio fa prevaleva una visione di contrapposizione tra questi due ambiti, le trasformazioni tecnologiche, della famiglia e dell’organizzazione del lavoro hanno mutato sostanzialmente questo scenario. Possiamo cogliere questo cambiamento di concezione nelle prospettive teoriche che negli anni hanno analizzato il complesso legame tra famiglia e lavoro. Se originariamente prevalevano modelli basati su una visione dicotomica - come quello del conflitto - oggi prevalgono modelli che si focalizzano maggiormente su una visione dinamica dei due ambiti. Un approccio recente particolarmente interessante e in linea con una visione dinamica della relazione famiglia-lavoro è la teoria del confine (Clark, 2000), che rilegge il rapporto tra vita lavorativa e familiare attraverso la metafora dell’attraversamento dei confini. Ognuno di noi quotidianamente varca i confini tra lavoro familiare e professionale; tali confini, ad esempio, sono resi particolarmente permeabili dalla tecnologia, oppure vengono continuamente varcati da coloro che hanno un’attività a conduzione familiare o lavorano da casa. Questo apre un ricco filone di analisi sulla natura dei confini, la loro permeabilità, la facilità con cui possono essere ridefiniti in diversi momenti della nostra vita. La conciliazione famiglia-lavoro, inoltre - per lungo tempo considerata una questione dirimente per le donne e, in tempi più recenti, per i genitori con bambini piccoli (0-3 anni) – comincia a essere considerata come un life long task che concerne le differenti transizioni familiari (figli piccoli, in età scolare, adolescenti) e intreccia le generazioni (es. la cura bambini, dei familiari anziani oppure dei nipoti). Appare dunque maggiormente pertinente utilizzare il termine intreccio tra famiglia, cura e lavoro, anziché conciliazione, il cui rimando semantico è fortemente ancorato al conflitto, alla controversia e richiama un’originaria frattura tra la vita lavorativa e familiare che deve essere in qualche modo ricomposta trovando un compromesso, una pacificazione, un bilanciamento (nella lingua inglese, infatti, si parla di work-life balance). La dimensione conflittuale esistente tra vita personale e lavorativa non è certamente una sfida irrilevante e superata nell’esperienza di vita dei lavoratori oggi; tuttavia, il discorso che analizza la complessa dinamica tra queste due sfere di vita non si limita né può ridursi a questo. La letteratura più recente, infatti, evidenzia chiaramente come vita lavorativa e familiare si innestino in un complesso intreccio. Parola che, rimandando all’“insieme dei fili che costituiscono l’ordito e la trama di un tessuto” (Dizionario Linguistico Garzanti), suggerisce l’immagine di un’articolazione sensata e complessa; un insieme dunque di elementi differenti, che però vanno guardati da una prospettiva ampia per comprenderne il completo significato. Il panel, attraverso i contributi proposti, intende offrire una riflessione ampia volta a comprendere criticamente gli intrecci ad oggi esistenti tra gli ambiti di vita fondamentali delle persone, cogliendo il dipanarsi non solo della dimensione di genere e intergenerazionale, ma l’articolarsi della riflessività personale e relazionale. Tale intreccio riflessivo è particolarmente evidente nei contributi su imprenditoria femminile e sul family business; il paper relativo al lavoro da casa durante la pandemia ben evidenzia la flessibilità legata alla riarticolazione dei confini spazio-temporali ed, infine, l’analisi relativa alle dimissioni delle madri mette in luce la persistenza di un impatto di genere. . Contributi L’imprenditoria femminile nel contesto italiano: quale intreccio tra vita familiare e professionale? Maria Letizia Bosoni, Sara Mazzucchelli, Letizia Medina,
Le ricerche internazionale evidenziano che l'imprenditorialità è un fenomeno caratterizzato da ampie differenze di genere, dove la presenza femminile è ancora ridotta, soprattutto nel contesto italiano e risente fortemente del gender gap. Diversi studi hanno evidenziato che non solo gli uomini sono più propensi delle donne ad avviare un'attività in proprio, ma anche che quando le donne lo fanno incontrano più ostacoli (Orhan, Scott 2001). Le teorizzazioni sulle motivazioni che spingono all'imprenditorialità distinguono tra imprenditorialità di necessità e imprenditorialità di opportunità (Reynolds et al. 2005). Molte donne avviano la propria attività al fine di raggiungere un miglior equilibrio tra lavoro e responsabilità familiari, in questo senso le donne considerano il lavoro autonomo come un mezzo per conciliare meglio (McGowan et al., 2012). Partendo da queste premesse, il presente studio si propone di identificare le variabili chiave che influenzano la scelta imprenditoriale delle donne, indagando la propensione all'imprenditorialità femminile, i fattori ostacolanti e facilitanti e soprattutto l’intreccio tra imprenditoria e cura familiare. Lo studio fa parte di un più ampio progetto, condotto in Italia nel 2023. In particolare, per indagare la propensione all’imprenditoria delle donne e la conciliabilità con le esigenze familiari si è adottata una metodologia qualitativa: sono stati condotti 4 focus group con 36 donne italiane non lavoratrici di età e carichi familiari diversi (con/senza figli) per capire se stanno progettando o possono considerare di avviare un'impresa; inoltre sono state condotte 20 interviste semi-strutturate online, 10 con imprenditrici italiane e 10 con imprenditrici straniere, di imprese medio-piccole, con diverse responsabilità di cura e appartenenti a diversi settori imprenditoriali. Focus group e interviste sono stati registrati, trascritti e si è proceduto all’analisi del contenuto, utilizzando il software NVivo, che ha permesso di individuare le categorie utili a comprendere le caratteristiche dell'imprenditoria femminile italiana e delle imprenditrici. È stata inoltre condotta un'analisi lemmatica utilizzando T-Lab per comprendere i principali fattori associati all'imprenditoria femminile. La ricerca evidenzia una scarsa percezione di supporto e di riconoscimento dell’imprenditoria femminile nel contesto italiano, emerge il ruolo delle reti di supporto nella promozione dell'imprenditoria femminile, con un'enfasi specifica sull'impatto delle connessioni familiari e sociali. Queste reti sono importanti durante le prime fasi della creazione di un'impresa e nella conciliazione tra vita lavorativa e familiare. Un tema certamente importante nel racconto sia delle donne disoccupate sia delle imprenditrici riguarda la conciliazione famiglia-lavoro. Mentre tra le disoccupate è comune una visione fortemente conflittuale del rapporto tra questi due ambiti (dato curiosamente trasversale ai carichi di cura), per le intervistate la relazione tra gli stessi appare certamente faticosa ed impegnativa ma non impossibile: la fatica è da attribuire non solo ad un impegno in termini di tempo e responsabilità, ma anche ad un impegno identitario ad un continuo lavoro nel creare e mantenere confini ottimali tra i due ambiti: al contempo la scelta imprenditoriale è fonte di libertà e flessibilità e quindi di benessere e soddisfazione. Si coglie sia nelle disoccupate sia nelle imprenditrici il desiderio di una messa in gioco positiva in una attività in team, ove si condivida un sogno con colleghe e colleghi, le competenze specifiche di ciascuno si integrino reciprocamente e vengano valorizzate, le relazioni esistenti si connotino come positive e fiduciarie. Si percepisce chiaramente la dimensione della cura, tipicamente femminile: l’impresa delle donne è una attività curata sia negli aspetti organizzativi e strutturali sia in quelli relazionali e umani. Risulta evidente come la relazione tra famiglia e lavoro non è soltanto una questione di organizzazione ma riguarda l’identità della persona, che nella riflessione sociologica appare fortemente relazionale. . Il family business: una ricerca su famiglia e lavoro in una prospettiva di genere in Italia e Spagna Palermo Melanie Sara, Università degli Studi di Macerata
Il contributo analizza il tema del family business, considerando gli elementi che lo contraddistinguono, ovvero famiglia e impresa, e il rapporto tra vita lavorativa e familiare, adottando una prospettiva di genere attraverso una ricerca condotta in Italia e Spagna. La compresenza dei sistemi azienda e famiglia nelle imprese a conduzione familiare ne rappresenta un elemento di unicità, ma anche quello maggiormente problematico (Lattanzi et al., 2017). Infatti, da un lato, l’azienda si basa sulla razionalità e persegue un obiettivo puramente economico (la generazione del profitto), raggiungibile attraverso logiche orientate alla produttività e strumenti formali (relazioni economiche contrattualizzate), in questo caso i soggetti rappresentano degli strumenti; dall’altro, la famiglia coinvolta nell’azienda ha come obiettivo il benessere economico e socio-emotivo dei suoi componenti, dunque il successo economico aziendale è uno strumento per raggiungere il benessere familiare. Inoltre, i rapporti familiari si basano sulla reciprocità, la fiducia incondizionata, la cooperazione (Lattanzi et al., 2017). Tale intreccio può quindi avere ripercussione su molteplici aspetti della vita familiare e aziendale, in quanto le relazioni di un sistema vengono a sovrapporsi a quelle dell’altro, avviene quindi una sovrapposizione istituzionale dei ruoli. Inoltre, ciò può ostacolare la conciliazione famiglia-lavoro (Donati & Prandini, 2009), fortemente caratterizzata da differenze di genere che tendono a penalizzare le donne, sulle quali si fa affidamento per i compiti di cura ed educativi (Viganò et al., 2022). Alla luce di quanto illustrato, il contributo mira a comprendere le criticità della sovrapposizione tra famiglia e impresa, ovvero tra i legami di parentela e quelli lavorativi, attraverso una prospettiva di genere. Adottando una metodologia qualitativa, sono state svolte 21 interviste nel periodo compreso tra ottobre 2022 e maggio 2023. I 7 casi studio corrispondono ad aziende casearie in Spagna (3 nella Comunità Autonoma di Castilla y Leon), e Italia (quattro aziende nelle regioni Marche e Umbria). Le imprese sono state selezionate secondo i criteri della dimensione (micro e piccole) e del genere del titolare attuale (imprese a conduzione maschile e femminile); sono stati intervistati soggetti appartenenti a diverse generazioni. In riferimento al genere dei partecipanti, sono state intervistate 10 donne (5 in Italia, 5 in Spagna) e 11 uomini (5 in Italia, 6 in Spagna). I temi principali emersi dalla ricerca riguardano la sovrapposizione tra il sistema famiglia e impresa, maggiormente problematica per le donne, la quale consiste principalmente nella difficoltà di godersi il tempo libero con i familiari e di conciliare famiglia e lavoro, nonché nella possibilità di riversare le tensioni lavorative sulla famiglia e di confondere le gerarchie dei due sistemi. L’elemento della conciliazione è determinante se si considerano le ragioni che hanno spinto i soggetti intervistati ad entrare in azienda: l’autonomia necessaria per la conciliazione, la certezza di occupazione e l’accadimento di eventi personali e familiari (matrimonio, volontà di avere dei figli) hanno notevolmente condizionato le rispondenti donne. Si può quindi notare come le aziende di questo tipo rappresentino un fenomeno complesso, in cui la volontà di coniugare la vita lavorativa e familiare rappresenti un motivo determinante per l’ingresso delle donne in azienda; tuttavia, la forma aziendale e la sovrapposizione tra i due sistemi che lo denota ne rappresentano una forte criticità, nonché un ostacolo per la conciliazione famiglia-lavoro. Il contributo permette quindi di comprendere un fenomeno sociale ed economico complesso caratterizzante la società, ovvero quelle delle aziende a conduzione familiare, considerando l’equilibrio tra famiglia e lavoro. . Conciliazione dei tempi e degli spazi: lavoro retribuito e non retribuito nel primo lockdown italiano Annalisa Dordoni, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Nella normativa italiana coesistono due modalità di lavoro da casa: il telelavoro, definito dai giuslavoristi già nel 1999; e il lavoro agile, smart working, comparso nel 2017. Nel caso del telelavoro le aziende sono tenute a garantire, a loro carico, idonee postazioni nelle case del personale e orari di lavoro prestabiliti con diritto alla disconnessione. Invece, nel caso dello smart working l’enfasi è posta sull’autonomia e sulla progettualità del lavoro. Questa modalità dovrebbe prevedere una ridefinizione dei processi organizzativi. In Italia, durante la pandemia di Covid-19, gran parte delle aziende, nonché le università, hanno implementato, ove possibile, il lavoro da casa per tutto il personale, in particolare nella modalità definita in Italia smart working o lavoro agile. Si è trattato di lavoro da casa in situazione assolutamente emergenziale. Di fatto, durante la pandemia il lavoro si è solo trasferito dalle sedi aziendali alle case del personale, senza cambiamenti organizzativi, perciò l’utilizzo del termine smart working è stato definito da alcuni come improprio e sarebbe per altri meglio discutere di telelavoro. A causa dell'emergenza sanitaria, infatti, si è attuato un blocco totale della libertà di movimento e un conseguente confinamento domestico, per cui tutte le attività remotizzabili sono state trasferite nelle abitazioni individuali. Scopo della ricerca è analizzare le relazioni vita-lavoro ponendo specifica attenzione al lavoro da remoto connesso alle restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19. Il materiale empirico consta di 71 immagini del lavoro da casa durante il lockdown di marzo-aprile 2020, scattate, scelte e inviate, entro il 18 maggio 2020, da 71 lavoratori e lavoratrici. Rispetto al totale, 23 sono uomini e 48 donne, e 37 del totale sono persone con figli/e, di cui 12 padri e 25 madri. È stata utilizzata la tecnica native image making (Warren 2019; Pauwels e Mannay 2019) che permette di osservare la realtà così come esperita dagli attori sociali, senza influenzare la loro visione del mondo. Contestualmente all’upload delle fotografie, è stato chiesto di compilare un breve questionario, in cui fornire una motivazione della scelta e alcune informazioni socio-demografiche. I vissuti del lavoro da casa sono intrecciati alle disuguaglianze di classe e di genere connesse, da un lato, alla questione abitativa e di condivisione delle case e, dall'altro, all’implosione degli spazi e dei tempi del lavoro retribuito e del lavoro (non retribuito) di cura. Questo studio ha permesso di osservare gli spazi e i tempi del lavoro da casa e la loro destrutturazione e implosione domestica. L’esperienza del lavoro da casa è condizionata da fattori strutturali, come la classe e il genere. Lavoratrici e lavoratori precari e di classe popolare hanno minori risorse in termini di spazio, e inoltre, a seguito della chiusura delle scuole, padri e madri si sono ritrovati a gestire o supervisionare le attività dei figli a tempo pieno, con un aumento del tempo dedicato alla cura, soprattutto per le donne. Ciò ha causato, in Italia, forte stress lavoro (da remoto) - correlato in particolare per i/le giovani precari/e e per le madri lavoratrici (Manzo e Minello 2020, Carreri e Dordoni 2020, Dordoni 2023). . Donne al bivio: maternità e dimissioni volontarie in presenza di figli 0-3 anni Valentina Cardinali INAPP (Struttura Mercato del lavoro)
In un contesto di criticità strutturali della partecipazione femminile al mercato del lavoro, il target delle madri (25-45 anni) rappresenta un segmento problematico in ogni stadio della congiuntura economica. Le curve dell’occupazione analizzate per genere dimostrano che mentre in presenza di un figlio la partecipazione maschile aumenta, quella femminile arretra. A seguito della maternità, 1 donna su 6 esce dal mercato del lavoro, per un set di motivazioni che ha al centro l’esercizio in prima persona della funzione di cura. Anche in coppie dual earner, infatti, il care burden viene sostenuto prevalentemente dalle donne per un concorso di cause che intreccia la dimensione culturale con la condizione di inferiorità reddituale delle donne rispetto agli uomini -situazione che rende comunque le madri l’anello più debole in scelte di carattere familiare. In questo scenario, il paper affronta nello specifico il tema delle dimissioni dal lavoro di genitori con figli da 0 a 3 anni, che, nel nostro ordinamento, ove vige il divieto di licenziamento ne primo anno di vita del figlio, sono disciplinate dall’art .55 del dlgs 151/01. Tale dispositivo prevede un regime di particolare tutela dei genitori, richiedendo per l’efficacia delle dimissioni, una “convalida” da parte dell’Ispettorato del lavoro territorialmente competente, successiva alla verifica, tramite questionario e colloquio, della genuinità delle motivazioni e dell’assenza di costrizioni esterne alla decisione di lasciare il lavoro. L’analisi delle attività di convalida (cfr. Ispettorato Nazionale del lavoro – Inapp Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri ai sensi dell’art. 55 del Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151- anno 2022), mostra la forte connotazione di genere del dispositivo e delle motivazioni addotte per la scelta di dimissioni e fornisce, annualmente, evidenze quantitative dell’asimmetria dei ruoli di genere ancora esistente nella funzione di cura. Il paper analizzerà, quindi i trend del fenomeno a partire dall’analisi condotta sul dataset 2022 INL, e, attraverso anche il ricorso a specifici item contenuti nell’Indagine Inapp PLUS 2022, affronterà il ruolo che in questo trend ha esercitato la possibilità (dlgs 4 marzo 2015 n. 22) per il genitore che si dimette entro il primo anno del figlio, di ricevere la Naspi a seguito dell’ottenuta convalida, evidenziandone i vantaggi di breve termine, ma anche i rischi in prospettiva, non previsti né auspicati, di rafforzamento dell’inattività femminile. Questo esempio da un lato ripropone una riflessione sul tema del reale costo opportunità della partecipazione femminile e delle sue implicazioni, e dall’altro richiama la necessità, nel ciclo di vita della politica pubblica, di adottare il gender assessment sin dalla fase di policy design per rilevare e contrastare eventuali effetti divergenti che rischiano di ridurre il raggiungimento dell’obiettivo previsto. |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 1: Comprendere le relazioni supportive come esito di un capitale sociale generativo Luogo, sala: Aula Aldo Moro Chair di sessione: Donatella Bramanti |
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Comprendere le relazioni supportive come esito di un capitale sociale generativo 1Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano; 2Università degli Studi - Macerata; 3Università degli Studi - Salerno; 4IRPPS-CNR di Roma; 5Università degli Studi - Padova Chair: Donatella Bramanti Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Le relazioni supportive rappresentano una dimensione fondamentale delle dinamiche sociali contemporanee, evidenziando l'importanza delle relazioni umane e del capitale sociale generativo. Le relazioni supportive (Lakey, Cohen, 2000; Turner, Turner, 2013) rappresentano un elemento chiave nella rete di relazioni intersoggettive di un individuo. Esse comprendono il sostegno emotivo, morale e materiale fornito da familiari, amici, colleghi e altri significativi, e risultano fondamentali per affrontare le sfide della vita quotidiana e per mitigare gli effetti negativi dello stress, dell'isolamento e delle difficoltà personali. Il caregiving (Bruhn, Rebach, 2014), quale particolare forma di relazione supportiva, può essere definito come l'atto di fornire assistenza e cura, in modo assiduo e continuativo, a familiari appartenenti alla stessa o ad altre generazioni, spesso anziani, malati o disabili. Attraverso il caregiving, si manifesta una forma di sostegno e solidarietà tra le persone che può presentare i caratteri della reciprocità, all'interno della famiglia o nel contesto comunitario, contribuendo alla costruzione di legami interpersonali significativi e alla promozione del benessere individuale e collettivo. Il concetto di capitale sociale quale motore di tali relazioni, può essere inteso, a partire da una prospettiva interazionista strutturale (Degenne e Forsé 2004; Tronca 2013; Tronca e Sità 2019), come un tessuto sociale in grado di fornire risorse a coloro che vi partecipano attivamente. Questo capitale è definito sociale poiché si basa sulle relazioni sociali e consiste in ciò che fluisce attraverso le reti e nella struttura stessa delle reti. In questo senso, il capitale sociale funge da infrastruttura strategica immateriale che contribuisce in modo significativo allo sviluppo sociale, insieme ad altre forme di capitale quali quello umano, culturale ed economico. Questa concezione pone l'accento sull'importanza delle relazioni e della struttura sociale nell'orientare e facilitare lo sviluppo e il benessere della comunità. Il presente panel intende investigare le dinamiche, le sfide e le implicazioni delle relazioni di supporto sia intergenerazionali che all’interno del gruppo dei pari, con particolare attenzione alla dimensione familiare e alle differenze di genere. Attraverso riflessioni teoriche e i risultati di alcune ricerche si intende contribuire al dibattito aperto sulla capacità o meno delle relazioni alla base del capitale sociale, di non essere solo particolaristiche ma di produrre risultati positivi in termini di benessere individuale e di orientamento alla pro-socialità e al civismo. Il primo contributo esplora il tema del caregiving all'interno del contesto più ampio del social support, concentrandosi sull'importanza delle reti di supporto informale. Attraverso 40 interviste diadiche con caregiver di anziani fragili e le loro figure di sostegno, la ricerca evidenzia il ruolo cruciale di tali reti nel migliorare la qualità della vita dei caregiver, promuovendo la resilienza e facilitando l'adattamento alle sfide della cura. Il secondo contributo analizza i cambiamenti demografici che influenzano la cura degli anziani in Italia, sottolineando l'importanza dei legami familiari e delle reti di supporto sociale. Nonostante una maggiore condivisione delle responsabilità di cura, persiste una disuguaglianza di genere, con le donne che dedicano molto più tempo al caregiving informale rispetto agli uomini, compromettendo spesso la propria carriera e indipendenza economica. È necessario un impegno continuo per promuovere l'equità di genere nelle dinamiche familiari e nella distribuzione delle responsabilità di cura, per garantire modelli di caregiving sostenibili per le future generazioni. Il terzo contributo evidenzia l'aumento della vulnerabilità, soprattutto tra i giovani, a seguito delle crisi socio-culturali recenti, come la pandemia. Si sottolinea l'importanza del supporto sociale tra pari nel contrastare questa situazione, aiutando i giovani a sviluppare nuove abilità e a migliorare il loro benessere. Si esplora la teoria dell'apprendimento sociale di Bandura e si presentano esempi di supporto sociale tra pari utilizzati per affrontare problemi come il razzismo e il bullismo, mostrando come possano essere efficaci nel promuovere la cura e la prevenzione dei problemi sociali. L’ultimo contributo affronta il tema dell’affido attraverso un’analisi empirica sul ruolo delle famiglie affidatarie che evidenzia l'importanza delle relazioni supportive nello svolgimento dei loro compiti di cura. Attraverso un approccio integrato, vengono analizzate le reti di supporto sociale delle famiglie affidatarie rivelando necessità e risorse del percorso di affido. I risultati mostrano come le relazioni supportive siano cruciali per la formazione del capitale sociale familiare, mentre il coinvolgimento degli operatori dei servizi sociali contribuisce a promuovere tali reti e a supportare le famiglie nelle loro molteplici funzioni. . Il “caregiving”: riflessioni sociologiche su un concetto polisemico e primi dati da una ricercaLucia Boccacin, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano Sara Nanetti Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Il tema del caregiving si colloca nel più ampio contesto riflessivo e interpretativo del social support, che riguarda modalità di sostegno plurime (fisiche-psichiche, emotive, strumentali, relazionali, Israel 1988) e che in genere si realizza nell’ambito dei social network. C’è un’area cuscinetto tra il social support e il caregiving vero e proprio, rappresentato dai network di supporto informale che aiutano i caregiver direttamente impegnati nei compiti di cura con i destinatari delle prestazioni. Le dinamiche di supporto sono articolate e coinvolgono i soggetti che prestano aiuto ai caregiver, gli stessi caregiver informali e professionali e i destinatari delle loro prestazioni; inoltre riguardano i tipi di relazioni formali e informali che si sviluppano danno origine a diversi reticoli sociali. Concettualmente il termine “caregiving”, ovvero “prestare cura”, connette due termini: la cura e il dare, l’offrire. Etimologicamente il termine “cura” significa riguardo, interessamento attento e sollecito, prestare attenzione, mentre il termine “giving “evidenzia un processo di assunzione di responsabilità personale, volto a favorire il benessere di altri, sulla base del riconoscimento dei loro bisogni e della propensione o della necessità di essere proattivi nei loro confronti (Oliner e Oliner (1995). Caregiving si configura pertanto come un termine polisemico; non è una azione puntuale e specialistica, ma è un processo, richiede il concorso di più soggetti e genera esiti a livello micro (della persona) a livello meso (nell’ambito delle reti parentali o delle équipe di professionisti) a livello macro (nei contesti sociali). Richiede inoltre una elaborazione mentale oltre che pratica tra i soggetti in relazione: tale elaborazione, essendo immateriale, non è visibile e pertanto raramente viene considerata. Dunque, il caregiving può essere inteso come processo di elaborazione - sia mentale sia pratica - che connette relazionalmente i soggetti in causa avendo come obiettivo la realizzazione di un processo di cura. Ne emerge che la messa in atto di un processo di caregiving bilanciato sotto il profilo relazionale è l’esito della combinazione di fattori materiali e immateriali, di risorse molteplici e differenziate e di qualità delle relazioni, di soggetti con ruoli e collocazioni sociali differenti, di supporto concreto ma anche emotivo e psicologico, di empatia umana ma anche mentale. Il tema è oggetto di una ricerca mixed method di carattere nazionale finanziata dai fondi del Pnrr dal titolo: Il capitale sociale nelle pratiche di cura in Italia: caregiving e supporto sociale in tempi di pandemia. Im essa sono state condotte 40 interviste diadiche che hanno coinvolto i caregiver di anziani fragili e le loro figure di sostegno. I caregiver coinvolti nelle interviste comprendono giovani caregiver (10 casi), caregiver senior (20 casi) e assistenti professionali stranieri (10). Il focus sulla diade composta da caregiver e persona di riferimento ha consentito di ricostruire il tessuto di relazioni di aiuto e supporto della diade che sostengono il caregiver nei suoi compiti di cura informali o formali. A partire dall’analisi del contenuto delle interviste verranno presentate le dimensioni del capitale sociale generate dalla relazione diadica. In particolare, si presenterà l’interazione tra fiducia, supporto, reciprocità, riconoscimento e dinamiche di potere e conflitto interne ed esterne alla diade. Dai risultati delle analisi si evidenzia l'importanza cruciale delle reti di supporto informale nel contesto del caregiving e l’impatto che queste hanno nel migliorare la qualità della vita dei caregiver, facilitando una maggiore resilienza e un migliore adattamento alle sfide incontrate nel percorso di cura. . Cura degli anziani e relazioni familiari: disuguaglianze di genere nei modelli di caregiving in italia Isabella Crespi Università di Macerata Marta Scocco Università di Macerata
Negli ultimi decenni, l'Italia ha assistito a significativi cambiamenti socio-demografici che hanno impattato direttamente sulla cura degli anziani e sulle dinamiche familiari. L'aumento dell'aspettativa di vita e il calo delle nascite stanno contribuendo al rapido invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno richiede un ripensamento dei tradizionali modelli di cura e una maggiore attenzione alle fragilità degli anziani. Un'analisi approfondita dei dati Istat mostra che la maggior parte degli anziani, soprattutto se non auto-sufficienti, dipende ancora principalmente dalle proprie famiglie per le attività di cura. Il tema della cura e dei legami familiari costituisce quindi una questione di rilevanza sempre maggiore, specialmente in un contesto demografico come quello italiano in cui gli effetti dell’invecchiamento della popolazione si fanno sempre più evidenti. Secondo uno studio condotto dall'Istat, l'Italia è attualmente uno dei paesi più “vecchi” al mondo, con oltre il 23% della popolazione over 65. Paradossalmente, in un Paese la cui spesa sociale pubblica è ancora sbilanciata sulle pensioni e la cui popolazione è sempre più anziana, l’invecchiamento e la sua gestione sostenibile hanno a lungo faticato a trovare spazio nell’agenda pubblica. Da un punto di vista culturale in Italia il concetto di famiglia riveste un ruolo centrale e il sostegno reciproco tra i membri della famiglia è considerato un valore fondamentale nella definizione delle relazioni intergenerazionali. Tuttavia, i cambiamenti demografici, sociali ed economici degli ultimi decenni hanno portato a una ridefinizione dei modelli familiari e dei ruoli all'interno della famiglia. In particolare, il crollo della natalità, l'aumento dell'aspettativa di vita, la diminuzione delle dimensioni familiari e i relativi cambiamenti sulla “rete di sostegno familiare potenziale”, hanno comportato una diminuzione della disponibilità di caregiver primari in ambito familiare, rendendo la cura degli anziani una sfida sempre più complessa per molte famiglie italiane, anche in relazione alle questioni di genere. Questo paper si propone di esaminare le sfide legate alla cura degli anziani, mettendo in evidenza l'importanza dei legami familiari e delle reti di supporto sociale nel contesto della società contemporanea. Ci si chiede quale sia oggi nella società italiana il ruolo della famiglia e soprattutto delle donne nella cura degli anziani? Quali gli effetti sulla disparità di genere, sulla partecipazione delle donne al lavoro? Quanto è sostenibile il modello di careving italiano nel lungo termine? Sebbene finora stata la donna a svolgere il ruolo principale di caregiver, si sta osservando una transizione verso una maggiore condivisione delle responsabilità di cura tra i membri della famiglia. Questo può essere attribuito tra le altre cause, all'aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro e alla crescente consapevolezza dell'importanza della condivisione dei compiti di cura. Tuttavia, secondo le statistiche nazionali ed europee (Istat ed Eurostat), l'Italia si colloca tra i paesi con il più alto tasso di disuguaglianza di genere nelle responsabilità di cura non retribuita. Le donne italiane dedicano in media più del doppio del tempo degli uomini alle attività di caregiving informale, il che evidenzia la persistenza di disparità di genere nella distribuzione del lavoro di cura. Uno dei principali risultati dell’analisi dei dati secondari disponibili riguarda quindi il ruolo delle donne nella cura degli anziani perché la disuguaglianza di genere rimane una sfida significativa all'interno delle famiglie italiane. Infatti, nonostante i recenti progressi verso una maggiore parità di genere, le donne continuano a sopportare un carico sproporzionato di responsabilità di cura, spesso a discapito della propria carriera e indipendenza economica. A fronte delle ampie disparità strutturali presenti nella società italiana è necessario un impegno continuo per promuovere l'equità di genere anche nelle dinamiche familiari e nella distribuzione delle responsabilità di cura, al fine di garantire modelli di caregiving sostenibili per le future generazioni. . Capitale sociale e giovani: l’educazione fra pari come pratica di cura e supporto sociale Francesca Cubeddu IRPPS-CNR di Roma Emiliana Mangone Università degli Studi di Salerno
Le crisi degli ultimi decenni hanno dimostrato che la vulnerabilità è in aumento a causa delle trasformazioni socioculturali e naturali e ciò comporta che alcune fasce di popolazione già considerate vulnerabili lo siano ancora di più. La parte di popolazione che ha visto crescere la vulnerabilità è la fascia di popolazione giovane (età 14-34) che nell’attuale scenario post pandemico appare essere quella parte di popolazione che fa più fatica a uscire dagli effetti negativi che ha prodotto il lockdown per la diffusione del virus SARS-CoV-2. I giovani, infatti, risentono di uno spiazzamento sociale determinato dalle conseguenze prodotte dall’emergenza sanitaria, per via dell’aumento della criticità e delle vulnerabilità ma anche della mancanza di certezze, accresciute dalla diffusione online di false notizie. La situazione di incertezza e di vulnerabilità che i giovani vivono li rende bersagli, vittime ed esclusi dal contesto sociale che si palesa nella fragilità dei rapporti con una conseguente perdita di consapevolezza di sé e delle proprie capacità. Tale situazione di disagio può essere coadiuvata da azioni di supporto sociale in cui il “prestatore di supporto e cura” è un altro pari. Se si parte dal fatto che il miglioramento del benessere prende avvio dalle relazioni esperite all’interno del sistema culturale e del territorio di riferimento, le relazioni fra pari intese come capitale sociale (bonding e bridging) possono essere uno strumento per il supporto e la cura. Il “social supporter” è un pari (in questo caso un giovane) che attraverso la condivisione del proprio capitale culturale e sociale cerca di sostenere il cambiamento individuale degli atteggiamenti, lo sviluppo di nuove abilità o di nuove conoscenze ma anche un cambiamento a livello sociale, in modo da creare - attraverso forme di prossimità - benessere e partecipazione attiva dei suoi pari alla vita sociale. La teoria dell’apprendimento sociale, sviluppata da Bandura presuppone che nuovi comportamenti sono appresi con la creazione della consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni attraverso il processo di modellazione del comportamento dell’altro. È possibile, quindi, osservare che i giovani apprendano attraverso l’osservazione del comportamento del soggetto con il quale si identificano. E ciò si realizza attraverso l’educazione tra pari, che attiva un processo spontaneo di passaggio di conoscenze, emozioni, esperienze e atteggiamenti. Tale meccanismo è generatore di un cambiamento e di una spinta sociale che innesca nei giovani la ricerca di situazioni di benessere e un miglioramento della propria condizione. Un approccio educativo, che come afferma Freire, attraverso l’“azione culturale dialogica” innesca un supporto sociale fra pari che nella relazione, nello scambio, il sostegno e il dialogo diviene anche un sistema di cura. Diversificati sono gli esempi di supporto sociale fra pari, alcuni modelli sono utilizzati da organizzazioni del terzo settore per poter affrontare problematiche quali il razzismo, l’abbandono scolastico, la violenza di genere e il bullismo. Il supporto sociale, in questo caso, innesca un processo di cura educando l’altro (ma anche l’intera comunità) non solo al sostegno reciproco ma anche alla prevenzione e previsione degli effetti negativi determinati dai fenomeni richiamati. Attraverso l’educazione fra pari, in questo caso fra giovani, si attivano processi di supporto sociale che sono rigeneratori del tessuto identitario e sociale, ed il presente contributo vuole proprio analizzare, attraverso l’analisi empirica di casi nazionali e internazionali, alcuni esempi di supporto sociale fra pari come forma educativa di pratica di cura. . Il capitale sociale e i bisogni emergenti delle famiglie affidatarie: una ricerca nei CASF di Padova Daria Panebianco Università degli Studi di Padova Le famiglie affidatarie rappresentano una risorsa prioritaria in ogni progetto di affido (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2013), costituiscono un partner attivo, dei Centri per l’Affido, che si impegna affinché il percorso abbia un esito positivo e, pertanto, risponda ai bisogni del minore (Regione del Veneto, 2008), espletando un duplice ruolo nella sua cura e, allo stesso tempo, nella costruzione di un legame con la famiglia di origine. Un affido partecipato prevede una resilienza a trama sociale, in un gioco di rimandi in cui si producono relazioni e si sviluppano reti sociali. Secondo una prospettiva di community-care, l’istituto dell’affido è una risorsa che genera un bene relazionale accessibile a tutti i membri della comunità (Calcaterra & Raineri, 2018) e rappresenta, pertanto, una forma di solidarietà sociale. Trattasi di un intervento che non può essere definito in termini di prestazione, ma, al contrario, deve essere inquadrato come relazionale (Calcaterra, 2014). Le famiglie affidatarie, per poter adempiere alle funzioni preposte al loro compito di cura e costruzione di relazioni sociali significative, necessitano di essere incastonate in una rete di supporto, formale e informale, che favorisca l’accesso a risorse tangibili e non (Piel et al., 2017), in quanto un’importante forma di capitale sociale, che si ritiene essere necessaria nell’interesse dei minori e di tutti i soggetti coinvolti nel percorso di affido. Un bisogno segnalato dalle famiglie affidatarie, ad esempio, è quello di sentirsi sostenute dalle figure istituzionali, che dovrebbero consentire loro di identificarsi come partner dei servizi preposti alla realizzazione dell’istituto in oggetto, in un costante scambio comunicativo, dove le loro idee e opinioni vengano prese in considerazione (Mallette, 2020). L’accesso a diverse dimensioni di supporto sociale può offrire una prospettiva che facilita il successo della famiglia, e la connessione con altri soggetti che vivono l’esperienza di affido promuove una reciprocità negli scambi che riduce i livelli di stress (Lietz et al., 2016) e rende più competenti nella funzione di caregiver familiare. Il presente studio, facendo ricorso ad un approccio integrato avente ad oggetto il paradigma della Social network analysis e interviste qualitative semi-strutturate, ha ricostruito le reti supporto sociale di 8 famiglie affidatarie in carico ai Centri per l’Affido e la Solidarietà Familiare di Padova (CASF), con un focus sulla fase conclusiva del percorso di affido, a seguito del raggiungimento della maggiore età da parte dei minori. Inoltre, si è indagato il punto di vista dei 15 operatori dei servizi sociali di Padova per fare luce sulla consapevolezza acquisita rispetto ai bisogni delle famiglie affidatarie in carico, sulle criticità riscontrate e le possibili strategie per la diffusione di prassi operative adeguate e innovative. I risultati della ricerca contribuiscono a dare voce ai bisogni e ai punti di forza delle famiglie mettendo in luce la rilevanza delle relazioni supportive nella formazione del capitale sociale familiare. Allo stesso tempo, il confronto con e tra gli operatori ha consentito di estendere l’analisi a tutti i soggetti coinvolti nel percorso di affido riconoscendo il loro valore nel dare forma al capitale sociale per i/le ragazzi/e. Infine, lo studio evidenzia l'importanza delle famiglie affidatarie come risorsa fondamentale nel percorso di affido dei minori. Queste famiglie svolgono un ruolo attivo e multifunzionale, contribuendo alla cura dei minori e alla costruzione di legami con le loro famiglie di origine e con i servizi in grado di sviluppare reti sociali affidabili per il minore. |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 2: Understanding Media di McLuhan compie 60 anni. Istruzioni per l’uso di un classico irregolare Luogo, sala: Aula Calasso Chair di sessione: Stefano Cristante |
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Understanding Media di McLuhan compie 60 anni. Istruzioni per l’uso di un classico irregolare 1La Sapienza, Roma; 2Università di Chieti e Pescara; 3Iulm, Milano; 4Aldo Moro, Bari; 5Università del Salento Chair: Stefano Cristante, Università del Salento
Understanding Media di McLuhan compie 60 anni. Istruzioni per l’uso di un classico irregolare Nel 1964 comparve nelle librerie americane Understanding Media di Marshall McLuhan, e in poche stagioni ne furono pubblicate traduzioni in varie lingue. In Italia l’editore Il Saggiatore lo rinominò Gli strumenti del comunicare e lo fece uscire nel 1967. Ovunque uscì, quel testo suscitò interesse e polemiche. Molti furono i fattori che contribuirono alla popolarità del volume: il modo brillante, originale ed eccentrico in cui era scritto, la stagione culturalmente innovativa in cui aveva preso forma (alle soglie dell’ondate controculturale della seconda parte degli anni ’60), la diffusione planetaria dei media, rappresentata in modo plastico dal successo della televisione. Ma, soprattutto, il successo di Understanding Media si dovette alle tesi espresse da McLuhan. Per lo studioso canadese i media andavano considerati essenzialmente delle estensioni degli esseri umani, e come tali dovevano essere trattati. Prima di capire se potessero essere usati per migliorare la specie umana o per vessarla, andava capito come funzionavano, secondo una constituency tecnico-sociale. I media cambiavano gli equilibri e le proporzioni tra sensi e oggetti, tra percezioni e conoscenze umane. La loro “forma” interessava a McLuhan assai più del loro contenuto: allo studioso interessava il “cinema”, e non il genere di film proiettato o la storia che andava raccontando. Sul medium influiva la forma tecnica, cioè la definizione (alta o bassa), il grado di partecipazione che richiedeva al consumatore (forte o debole), la ristrutturazione dei rapporti spazio-temporali, il cambiamento che induce nell’organizzazione sociale. Prendevano così il via le celebri definizioni mcluhaniane di media caldi e media freddi, accompagnate dalle incursioni sull’intorpidimento del consumatore di fronte a media non ancora assimilati (da cui la metafora di Narciso), sull’inversione del medium surriscaldato e sui media come metafore attive. E, soprattutto, veniva a delinearsi l’aforisma-principe del nuovo linguaggio mcluhaniano, “the medium is the message”. Nel libro – ricordiamolo – dopo una complessa introduzione di una settantina di pagine McLuhan presentava una seconda parte di analisi dettagliate su un nutrito set di media, dalla “parola parlata” alla “automazione”, passando per “stampa”, “radio”, “televisione”, per un totale di 26 schede dedicate, tra cui trovavano posto media raramente considerati tali, come “gli alloggi”, “il numero” e “il denaro”. Understanding Media fece la fortuna di McLuhan ma fu anche molto contestato in numerose sedi accademiche, e anche in ambito sociologico. Oltre alle questioni di metodo (che McLuhan mutuava da un insieme di pratiche degli studi letterari e che non erano insensibili al fascino delle prassi delle avanguardie storiche), veniva contestato a McLuhan lo scarso interesse per la questione degli “effetti dei media” a breve termine, e il suo ignorare le vicende dei contenuti mediali, cioè delle rappresentazioni socio-culturali che attraversavano le narrazioni dei media. Inoltre, l’insistenza di McLuhan sull’impatto sociale delle tecnologie della comunicazione fu da più parti tacciata di “determinismo tecnologico”. Dopo essere stato osannato e criticato, il testo fu quasi dimenticato, fino a quando l’irrompere di internet e del digitale connesso nelle vite planetarie ne soffiò via la polvere accumulata. Diversi commentatori, a partire dal primo decennio del nostro secolo, ne sottolinearono il carattere di anticipazione strategica, in particolare basandosi su una lettura “profetica” del capitolo sull’automazione, in cui McLuhan parla di “creazione di una rete globale”, di “movimento istantaneo”, di “ritiro di manodopera dall’industria”, di “interdipendenza totale come punto di partenza”. Approfittando del 60° anniversario dell’uscita del libro, il panel si propone di articolare una riflessione sulla sua attualità e sul posto che può occupare in un cammino mediologico articolato e plurale, attento a questioni di carattere teorico generale e a problematiche più specifiche. . McLuhan Reloaded Giovanni Ragone, Università di Roma “La Sapienza” Pur strettamente legato alla cultura francese, dove su McLuhan profeta o scienziato ci fu un notevole dibattito, il nostro ambiente intellettuale si dimostrò refrattario alla riflessione mediologica per oltre trent’anni. Interessanti le uniche due recensioni, di Arbasino e Flaiano, e la celebre stroncatura di Eco, nel 1967, l’anno della traduzione per Il Saggiatore (seguita da Il medium è il messaggio nel 1968 da Feltrinelli, e da una raccolta di scritti a cura di Plebe nel 1969). Nel 1974 Understanding Media viene rilanciato da Barilli come nuova base teorica per l’arte d’avanguardia, nel 1976 da Gamaleri come guida indispensabile per la produzione televisiva, ed esce anche la Gutenberg Galaxy, e nel 1980-1981 dai due volumi fondamentali di padre Mario Baragli. Il nome di McLuhan risultava impronunciabile nelle scienze umane e sociali laiche e di sinistra, sdraiate su semiologia e nuova storia, mentre le traduzioni (Armando e SugarCo) circolavano fuori dalle università, in ambito produttivo, aziendale e cine-televisivo cattolico. La riscoperta avvenne tra il 1989 e il 1994 in fase di gestazione della mediologia italiana (Ragone, Abruzzese, la rivista MassMedia), entro studi sugli sviluppi dell’industria culturale; poi le frequentazioni di De Kerchkove inauguravano una fase di coltivazione, anche se paradossalmente le traduzioni di Remediation di Bolter e Grusin, nel 2003, e di Convergence culture di Jenkins, nel 2007, funzionarono in un certo senso permettendo di trascurare la loro fonte McLuhan. Intanto la mediologia italiana di scuola abruzzesiana e soprattutto il giornalismo di opinione lo adottavano in pieno, con un totale sdoganamento nel 2011 – anno di numerosi convegni. I riferimenti al nostro autore proliferano in modo esponenziale e globale (crescendo di 10 volte, fino a oltre 3.500.000 su Google nel 2019-2020, quando riguardo ai media la fortuna di Understanding Media risulta inferiore e di poco solo al libro di Jenkins). Eppure, ancora oggi non si sfugge al riduzionismo: tipicamente “cosa dice UM sul medium cinema, o sulla tv?” o “quanto è determinante in UM la tecnologia?”. In ambito scientifico la tendenza prevalente orientata sull’oggetto (gli effetti dei media, le pratiche) tuttora lo occulta, nettamente in contrasto con quella ancora minoritaria orientata sullo sviluppo della soggettività nell’ambiente dei media, che lo considera come riferimento-base. La lettura integrale del testo sembra invece funzionare positivamente per la nuova generazione: il suo stile, combinando volutamente l’argomentazione complessa con i flash, e costringendo a intuire più che a formalizzare una rete concettuale stabile, sembra fare da ponte tra il libro saggistico e i tipici interventi nei social, adattandosi perfettamente ai gusti intellettuali di chi oggi continua a produrre riflessione, ma senza gli obblighi della sistematicità. Ma dietro a questa tuttora oscillante ricezione si celano problemi di fondo sul senso e sul metodo della ricerca sui media, orientata a comprendere e interpretare i cambiamenti della società, che sarebbe bene rendere espliciti. E già solo in Understanding Media, del resto, le scelte rivoluzionarie di McLuhan emergono con vivacità intellettuale. Proviamo a enunciarne tre, in sintesi: a) la scelta del paradigma indiziario, con il suo procedere puntando sui processi e non sulla deduzione dalle caratteristiche dei fenomeni, e sulla lunga durata (contro lo “specchietto retrovisore”); b) il focus sulla soggettività e sul tempo/spazio, che utilizza lo studio delle pratiche come conferma (e non viceversa); c) la centralità dell’interpretazione dei testi e delle opere d’arte, ribaltata sul complesso dei media, fino a utilizzare gli oggetti come metafore (e non l’analisi del contenuto). Erano posizioni necessariamente scandalose, in un ambito delle scienze umane che allora come oggi resta ancorato prevalentemente a schemi funzionalisti e neokantiani, quando non empiricamente relativisti. . I media come metafore attive: McLuhan e i mezzi del comunicare Andrea Lombardinilo, Università degli studi “G.D’Annunzio” Chieti-Pescara Sessant’anni dopo la prima pubblicazione di Understanding Media (1964), val la pena riflettere sulla portata cognitiva di alcune delle definizioni metaforiche utilizzate da McLuhan per esprimere l’innovazione comunicativa della modernità e della contemporaneità, atteso che «quando noi guardiamo ad una situazione attraverso un’altra situazione, usiamo una metafora. Questo è un processo intensamente intellettuale. Ed ogni lingua sorge in questo modo» (Umanesimo cattolico e lettere moderne, 1954, p. 35). In Understanding Media McLuhan compie il tentativo di legare letteratura, media e conoscenza, secondo una prospettiva epistemologica che vede nella retorica (classica e cristiana) un volano fondamentale di conoscenza della realtà. Per questa ragione è opportuno analizzare la portata mediologica di alcune delle metafore con cui si designano il cinema («Il mondo in bobina»), gli orologi («il profumo del tempo»), la fotografia («Il bordello senza muri»), l’automobile («La sposa meccanica»), il telegrafo («L’ormone sociale»), la radio («Il tamburo tribale»), la televisione («il gigante timido»). Ciascun capitolo di Understanding media si configura come una straordinaria incursione nella dimensione comunicativa di ciascun medium, secondo un approccio interdisciplinare che sfrutta l’argomentare asistematico e caleidoscopico di McLuhan. Ci si chiede se questa prospettiva retorica possa rendere la complessità del nostro panorama mediale, sempre più connesso e globale. Partendo dalla madre di tutte le metafore mcluhaniane, «the medium is the message», è infatti possibile riflettere sull’attualità delle metafore mediali impiegate dallo studioso canadese per tracciare lo iato tra media caldi e media freddi, preconizzando la rivoluzione prodotta dall’automazione sulla vita di tutti i giorni, anche sul piano comunicativo: «Tutti i media sono metafore attive in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove» (Understanding Media, p. 71). . Da McLuhan alle Wearable Technologies: gli avamposti di un ecosistema customercentrico, phygital e multimodale Nello Barile, Università IULM, Milano Negli ultimi anni è stata prodotta una quantità significativa di ricerche sulle cosiddette tecnologie indossabili: dalla riflessione seminale di N. Negroponte in Essere Digitali (1995), passando per le la dimensione mobile delle ICT (Quinn 2002; Katz 2003; Ryan 2014); fino alla più recente investigazione sul mondo dei Big Data, degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale Mayer-Schonberger e Cukier 2013; Manovich 2018; Cheney-Lippold 2017; van Es e Schafer 2017). Più recentemente, tali tecnologie sono state considerate “ottimisticamente” come un trend della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale (Schwab 2016), mentre gli studiosi più critici le classificano tra le “tecnologie radicali” (Greenfield 2017) che penetrano spregiudicatamente il modo della vita quotidiana. A metà strada tra le due posizioni, altri studiosi riflettono sull’interazione tra tecnologia ed emozioni dei “media empatici” (McStay 2018). La visione lungimirante di Marshall McLuhan aveva già individuato una serie di concetti teorici capaci di supportare lo studio di tali innovazioni tecnologiche. Nel dodicesimo capitolo di Understanding Media, Clothing: Our Extended Skin, si propone una concezione specifica dell’abito come “medium” che dalla fase meramente funzionale, si sviluppa come mezzo di comunicazione delle identità sociali e dei valori culturali (McLuhan. 1967). Per questo i Fashion Studies hanno recentemente rivalutato la centralità dello studioso canadese (Rocamora e Smellik 2016). La riflessione di McLuhan e la sua applicazione al campo delle Wearable Technologies vanno a colmare un sostanziale gap di conoscenza, ponendosi come l’anello mancante che collega i Media Studies e i Fashion Studies. Oltre alle produzioni più commerciali che coprono una vasta gamma di dispositivi gestiti dai brand globali (Smart Glasses, Fit Bit, Smart Watch ecc.), le idee più sperimentali vengono realizzate da designer che coniugano l’estetica con l’innovazione tecnologica, grazie alle collaborazioni con Intel: dalle installazioni di Hussein Chalayan che scansionano lo stato emotivo interiore, fino alle più recenti creazioni cyber-femministe di Anouk Wipprecht (Wernimont, Losh 2019). L’utilizzo di queste tecnologie educa gli utenti a una nuova “materialità tecnologica” (Küchler 2008) e a una esperienza phygital (Barile 2022) che integra la dimensione virtuale e quella fisica. La loro interazione con l'Intelligenza Artificiale Multimodale aumenterà la penetrazione dell’AI nella vita quotidiana gestendo tutte le possibili “prestazioni” dell’utente, posto al centro di un universo automatizzato e Customer-Centrico che richiama la “partecipazione” mcluhaniana, ma che la spinge verso una sfruttamento radicale della vira emozionale. Come ha efficacemente notato Greenfield: “All’interno del quadro del tardo capitalismo, la diffusione dei dispositivi indossabili di monitoraggio biometrico non può non essere vista come una forma di potere disciplinare che attraversa il corpo e i suoi flussi. Un potere che neanche Frederick Taylor avrebbe mai potuto immaginare, e se Foucault avesse osato parlarne, non sarebbe stato nemmeno preso sul serio” (2017, p. 20). . Trasporto, accelerazione, iperstizione: nuovi paradigmi spazio-temporali Claudia Attimonelli, Università degli Studi Aldo Moro di Bari
Vi è un parafrago nella seconda parte del volume Understanding Media dal titolo Roads and Paper Routes che si apre così: “It was not until the advent of the telegraph that messages could travel faster than a messenger”. Come sovente accade negli scritti di Marshall Herbert McLuhan, questioni complesse vengono proposte a partire da affermazioni apparentemente banali; in questo caso, se è ovvio adesso come allora – nel 1964, quando il telegrafo era in uso in maniera stabile già da un secolo, non solo, esso era stato ampiamente soppiantato dal telefono – che un messaggio fosse in grado di viaggiare più velocemente del suo portatore, il messaggero, è altresì chiaro che una tale affermazione comporti la ridefinizione di un discreto ventaglio di credenze, se non financo paradigmi che di lì a breve avrebbero costituito il cuore pulsante del dibattito sull’accelerazionismo che McLuhan qui ineluttabilmente affronta partendo una semplice constatazione. Sono le categorie di spazio e tempo ad essere messe in discussione dal mediologo, poiché, indagando la mancata “omogeneità nella velocità del movimento d’informazione” (p. 98) tra gli altri effetti ve n’è uno inquietante che attiene ai processi di opacità che investono l’informazione stessa, la quale, misteriosamente raggiunge un punto B da A, senza percorrere lo stesso tragitto fisico della via (route) che permetterebbe al messaggero X di raggiungere B partendo da A. Cosa accade in questo percorso accelerato, quali segreti – come li intenderebbe Georg Simmel in Il segreto e la società dei segreti (1992) – la comunicazione telegrafica e poi telefonica non garantiscono più che restino tali? A partire da questa incongruenza generata dall’avvento dell’elettricità, se un’informazione viaggia in uno spazio e in un tempo che non coincide con le vie della comunicazione, tra le innumerevoli conseguenze una ci sembra di estrema rilevanza ed è quella che insiste sull’incertezza e l’imprevedibilità di ciò che accade nel suddetto passaggio da A a B poiché, venendo meno l’unità di tempo e azione, si generano effetti di relativismo e complessità nella restituzione dei fatti. Tutti elementi che destabilizzano in modo radicale i valori della Modernità e dell’Umanesimo : “Le nostre estensioni elettriche scavalcano lo spazio e il tempo” (McLuhan, p. 109). La linearità del progredire della storia subisce non poche interferenze, dovute all’avvento del cyberspazio e della percezione di una serie di presenti puri e scollegati dall’asse spazio-temporale tradizionale, ivi hanno luogo fenomeni di accelerazione e di iperstizione (Fisher, 2009): stanti ad indicare quella traccia di futuro capace di operare già nel presente fino al punto di modificarlo, una sorta di profezia che si autoavvera che riguarda tanto le analisi predittive quanto la profilazione dei soggetti in rete. La CCRU (Cyber Culture Research Unit) propone la seguente definizione per iperstizione: “Elemento della cultura che si fa reale, per mezzo di dosi di fiction/finzione che aprono a potenziali viaggi nel tempo”. È di estremo interesse il pensiero di McLuhan in tal senso, poiché favorisce e in un certo senso prova a legittimare, attraverso il suo incedere per metafore – termine di cui peraltro l’autore offre in un paragrafo dello stesso capitolo che stiamo analizzando una ricostruzione etimologica utile ai fini del discorso – riflessioni che sempre di più cercano di intrecciare, secondo modalità transdisciplinari, il campo umanistico che ruota intorno all’archeologia dei media e ai prodotti culturali della visual culture (Pinotti, Somaini 2014) e dei sound studies (Schafer 1994), con la fisica quantistica la quale guarda sempre di più alla produzione di raffinate narrazioni fantascientifiche (si pensi a potenti visioni quali Videodrome, Croneneberg 1983; la serie inglese Black Mirror, 2011-2023; Interstellar, Nolan 2014) al fine di rendere accessibili e talvolta di spiegarsi concetti e questioni altamente complessi. |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 3: Digital social control: le sfide della democrazia nell’era degli algoritmi Luogo, sala: Aula T01 Chair di sessione: Fabio Quassoli |
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Digital social control: le sfide della democrazia nell’era degli algoritmi 1Università degli Studi di Milano-Bicocca; 2Università di Pavia; 3Università di Bologna; 4Università di Udine Chairperson: Fabio Quassoli, Università degli Studi di Milano-Bicocca . Nota introduttiva Nell’introduzione del 2015 a Digital Sociology , Deborah Lupton scriveva “Oggi viviamo in una società digitale. I movimenti nello spazio, le abitudini di acquisto, le comunicazioni online sono controllati passo dopo passo dalle tecnologie digitali. Ci stiamo trasformando in soggetti digitali, che ci piaccia o no, e che lo scegliamo o meno”. Da allora, la presenza di digital devices è diventata sempre più pervasiva informando di sé e modificando radicalmente le relazioni sociali e l’esperienza quotidiana. Già all’inizio degli anni duemila, David Lyon, aveva introdotto il concetto di surveillance society, sottolineando come lo sviluppo delle ICT stesse favorendo il diffondersi di forme di sorveglianza capillare dei comportamenti individuali e di gruppo, con finalità di tipo sia commerciale (profilazione delle scelte di consumo) sia politico, grazie a un potenziamento dei metodi e dei dispositivi di controllo sociale. I contributi proposti in questo panel si concentrano sul legame tra digitalizzazione e controllo sociale, analizzando alcuni esempi recenti di sorveglianza digitale, con particolare attenzione per due aspetti: in primo luogo, l’interazione tra le caratteristiche tecnologiche dei dispositivi utilizzati, le pratiche che li attivano e i contesti organizzativi entro i quali si dispiegano le nuove forme di controllo sociale digitale; in secondo luogo, i rischi sul piano etico e politico – violazione della privacy, discriminazione algoritmica, amplificazione delle diseguaglianze, esclusione sociale “digitale” – che accompagnano l’affermarsi della surveillance society. Il primo paper analizza il rapporto tra democrazia e controllo sociale, esaminando il delicato equilibrio che, durante la pandemia da Covid 19, si è stabilito tra l’efficacia del controllo operato dalle istituzioni di governo e il rispetto dei principi democratici, con particolare attenzione per la tutela dei dati personali. Prendendo spunto dall’esperienza del digital contact tracing, l’autore offre una panoramica di come tale questione è stata affrontata su scala globale, per poi focalizzarsi sul dibattito europeo relativo al diritto alla privacy e ai limiti che è necessario porre alle possibili ingerenze da parte delle autorità statali nella vita dei cittadini. Il secondo paper si concentra sui ‘gemelli digitali delle città’: sistemi che utilizzano i big data per comprendere le dinamiche tipiche di un contesto metropolitano e assistere gli attori politici ed amministrativi nelle loro decisioni. In relazione a questa recente novità nel campo della produzione di politiche pubbliche, poco conosciuta ed esplorata, l’autore evidenzia come, tali sistemi possano, da una parte, rafforzare le basi conoscitive del processo di policy-making e accrescere la consapevolezza con cui la governance urbana viene esercitata, dall’altra, contribuire allo sviluppo di forme di discriminazione algoritmica, social scoring e sorveglianza diffusa. Il terzo contributo affronta il tema della sorveglianza digitale, analizzando l’impatto della digitalizzazione e dei big data sulle pratiche e i dispositivi di prevenzione e repressione della criminalità, soprattutto urbana, da parte delle agenzie formali di controllo. L’autrice riflette sulle esperienze di sviluppo e impiego di sistemi di analisi predittiva da parte di numerose polizie, inclusa quella italiana, evidenziando le potenzialità ma anche le criticità connesse ad uno sviluppo sempre più capillare della sorveglianza. Il quarto paper considera, da una prospettiva di filosofia politica, l’impatto di un utilizzo pervasivo delle ICT da parte di regimi autoritari in termini di controllo, sorveglianza, propaganda, censura e oppressione della popolazione. Si interroga, inoltre, sulle istituzioni e sugli strumenti normativi grazie ai quali i cittadini delle liberal-democrazie occidentali possono proteggere le proprie libertà fondamentali nella sfera digitale. Nel complesso, i contributi che compongono il panel pongono in evidenza alcune sfide che le scienze umane e sociali sono chiamate ad affrontare per rendere conto delle forme attuali in cui viene esercitato il potere politico e del rischio che la relazione tra governanti e governati possa essere radicalmente ridefinita dal costante sviluppo di dispositivi di controllo e sorveglianza digitale. . Democrazia e tecnologie potenzialmente invasive: spunti dalla vicenda del digital contact tracing durante la pandemia Dario Pizzul, Università di Pavia Per contrastare una pandemia virale, i vaccini, o più in generale interventi di tipo medico o farmaceutico, non sono che uno degli elementi di una più ampia strategia. Alcuni di questi interventi non farmaceutici di uso consueto sono l’utilizzo di dispositivi di protezione, il distanziamento fisico, o il tracciamento dei contatti. Con la pandemia da COVID-19 una nuova tipologia di intervento è stata introdotta su scale globale: il tracciamento dei contatti attraverso l’uso di tecnologie digitali. Il cosiddetto digital contact tracing (DCT) è una procedura che, in teoria, è in grado di velocizzare il tracciamento della diffusione del virus, intervenire più rapidamente nell’isolamento dei possibili contagiati, e, quindi, ridurre la diffusione della malattia (Ferretti et al., 2020). Questo impiego non del tutto inedito delle tecnologie digitali per la gestione di una malattia infettiva ha però avuto un impatto senza precedenti con COVID-19 per via dell’alto numero di paesi che hanno sviluppato delle app per il DCT (O’Neil et al., 2020). Paesi con democrazie deboli o assenti hanno implementato tecnologie che si sono dimostrate ulteriori strumenti di controllo sulla popolazione. È il caso della Cina dove il DCT è stato integrato con i servizi commerciali di WeChat e Alipay, registrando numero di telefono, indirizzo, posizione e altre informazioni personali degli utenti, e attribuendo loro un punteggio di rischio che ne condizionava la possibilità di spostarsi (Boeing & Wang, 2021). Oppure di Algeria e Kuwait, che, secondo Amnesty International (2020), soprattutto per il loro utilizzo pervasivo del GPS, ponevano rischi molto alti per la privacy degli utenti. In Europa, il dibattito intorno allo sviluppo delle app per il DCT è stato molto articolato. Tra i molti aspetti interessanti quali l’utilizzo di un approccio centralizzato o decentralizzato, il coinvolgimento decisivo di Apple e Google, o le vicende organizzative dei gruppi di sviluppo, ciò che vale la pena approfondire qui è la questione del design delle affordances delle app e il suo risvolto a livello politico. Attraverso degli estratti di interviste realizzate con gli sviluppatori dei due modelli principali, cioè quello centralizzato (francese) e quello decentralizzato (svizzero, ed usato dalla maggior parte dei paesi europei), si ricostruiranno le posizioni del dibattito su temi quali la privacy degli utenti e le possibili ingerenze delle autorità statali. L’analisi delle posizioni degli interlocutori coinvolti in questo caso specifico aprono una questione più generale meritevole di attenzione e dibattito, ossia: quanto uno stato democratico, come quelli europei, deve garantire al massimo la tutela dei dati by design, anche a costo di sviluppare una tecnologia digitale “spuntata” rispetto agli scopi che intende perseguire; o quanto, invece, in virtù delle leggi a cui sottostà secondo i principi dello Stato di diritto che ne limitano l’ingerenza, può dotarsi di uno strumento potenzialmente più invasivo ma potenzialmente più efficace? . Problematiche di controllo sociale nei sistemi dei gemelli digitali delle città Gabriele Suffia, Università di Bologna Negli ultimi anni, i progetti di digitalizzazione delle città si sono sempre più mossi verso integrazioni di sistemi. Una formula per descrivere queste realtà è quella dei cd. “gemelli digitali delle città”: sistemi compositi, che fanno uso dei Big Data per conoscere la società e aiutare decisori politici e amministrativi nel prendere decisioni. A seconda dei progetti, si può perfino ipotizzare che siano questi sistemi a prendere decisioni essi stessi. Una riflessione possibile è quella che, ancora una volta, ci troviamo di fronte ad un’evoluzione tecnologica (teorizzata e introdotta all’inizio degli anni 2000 in ambito industriale) che si pensa “soluzione” e, quindi, si mette alla ricerca di un problema. Questo approccio ci potrebbe portare a chiederci che cosa i gemelli digitali possono fare per le città; potremmo pensare a quali dati siano i più veloci e facili da ottenere, e come rifornire il gemello digitale per svolgere appieno la propria funzione; ci potremmo interrogare sulle potenzialità e criticità dello strumento. Un’altra riflessione che potremmo fare è, invece, a partire dalla città e dai suoi cittadini. Questo secondo approccio ci imporrebbe di avere prima una comprensione del singolo problema e, in base a questo, di disegnare ad hoc uno strumento (che potrebbe assomigliare, o meno, ad un gemello digitale) per affrontarlo.A seconda dell’approccio, quindi, quando parliamo di gemelli digitali non intendiamo sempre la stessa cosa, anche se le parole che usiamo sono le medesime (così come quando parliamo di smart city). Postulando, tuttavia, che comunque lo strumento possa essere definito “gemello digitale della città”, si impongono riflessioni sui dati che vengono raccolti e/o prodotti e, nello specifico, a quello che essi rappresentano. Attraverso questi dati può aumentare certamente la conoscenza del decisore politico/amministrativo sulla città, ma questi sistemi di datification della società si scontrano con problemi, tra cui quello del cd. “social scoring”, o con il problema delle disuguaglianze sociali. A seconda di come vengono costruiti, infatti, questi sistemi possono essere più o meno sensibili a determinati fenomeni sociali. Senza gli opportuni controlli, si può arrivare a vere e proprie forme di “discriminazione algoritmica”, così come a sorveglianza su larga scala e a “estrapolazioni dalla folla” che annullano la protezione dell’opinione pubblica e lasciano inerme l’individuo. Nuove norme, come il “Data Act” (Regolamento UE in vigore dal gennaio 2024 e applicabile in dal settembre 2025), aprono oggi alla possibilità che dati raccolti e trattati da privati vengano richiesti dal pubblico per fronte ad emergenze, come quella pandemica. Non sempre, tuttavia, l’accuratezza che per il privato è sufficiente per avere un profitto, è sufficiente anche per non ledere diritti di individui e comunità intere. In ogni caso si tratta di dati che, se personali, devono essere trattati in compliance con le previsioni del GDPR (in primis, con una finalità esplicita e “pre-esistente” la raccolta stessa del dato). Ampia letteratura si pone il problema del confine tra dato personale e dato non-personale, con sistemi di intelligenza artificiale che sempre più possono erodere le nostre capacità/intenzioni di separare l’individuo dal dato. Sembra ampliarsi la conoscenza che il controllore di questi sistemi viene ad avere sui controllati, che non hanno strumenti per controllare il controllore. Si tratta di un problema annoso, ma che introduce un nuovo “corto circuito” della democrazia, quello del “populismo corporate” (per usare una felice espressione del prof. Floridi) che interroga non solo la governance, ma soprattutto la sfera politica. Questi dibattiti dovrebbero spingere a grande prudenza, e a chiederci che cosa vogliamo davvero rendere digitalizzato e cosa no. Un punto di partenza potrebbe essere costituito dall’analisi di tutti gli stakeholder coinvolti e del loro rapporto con il diritto. . Le pratiche di sorveglianza nell’era dei big data: conoscere e identificare possibili scenari di ricerca Eleonora Di Molfetta, Università degli Studi di Milano-Bicocca Il ricorso alle tecnologie digitali e alla raccolta, elaborazione e analisi di big data tramite algoritmi automatizzati rappresenta un aspetto sempre più rilevante nelle pratiche di prevenzione e controllo della criminalità e, più in generale, nella governance della sicurezza urbana. Si evidenziano numerosi esempi significativi, tra cui lo sviluppo di forme di predictive policing basate su tecniche di machine learning, la realizzazione di progetti di sicurezza partecipata incorporate in app a disposizione sia della polizia sia dei cittadini, la creazione di reti di videosorveglianza che includono sistemi di CCTV pubblici e privati, e l’attivazione di protocolli per lo scambio di informazioni tra agenzie governative nazionali finalizzati alla sorveglianza di massa. In un contesto globale di innovazione e digitalizzazione della sicurezza, un numero sempre più crescente di paesi utilizza tecniche analitico-statistiche e algoritmi per migliorare l’ordine pubblico, garantire la sicurezza dei cittadini, monitorare la devianza e la criminalità, e massimizzare l’attività delle forze dell’ordine. In particolare, lo sviluppo ed utilizzo di algoritmi predittivi in uso presso varie forze di polizia, come l’olandese CAS, il tedesco Precobs, l’americano Predpol, e l’italiano KeyCrime, ha dimostrato di essere notevolmente efficace nella prevenzione e repressione della criminalità, consentendo allo stesso tempo una più efficace ed efficiente distribuzione delle risorse di polizia nel territorio urbano. Tuttavia, accanto alle potenzialità offerte dalla digitalizzazione della sicurezza, emergono anche rilevanti criticità connesse al carattere sempre più pervasivo delle attività di sorveglianza, ai rischi di violazioni sistematiche della privacy dei cittadini, alla diffusione di forme di discriminazione algoritmica e all’accentuarsi di rischi di esclusione sociale, soprattutto per i gruppi più vulnerabili. A partire da queste considerazioni, il contributo si propone di esplorare i potenziali scenari di sviluppo della ricerca sul tema, evidenziando sia gli aspetti trasversali della sorveglianza digitale sia quelli influenzati più significativamente del contesto sociale, politico e culturale di riferimento. . Resistere al potere tirannico. Da John Locke all’era dei media digitali Gabriele Giacomini, Università di Udine
John Locke, teorico imprescindibile del pensiero liberale e democratico, è stato un anticipatore dell’analisi circa il rapporto fra obbedienza e ribellione nella società, in particolar modo per quanto riguarda le motivazioni e le modalità di resistenza ad un potere autoritario. Già alla fine del XVII secolo, John Locke teorizzò che se uno Stato abusa dei suoi cittadini, questi hanno il diritto di ribellarsi, anche con il ricorso alla violenza, in nome dei diritti alla libertà e alla vita. Oggi le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono senza dubbio aiutare le prime fasi di resistenza, soprattutto dal punto di vista organizzativo. Allo stesso tempo, però, le ICT sembrano offrire potenti strumenti agli autocrati, sia di tipo difensivo sia di genere proattivo. Le rivoluzioni fallite che si sono svolte nell’era digitale in Paesi come Myanmar, Iran, Egitto, Hong Kong e Bielorussia, e il recente caso dell’occupazione russa di parte dell’Ucraina, caratterizzato dal controllo delle comunicazioni digitali da parte degli occupanti, portano alla luce i grandi sforzi, spesso coronati da successo, dei regimi autoritari di utilizzare le nuove tecnologie per la sorveglianza, la propaganda, la censura, l’oppressione dell’autodeterminazione dei popoli e la soppressione dei diritti fondamentali. Questa riflessione teorica, dati i rischi di derive dispotiche in molti Paesi del mondo, dopo aver presentato alcuni esempi di utilizzo delle ICT a fini repressivi, intende interrogarsi su quali competenze, regole e istituzioni possano aiutare i cittadini a difendere la propria libertà e la propria autodeterminazione quando queste sono minacciate, anche nella sfera digitale. |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 4: Giovani, generazioni e processi educativi: evidenze empiriche e scenari interpretativi Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Maurizio Merico Chair di sessione: Carmelina Canta |
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Giovani, generazioni e processi educativi: evidenze empiriche e scenari interpretativi 1Università di Roma Tre, Italia; 2Università di Salerno, Italia; 3Università di Bari "Aldo Moro"; 4Università Cattolica del Sacro Cuore Chairperson: Maurizio Merico, Università di Salerno Le nuove generazioni saranno chiamate ad affrontare una società estremamente complessa e i processi educativi saranno sempre più caricati di una responsabilità delicata e centrale per rendere ogni individuo capace di affrontare le sfide che si prospettano. La progressiva digitalizzazione e la diffusione del machine learning, le vicende legate agli eventi bellici, il cambiamento climatico e i suoi effetti, le nuove e vecchie crisi umanitarie, economiche e sociali, i movimenti migratori e il riemergere di vecchie e nuove povertà educative, rappresentano un banco di prova per un’educazione che sia capace di (ri)equilibrare il riconoscimento delle differenze, dell'inclusione sociale, della lotta alle disuguaglianze, conciliando equità ed efficacia. Ai sistemi educativi è affidato, da un lato, il compito di promuovere l’inclusione e le pari opportunità; dall’altro, quello di far emergere le potenzialità e le abilità di ogni giovane. Entrambi sono funzioni sociali fondamentali che non possono essere ristrette al singolo campo dell’educazione formale, ma si apre ai processi informali e non formali che si compongono di una pluralità di agenzie che agiscono e intervengono con proposte di socializzazione e di educazione eterogenee e differenziate all’interno del “continuum dell’educazione”. I sistemi educativi, inoltre, non sono chiusi in sé stessi, perché si intrecciano con le origini sociali delle persone, con le strutture culturali e i mutamenti che in esse sorgono: insieme costituiscono percorsi distinti per gli individui. I processi educativi e le loro istituzioni – in quanto luoghi deputati alla crescita culturale, civica e collettiva – sono spesso stressati da una logica competitiva che richiede di rispondere al mercato del lavoro e si trovano ad affrontare una situazione di continua incertezza che necessita di essere studiata e analizzata per ripensare politiche e strategie. Partendo da questi presupposti, il panel si interroga sul rapporto tra giovani, generazioni e processi educativi, ponendo specifica attenzione al rapporto (mai preordinato) tra inclusione e disuguaglianze, ma provando a fare i conti con un insieme più ampio di questioni quali: l’equilibrio tra equità, merito e uguaglianza; la trasmissione intergenerazionale della conoscenza; l’intreccio tra la dimensione formale, non formale e informale. Oggetto del panel sono riflessioni teoriche e analisi empiriche (qualitative e quantitative, su larga scala o focalizzate su contesti specifici) volte a proporre analisi, strumenti e concetti utili a superare le logiche dell’emergenza e valorizzare saperi sociologici non pienamente riconosciuti al fine di sviluppare una comprensione critica del rapporto tra giovani, generazioni e processi educativi . Recuperare i classici per bilanciare inclusione e merito Andrea Casavecchia, Università di RomaTre Keywords: sistema educativo; meritocrazia; disuguaglianze; equità; democrazia Il sistema di istruzione è chiamato a rispondere alle sfide proposte da una società complessa (Morin, 2001; Casavecchia, 2020). Le narrazioni principali schiacciano il sistema educativo sulla prestazione e rischiano di alimentare una distopia meritocratica (Young, 2014) o una ricorsa all’accreditamento (Brint, 2008). Si produce un sistema competitivo nel quale il “voto” diventa centrale (Corsini, 2023). Sono trascurati tanto i processi educativi e di apprendimento quanto le aspirazioni dei soggetti. Dietro lo specchietto per le allodole del merito si celano da un lato le difficoltà strutturali che mantengono le disuguaglianze e rischiano di alimentare l’esclusione sociale (Giancola & Salmieri, 2023), dall’altro le prospettive di concentrarsi sulla performance (Granaglia, 2023). La scuola diventa un processo di selezione e di riproduzione delle disuguaglianze (Bernstein, 2020; Ribolzi, 2020), invece di essere uno spazio di scoperta dei propri talenti e delle proprie abilità: si innesta un processo che finisce per indebolire e frammentare una società e blocca la mobilità sociale. Karl Mannheim (Mannheim, 1968; Casavecchia, 2022) ha evidenziato come i sistemi di istruzione e i sistemi sociali siano interconnessi e si sostengano reciprocamente. Il sociologo evidenzia le differenze tra sistema totalitario, sistema democratico e sistema liberista perché propongono immagini di uomo alternative: profilo burocratico; profilo rude/individualista; profilo democratico. Infine attualizzare la proposta di John Dewey può aiutare a evidenziare come può essere valorizzato il merito all’interno di una proposta democratica. A tale proposito emergono due dimensioni: la prima è quella di valorizzare il processo educativo e la rete educativa (Mannheim & Campbel Stewart, 2017; Besozzi, 2017; Merico & Scardigno, 2023); la seconda è valorizzare il merito per promuovere la “professione/vocazione” personale (Dewey, 2020; Casavecchia, 2020). . Traiettorie culturali interrotte: i sistemi di riconoscimento delle competenze nel quadro globale dell’HE Fausta Scardigno, Università Bari Aldo Moro Keywords: apprendimento permanente, background migratorio, competenze, biografie culturali La società contemporanea pone questioni culturali emergenti e nuove istanze nell’HE che richiamano una dimensione al tempo stesso globale e locale dell’education, il suo universalismo da un lato e la sua contestualità dall’altro, temi peraltro richiamati nella Convenzione Globale Unesco dell’Educazione (Unesco, 2023). Quali sono gli strumenti interpretativi che come sociologi mettiamo a disposizione della società per comprendere le istanze universali e contestuali dell’Education? Come è possibile da un lato promuovere meccanismi di universalità dell’education e dall’altro abitare contesti locali e specifici dell’education che si muovano nella direzione comune del garantire a tutti il diritto di apprendere (Palumbo & Proietti, 2022)? Uno dei più accesi dibattiti nell’anno europeo delle Competenze ha riguardato proprio il tema culturale dei processi di riconoscimento di competenze, apprendimenti, credenziali già maturate (prior learning) dalle persone con background migratorio, dalle persone rifugiate (Salvati & Scardigno 2021), da tutti i soggetti che cercano di riprendere biografie culturali interrotte da migrazioni forzate. Con quali strumenti conoscitivi rispondiamo come sociologi, nel quadro della convenzione globale sull’Education, a tale domanda sociale? Come garantire di vedersi riconosciuti le precedenti esperienze di apprendimento (in ambito formale, non formale e informale) in modo equo, non diseguale, non discriminante? (Crenshaw, 1989) Il concetto di competenza assume un ruolo determinante nei processi di integrazione ed emancipazione sociale dei singoli individui alla luce dei cambiamenti delle trasformazioni in atto nella società attuale. Questo ruolo si impone in modo più urgente se si fa riferimento a target sensibili, il cui capitale culturale corre il rischio di non essere riconosciuto e valorizzato (Merico; Scardigno 2022). Tuttavia nonostante ci siano dei punti di riferimento europei che strutturano dei possibili processi di riconoscimento di competenze in termini di modelli da adottare (Tibajev, A. and Hellgren, E., 2019), lo scenario globale (ma anche nazionale e regionale) non si presenta come coerente e uniforme, soprattutto per quel che concerne i sistemi di riconoscimento delle competenze delle persone con background migratorio nell’ambito della educazione formale (Pastore, Devillè, Colosimo, Scardigno & Manuti 2023). Il paper si sofferma sulla centralità del diritto all’apprendimento permanente contrastando l’ottica funzionalistica dell’occupabilità e della dipendenza dal sottosistema economico e re-interpretando in ottica trasformativa (Morciano & Scardigno 2023) tale domanda universale ovvero come “diritto della persona” e come risposta sociale alla domanda di ricomposizione identitaria e di ri-definizione di traiettorie culturali interrotte (Scardigno, 2019), nel tentativo di ridurre il rischio di ri-produrre dispositivi neo-liberali che ne accentuino le disuguaglianze (di accesso e di riuscita) nei sistemi di Higher Education. . |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 5: L’ecosistema dello sport: funzione di reiterazione o di rinnovamento sociale? Luogo, sala: Aula Multimediale Chair di sessione: barbara mazza Chair di sessione: Giovanna Russo |
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L’ecosistema dello sport: funzione di reiterazione o di rinnovamento sociale? 1Sapienza, Italia; 2Università di Bologna; 3Università di Napoli; 4Università di Firenze; 5Università di Trento; 6Università Roma Tre Lo sport, quale fatto sociale totale (Mauss 1950), opera da sempre lungo un continuum caratterizzato dall’esigenza di perpetuare tradizioni, valori e costumi sociali radicati nella società, che vengono condivisi e consolidati tramite pratiche rituali (Dal Lago 2001), da un lato, e dal suo contributo in favore del cambiamento, della sperimentazione, della capacità di travalicare confini e superare limiti per rintracciare e diffondere approcci, strumenti e tendenze innovative che favoriscono il rinnovamento in una prospettiva di integrazione, comunione e benessere sociale, dall’altro. Non a caso le concezioni principali afferiscono, storicamente, al ruolo che lo sport assolve in favore della formazione e della regolamentazione sociale (Huizinga 1938, Elias 1939, Durkheim 1963, Elias & Dunning 1986, Vinnai 1970, Brohm 1992) dello sviluppo del capitale sociale (Putman 2000), della gestione di dinamiche di integrazione e inclusione sociale (Rowe 2007, Del Guercio 2016, Bifulco 2019, Maulini et al 2017, Ferrara 2021), del consolidamento e dell’affermazione di identità nazionali nel sistema geopolitico mondiale (Hoberman 1974, Russo 1998, Bielanski 2014, Brohm 2021). Al tempo stesso però, il fenomeno sportivo è divenuto una chiave interpretativa fondamentale per l’interpretazione delle dinamiche postmoderne del loisir (Germano, 2012), della ridefinizione dei legami sociali e delle spinte innovative di natura partecipativa che provengono dal basso (Pioletti & Porro 2013) o, meglio, dalla strada prima ancora che dagli ambienti digitali, nonché della promozione di principi di uguaglianza, pari opportunità, multiculturalità e pace. Questi ultimi sono considerati alla base delle democrazie moderne in una prospettiva polifunzionale. Del resto, i principi del rinnovamento vengono aggiornati e dettati dalle revisioni periodiche del Libro Bianco dello Sport prodotte dalla Commissione Europea. Essa interviene al fine di attualizzare le principali questioni sociali per concorrere al benessere delle collettività (Martelli & Porro 2018), stimolando anche forme di discontinuità rispetto al passato e alla tradizione laddove intercetta esigenze politiche, economiche, culturali, integrative, ecc. di particolare rilevanza. Queste istanze richiedono nuove modalità di intervento e nuove prospettive di gestione, coesione e relazione. In tale scenario, gli studiosi della Sociologia dello sport intendono interrogarsi sullo stato attuale della capacità dello sport di interpretare e rappresentare i fenomeni sociali. Sono, infatti, consapevoli che esso replica ed evidenzia tutte le contraddizioni dell’era contemporanea. Tra le principali derive che saranno discusse nel panel vi sono quelle relative alla mercificazione dell’eduzione fisica che produce significazioni distorte persino nell’ambito dell’attività sportiva nelle scuole, e ancor di più nelle dinamiche di lettura e interpretazione della corporeità. Quest’ultima soggiace a logiche di datificazione delle performance, spettacolarizzazione e di stereotipizzazione del corpo che ne alterano valori e significati collettivi. Il panel mostra anche le difficoltà scientifiche e operative legate al ruolo dello sport in ogni ambito della sfera sociale, con particolare attenzione a quello nel Terzo settore e sottolinea l’importanza di valorizzare la dimensione valutativa dello sport proprio per leggere e interpretare in una chiave proattiva sfide, cambiamenti e innovazione di settore e nella più società contemporanea. Tra i principali cambiamenti introdotti nella riflessione sociologica dell’ecosistema sportivo, da quasi un trentennio, la disciplina ha abbandonato la logica della ricerca scientifica mono disciplinare in favore di quella interdisciplinare che, secondo una prospettiva ecologica ed organica, ha maggiore probabilità di sistematizzare dati e orientamenti e di cogliere approcci e dinamiche (Burwitz, Moore & Wilkinson 1994, Glazier, 2017). Ma l’urgenza più attuale attiene alla necessità di superare modelli e pratiche che hanno mostrato la loro parzialità e inefficacia, come ad esempio, alcuni modelli di inclusione dello e nello sport, di formazione attraverso lo sport, a forme di vetrinizzazione e di commercializzazione esasperata, ecc. all’interno di un contesto sociale sempre più anestetizzato che tende ad accettare derive e devianze alla stregua di prassi inevitabili e immodificabili. Per questa ragione, i quattro paper che saranno oggetto di discussione in questo panel sono stati selezionati proprio perché riflettono su limiti e potenzialità del fenomeno sportivo quale agente di rinnovamento al fine di rintracciare gli elementi più virtuosi su cui la comunità scientifica può ridefinire le proprie chiavi di interpretazione dei fenomeni e concorrere al loro sviluppo in favore del benessere della collettività . L’educazione fisica al mercato. L’attività sportiva tra scuola e organizzazioni private La svolta neoliberista delle politiche educative nello scenario nazionale e internazionale (Ball 1998; Lawn 2006; Pitzalis, De Feo 2019) sembra immergere sempre più gli istituti scolastici in dinamiche concorrenziali, con un impiego crescente di pratiche di marketing e customizzazione indirizzate al cliente-studente. Non sembra casuale, in diversi casi, che anche l’attività sportiva extracurriculare possa rientrare in questa logica competitiva, in virtù della sua capacità attrattiva (Bifulco, Catone 2022). In modo ormai radicato in diversi contesti internazionali, ma secondo processi che tendono a svilupparsi anche in Italia, si assiste a fenomeni di esternalizzazione dell’educazione fisica scolastica a soggetti privati (corporations, imprese, associazioni, ecc.) o consulenti esterni. Il contesto socioculturale che accoglie queste dinamiche è contrassegnato dalla commercializzazione come dimensione prioritaria dell’organizzazione dello sport nel suo complesso e dall’incidenza della cultura dei consumi (Horne 2006) anche in ambito sportivo e nell’attività fisico-motoria. Parliamo di quell’impianto culturale secondo cui ogni cosa può essere in qualche modo mercificabile, in cui il mercato e i suoi operatori organizzano la prevalenza delle relazioni e dei processi di pubblico interesse, dove prevale la logica della responsabilità personale dell’attore razionale o della privatizzazione delle opportunità. Le principali motivazioni che in genere inducono le scuole a esternalizzare le attività di educazione fisica sembrano legate alle loro difficoltà in termini di: 1) strutture fisiche, strumentazioni, facilities; 2) esperienze e attività; 3) competenze del corpo docente (Williams, Hay, Macdonald 2011; Williams, Macdonald 2015). In diversi casi, grandi corporations possono entrare in gioco e inserirsi così nei contesti educativi scolastici e cittadini (Kohe, Collison 2019), palesando l’ambiguità tra le motivazioni di sviluppo del brand – in termini economici o di immagine – e il concreto sostegno alle comunità locali e scolastiche. Così, se da un lato queste pratiche di esternalizzazione possono garantire un supporto effettivo all’attività fisico-motoria dei più giovani, dall’altro lato va compreso in che termini questi servizi siano totalmente in linea con la missione educativa e con i bisogni formativi di fondo (Petrie et al. 2014; Powell 2015; Williams, Macdonald 2015; Dyson et al. 2016). Questo contributo si rivolge allo scenario italiano, analizzando i progetti attraverso cui alcune corporations – soprattutto quelle attive nella produzione di abbigliamento e accessori sportivi – si propongono negli ambienti educativi promuovendo l’attività sportiva tra i giovani. Ciò al fine di investigare il rapporto tra i vari interessi pubblici e privati in gioco e di comprendere in che misura questa formulazione dell’attività sportiva, nella sua relazione con la cultura prevalente in termini di benessere, focus sull’individuo e la sua esperienza, considerazione più o meno diligente dei fattori sociali alla base dei problemi collettivi (Andrews, Silk 2018; Coakley 2011), definisca un’azione di sviluppo sociale o invece di supporto a vantaggi di parte. . Datificazione della performance e colonizzazione del corpo atletico: una nuova frontiera di sfruttamento capitalistico di massa Pippo Russo (Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Firenze) Il corpo è uno degli oggetti d'analisi privilegiati in sociologia dello sport. Intorno a esso si snodano tematiche cruciali come quelle della salute, della fitness, dell'immagine, della disciplina, dell'estetica e del corretto rapporto fra statica e dinamica. Ma, fra tutte, la tematica più rilevante in termini di studi sociologici sullo sport è la tematica della performance. Che in termini di definizione sociologica è “prestazione effettuata per il conseguimento di un obiettivo, in condizione di difficoltà dal vario grado” e si presenta indifferentemente in qualsiasi grado e circostanza dell'azione sportiva organizzata, dall'alta competizione ai livelli amatoriali. Il corpo performativo è fra i principali oggetti di studio in sociologia, ma è anche un oggetto sociale soggetto a costante risignificazione. L'approccio cruciale per condurre questa analisi necessita di essere quello del rapporto fra l'attore sociale e il suo corpo performativo. Un approccio che trova in sociologia dello sport il suo terreno prioritario perché è proprio nello sport che il corpo esprime una performatività esplicita, evidente e misurabile. Nel mondo dello sport, specie quando ci si approssima sempre più al livello dell'alta competizione, esiste un rapporto peculiare fra l'attore sociale (l'atleta) e il suo corpo: si tratta di un rapporto di alienazione, il più radicale che si possa immaginare nella contemporaneità. Nello sport d'alta competizione il corpo è una “macchina da performance” che smette di appartenere all'atleta dal momento stesso in cui questi sceglie di professionalizzare la propria attività agonistica. Per costui il corpo diventa uno strumento di lavoro da mantenere costantemente in condizioni di fitness, come se si trattasse di un oggetto altro da sé. Quell'oggetto gli verrà restituito al termine della carriera agonistica e in condizioni d'incerta qualità. Ma fino a che dura la carriera agonistica l'atleta dovrà essere mero manutentore di quell'oggetto, alla cui efficienza dovrà piegare ogni condotta della vita quotidiana. Da questo quadro deriva un punto fermo: dacché esiste lo sport d'alta competizione, il corpo performativo è un oggetto di massimizzazione e sfruttamento capitalistici che alimenta un'industria orientata alla produzione di due merci: performance (risultato sportivo) e spettacolo (da definirsi, sociologicamente, come “circostanza organizzata per generare emozioni collettive”). Ma il mutamento culturale, e le successive risignificazioni del corpo atletico (a partire da quelle commesse a un'estetica pubblica della seduzione e della desiderabilità) hanno aperto nuovi versanti di sfruttamento del corpo atletico-performativo. Il fronte più recente di questo sfruttamento coincide con la svolta dei Big Data. Il corpo performativo si trasforma in un deposito di dati da estrarre a beneficio di diversi settori industriali legati alle scienze della performance. Ancora una volta l'atleta deve sottostare, anche a costo di vedere colonizzare quote sempre più ampie della vita personale. Succede, per esempio, nel caso degli studi che monitorano il sonno dell'atleta, con evidenti proiezioni sulla privacy personale. Ma si può anche paventare il rischio che il monitoraggio della propensione agli infortuni (come da recente programma della NFL) riduca la forza contrattuale degli atleti. La proposta di intervento nel panel intende presentare un quadro teorico e una rassegna delle esperienze fin qui maturate, per poi riflettere sui possibili scenari (monitoraggio dell'attività sessuale?) nei quali collocare il futuro del corpo performativo. . “Fit gaze”: lo sguardo sportivo sui corpi. Stereotipie, stigmi e risignificazioni Negli spazi sportivi il corpo è soggetto, oggetto e strumento (Tuselli, Vingelli 2019): soggetto dell’azione; oggetto di osservazione e controllo; strumento per la performance. Il corpo è dunque al centro, così come le sue forme. L’ obiettivo di questo contributo è quello di presentare e rappresentare lo sguardo sportivo sui corpi, come e se è cambiato nel tempo, i significati che produce, in particolare rispetto al genere; le retoriche, le norme, le rappresentazioni, i processi che reitera e quali invece trasforma. Il tentativo è quello di guardare agli spazi di movimento1 attraverso le categorie proprie dei gender studies e dei fat studies, per osservare come e se lo sport veicoli visioni grassofobiche sui corpi e/o articoli nuovi significati, decostruendole. Negli anni Ottanta del Novecento si costituisce il legame fra attività di movimento, corpo, forme del corpo e salute, dove il corpo diventa “luogo di piacere” (Ferrero Camoletto 2005, p. 35). Jane Fonda è il simbolo di quegli anni, pioniera di ciò che poi si chiamerà fitness: con l’aerobica propone “break the weaker sex mold” (Fonda 1981, p. 45) assegnato, di fatto, questa attività sportiva al genere femminile. Il corpo di Fonda (e il “corpo aerobico” in generale) diventa spazio di contestazione dei canoni di bellezza, delle norme corporee sulla femminilità del periodo precedente; allo stesso tempo l’aerobica si pone in un asse di continuità (Bordo, 1988) rispetto alla cultura popolare degli anni '80 che idealizzava, disincarnava e sminuiva le donne (Freedman, 2002; Kagan & Morse, 1988). L'aerobica sembrava aver cooptato, modificato ma allo stesso tempo assegnato significati precisi al concetto di “forma fisica”: è in questo periodo che si afferma il concetto di corpo sano=corpo snello, applicato in particolare alla femminilità (Ellison, 2023). A partire dagli anni 80 dunque l’attività aerobica diventa strumento per mantenere una certa “forma fisica” così da avere un corpo in “salute”. Proprio a partire da questi cambiamenti di significato è importante chiedersi: ma quale “forma” e quale “salute”? Nella pratica sportiva si alternano visioni e significati, ma rimane paradigmatico il concetto di slim to win, non solo a livello agonistico: si traduce in una motivazione che investe la vita di tutti i giorni. In questo quadro, dalla mera osservazione della forma del corpo si tende a dedurre lo stato di salute di una persona (corpo magro=sano; corpo grasso2=non sano), i suoi desideri e le sue necessità. La “salute” diventa responsabilità individuale e valore morale, a partire dalle retoriche sportive (“se vuoi puoi”, “no pain no gain”) in un rafforzarsi di stigmi precisi rispetto ai corpi grassi e al loro status psico-fisico. All’interno degli spazi sportivi sono dunque radicate visioni grassofobiche sui corpi, che hanno una genealogica precisa: è interessante, oggi, indagare cosa comportano questo tipo di visioni, come si traducono nelle pratiche, nei significati e nelle proposte che oggi attraversano i contesti di movimento. Il “fit gaze” tende a offrire “ricette”, tracciare percorsi standardizzati, precise rappresentazioni: retoriche che responsabilizzano l* individu*, indicando vie predefinite per la salute, la felicità, il successo, proponendo spesso una forma del corpo univoca (magra). Capire cosa comportano certi stigmi, gli impatti che hanno sulle persone, la loro salute e i loro percorsi di vita e fondamentale per fare chiarezza su due aspetti in particolare: come e perché alcune soggettività tendono ad allontanarsi dai contesti di movimento; come si può lavorare attraverso lo sport per decostruire certe visioni grassofobiche, modificando linguaggi e attività, accogliendo una pluralità di corpi ed esigenze per promuovere “la salute” nella sua complessità, slegata dall’imposizione di un certa forma corporea. 1 All’interno del contributo si farà riferimento ai contesti sportivi non agonistici, agli ambiti di attività fisica, del fitness, di movimento appunto. . La dimensione valutativa nello sport: ricerca, cambiamento e innovazione sociale Il contesto nazionale sta vivendo in questi ultimi anni un momento di rinnovato interesse sul versante sportivo, caratterizzato da cambiamenti normativi che a cascata si riflettono sul tessuto sociale, economico e organizzativo da parte di tutti gli enti preposti alla formazione ed elargizione di servizi sportivi. In Italia, una nozione di sport giuridicamente solida si è avuta solo con il d.lgs 36/2021 il quale all’art 2 definisce lo sport: «qualsiasi forma di attività fisica fondata sul rispetto di regole che, attraverso una partecipazione organizzata e non organizzata, ha per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica o psichica, delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizione di tutti i livelli». Tale definizione segna un cambiamento sostanziale che disciplina non solo la pratica dello sport intesa come pratica di benessere fisico e psichico; definisce i ruoli e le competenze dei professionisti e degli enti preposti a generare una educazione sportiva; ancor di più, sancisce nella disciplina sportiva praticata a qualsiasi livello, un portatore di cambiamenti nella dimensione sociale e relazionale degli individui (Perissinotto 2012; Martelli, Porro, 2018). La Costituzione italiana, a differenza di altri paesi, non contiene, nel suo testo originario, alcun riferimento esplicito allo sport, né per prendere atto del fenomeno sportivo né, tanto meno, per indicare eventuali competenze in materia di sport degli enti pubblici territoriali; difatti, lo sport per molti anni non è stato concepito come un sistema giuridico, dal momento che l’impatto sociale prodotto dalla pratica sportiva sport era, in sostanza ritenuto assimilabile a quello di una forma di spettacolo. Il d.lgs 31/2021 meglio conosciuto con Riforma dello Sport e successive modifiche, inaugura per la prima volta quel cambiamento epocale di riordino di una disciplina che comporta una “rinnovamento sociale” in termini di organizzazione e riordino di una plurisoggettività di attori che afferiscono all’ordinamento sportivo. Questi cambiamenti, a quasi tre anni dalla sua compiuta attuazione, necessiterebbero di essere misurati, per comprendere l’impatto che questo programma normativo sta generando sul territorio a livello istituzionale, organizzativo tra gli enti preposti alla formazione e alla erogazione dei servizi sportivi educativi. La valutazione di impatto mira a dimostrare che i risultati previsti derivano, sia direttamente che indirettamente, dalle attività del programma (Stern, 2016) ed esso rappresenta un metodo sempre più consolidato, nel momento in cui la Legge 106/2016 richiede agli Enti di Terzo Settore di misurare qualitativamente e quantitativamente l’impatto dei loro interventi (Stame, 2020). In questo preciso scenario, ancor di più lo sport in quanto partner preferenziale in gran parte degli interventi territoriali, diventa una leva imprescindibile da utilizzare, per generare cambiamenti sul territorio. Si attivano infatti collaborazioni partenariali con associazioni e società sportive, si creano interventi sportivi ritagliati sul territorio e su precisi target di riferimento, si creano relazioni e reti che generano cambiamenti e si innestano idee sempre più innovative (Marchetti, 2013; Fazzi, 2019). L’obiettivo di questo lavoro è presentare il contributo che la dimensione valutativa può apportare alla sociologia dello sport. Tale dimensione, nella sua precisa accezione sopra definita, è intesa come lente di ingrandimento per l’osservazione di quei percorsi in cui la pratica sportiva diventa promotrice di azioni collaborative e di innovazione sociale realizzando quanto previsto dalla Riforma del Terzo Settore ma ancor di più dalla Riforma dello Sport, il cui obiettivo principale è creare un ambiente sportivo più equo, sostenibile ed inclusivo per tutti i cittadini italiani.L’obiettivo di questo lavoro è presentare il contributo che la dimensione valutativa può apportare alla sociologia dello sport. Tale dimensione, nella sua precisa accezione sopra definita, è intesa come lente di ingrandimento per l’osservazione di quei percorsi in cui la pratica sportiva diventa promotrice di azioni collaborative e di innovazione sociale realizzando quanto previsto dalla Riforma del Terzo Settore ma ancor di |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 6: Processi e politiche dell'arte Luogo, sala: Aula VI Chair di sessione: Gianmarco Navarini |
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Artivismo, partecipazione e immaginari: nuove traiettorie di ricerca? Università di Bologna, Italia La relazione tra pratiche artistiche e attivismo è divenuta nell’ultimo decennio oggetto di un ampio dibattito attorno a diversi campi di pratiche (Paltrinieri, Parmiggiani, Musarò, Moralli 2020; Oso, Ribas-Mateos, Moralli 2024) che pongono al centro il ruolo delle arti nella generazione di cambiamento sociale interrogando al contempo la dimensione politica di tale cambiamento. Tra i diversi termini oggi ampiamente utilizzati per descrivere questa relazione vi è quella di “artivismo” (Milohnić 2005) che guarda all’arte come forma di azione pubblica (Verde 2007), in grado di “istituire” processi di soggettivazione politica (Allegrini 2020). Il termine artivismo si riferisce quindi a quelle pratiche e progetti creati da artiste/i, attiviste/i e studiose/i che fanno dialogare la dimensione estetica con quella etica e politica (Salzbrunn 2019), rappresentando un'importante forma di dissenso e un potente spazio espressivo di partecipazione e riflessività culturale. Spazio dove si cerca di intervenire per riflettere criticamente sulle differenti emergenze del nostro tempo – dal campo educativo, a quello ecologico, dal diritto alla città e alla mobilità – attraverso diversi linguaggi e dispositivi che possono spaziare dalle forme proprie dell’arte pubblica (Lacy 1995), all’arte partecipativa “communty-based”, fino all’“artivismo digitale” (Gemini, D’Amico, Sansone 2021). Il presente contributo si colloca all’interno di questo dibattito e intende tracciare alcune traiettorie di riflessione critica sulle intersezioni tra produzione artistica, cultura e attivismo. Lo farà partendo dai risultati emersi da tre ricerche accomunate dall’obiettivo di riflettere sul dialogo e le tensioni esistenti tra pratiche artistiche, diversità culturale e creazione di nuovi immaginari sociali. Il contributo si sofferma in particolare su quattro dimensioni trasversali, oggi particolarmente rilevanti per alimentare una riflessione critica sulla relazione tra sapere e potere e sulla produzione di nuove narrazioni sociali. Una prima dimensione riguarda il tentativo, oggi emergente in diversi ambiti, di risemantizzare il concetto stesso di produzione artistica in particolare rispetto a due dimensioni chiave: tempo e spazio (e luoghi) e il loro ruolo nel fondare pratiche commoning (Dockx, Gielen 2018). Una seconda dimensione riguarda la tensione tra processi di politicizzazione e depoliticizzazione e il ruolo giocato da artiste/i quali mediatori e mediatrici di sapere e di immaginari alternativi contro-egemonici (Papastergiadis 2012). Infine, si rifletterà sulla dimensione partecipativa e collaborativa (Bishop 2011; Kester 2005;) che spesso viene evocata per descrivere queste pratiche e la necessità di mettere a fuoco le ambivalenze e le opportunità che tali pratiche disvelano, anche decostruendo il concetto di conoscenza come “sapere esperto” e mettendo in discussione il processo di produzione dei saperi dentro e fuori l’accademia. Il laboratorio dal vivo: partecipazione intensiva ed estensiva in BAT - Bottega Amletica Testoriana Università di Urbino Carlo Bo, Italia La storia dell’arte del Novecento è caratterizzata da un insieme di idee e pratiche partecipative che hanno cercato di mettere in discussione la netta distinzione dei ruoli tra artista, opera d’arte e pubblico. Teorizzazioni come quelle di “estetica relazionale” (Bourriaud 1998) o “arte dialogica” (Kester 2004) hanno cercato di sistematizzare questi tentativi nell’ottica di una traiettoria che passa dall’opera al processo comunicativo, e dall’asimmetria artista/fruitore a uno scambio, idealmente, più paritario. Lo sviluppo delle piattaforme e delle culture digitali ha esteso tali questioni, precedentemente esclusive dell’ambito artistico, a un raggio più ampio di domini sociali. Ci troviamo in quella che è stata definita come “participatory condition”, dove «(…) participation (...) has become both environmental (a state of affairs) and normative (a binding principle of right action)» (Barney et al. 2016, p. 1). L’idea di una “condizione partecipativa” non indica quindi soltanto un ambiente sociotecnico che favorisce la partecipazione, ma una mutazione dell’immaginario sociale dove cambia il senso della posizione nella comunicazione (Boccia Artieri 2012). Se però da una parte i pubblici sono portati a cercare esperienze culturali basate su co-creazione e prosumerismo (Australia Council for the Arts 2021), dall’altra, queste potenzialità si scontrano con la penetrazione di responsabilità “lavorative” nel tempo libero (Harvie 2013) e con la mercificazione dell’interazione come strategia di engagement. Il caso BAT, su cui si basa il presente lavoro di ricerca, rappresenta un campo di osservazione privilegiato per indagare la costruzione e la ricezione di processi artistici partecipativi che cercano di sfuggire a tali logiche di commodification del lavoro relazionale (Baym 2018) . BAT - Bottega Amletica Testoriana è un progetto curato dal regista teatrale Antonio Latella insieme ad AMAT, e consiste in un percorso di formazione con 8 giovani attrici e attori sulla poetica del drammaturgo Giovanni Testori, concentrandosi in particolare sulle sue tre riscritture dell’Amleto. BAT presenta specificità che lo rendono un caso unico sul rapporto tra obiettivi quantitativi e qualitativi della partecipazione nelle arti: la sfida al consumismo culturale, poiché esso non prevede un esito finale in forma di prodotto spettacolare, ma invita il pubblico ad assistere al processo di apprendimento degli artisti; la temporalità dilatata del percorso, svoltosi tra febbraio 2023 e febbraio 2024 per sei mesi complessivi; l’affiancare alla call per artisti una call specifica per 8 spettatori e spettatrici, ognuno dei quali ha seguito un artista custodendo le visioni e i racconti del processo di ricerca e creazione. Nei sei mesi di lavoro, infatti, questi ha accompagnato i giovani allievi sia in presenza nelle prove aperte, sia a distanza tramite WhatsApp, dove si è dipanata una particolare dinamica relazionale tra laboratorialità, spettatorialità e intimità. A partire da queste premesse, lo studio chiede:
Per analizzare queste questioni sono stati compiuti due interventi di ricerca: a) un’analisi del contenuto delle chat di gruppo, b) interviste in profondità con i partecipanti a BAT, gli organizzatori e con membri del pubblico che hanno assistito solo al laboratorio aperto. Da una parte, il progetto presenta elementi che risuonano con la condizione partecipativa delle culture digitali - il coinvolgimento nella creazione, la relazione mediatizzata, la centralità dei vissuti -, ma dall’altra, esso si basa su una estensione e intensità della partecipazione che rifugge gli imperativi di scalabilità e “contentificazione” tipici dell’odierna economia culturale. Machine visions, immaginari algoritmici e pratiche creative. Uno studio esplorativo sull’uso dell’Intelligenza Artificiale nell’arte Sapienza, Università di Roma, Italia Nel panorama culturale contemporaneo, l’Intelligenza Artificiale (IA) emerge come una forza dirompente, che permea un numero crescente di sfere della vita quotidiana (Citron, Pasquale 2014; O'Neil 2017). Tra gli ambiti di impiego di tale tecnologia, uno spazio di interesse, in una prospettiva socio-comunicativa, è quello della relazione tra IA e arte. Un binomio lontano dalle più prevedibili prassi e funzioni delle tecnologie algoritmiche (WEF 2018) e dalla tradizionale connotazione della creatività artistica, prevalentemente associata a un atto sociale e relazionale, tipicamente umano (Hertzmann 2018). La rapida diffusione di sistemi di Machine Learning (ML) e IA per generare nuovi artefatti culturali (Manovich, Arielli 2021) solleva domande cruciali sulla natura e l’evoluzione della creatività, relative, per esempio, allo statuto dell’arte nell’era dei software (Manovich 2022), all’autorialità e all’autenticità delle opere o al futuro della professione e dell’espressione artistica (Calveri, Sacco 2021). L’IA, infatti, sta sia modificando i processi creativi sia contribuendo alla definizione di inediti immaginari sociali (Arielli 2024), dando vita a una “machine vision” che sconvolge e ridefinisce la comprensione delle immagini (Parikka 2023). Queste riflessioni sono parte del framework teorico del progetto di ricerca PRIN IMAGES (Inclusive Machine learning system using Art and culture for tackling Gender and Ethnicity Stereotypes), promosso da Sapienza Università di Roma e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), che si prefigge di indagare l’inclusività e l’accessibilità dei sistemi di ML/IA utilizzati in dataset artistici (Shrestha, Das 2022) e di usare le immagini di opere d’arte in percorsi formativi volti a promuovere l’inclusione e la consapevolezza delle diseguaglianze. Nell’ambito del progetto, si propone un paper che confronta gli esiti di una revisione della letteratura sulla relazione tra arte, immagini e sistemi algoritmici, con i punti di vista, le esperienze e le pratiche di artisti e artiste italiani che utilizzano tali sistemi con l’intento di svelarne i limiti e le contraddizioni, negoziarne le potenzialità, metterne alla prova gli strumenti o riflettere su inclusione e disuguaglianze (Escudero Pérez 2020; Fraser, Kiritchenko, Nejadgholi 2023; Sun et al. 2023). In linea con il taglio del convegno SISCC 2024, l’obiettivo è esplorare e comprendere nuove pratiche creative, la cui portata e gli sviluppi non riusciamo (ancora) a interpretare chiaramente. Tra i metodi utilizzati sono stati selezionati una scoping review della letteratura scientifica (Peters et al. 2015), effettuata per parole-chiave su Scopus e Web Of Science, e interviste in profondità ad artisti quali, tra gli altri, Fabrizio Intonti, autore del progetto “I AM AI” sugli stereotipi nelle immagini di IA generative (www.festivaldirittiumani.ch), Gaia Riposati e Massimo Di Leo, autori del “NuvolaProject” (www.nuvolaproject.cloud/it), e Oriana Persico co-fondatrice del progetto “HER:She Loves Data” (www.he-r.it). L’analisi della letteratura ha restituito 179 contributi, che hanno permesso di individuare prospettive disciplinari prevalenti, tematiche privilegiate, metodi di ricerca utilizzati ed esiti più rilevanti, rilevando che gli algoritmi si configurano sia come strumenti di analisi impiegati per descrivere, classificare e valutare immagini di opere d’arte, sia come agenti catalizzatori della creatività. L’analisi preliminare delle interviste con artisti e artiste che inseriscono i sistemi algoritmici nelle loro routine creative ha evidenziato una visione partecipata e critica sull’impatto sociale e culturale di tali tecnologie. In generale, il lavoro descrive uno scenario in cui i sistemi algoritmici sono sempre più riconosciuti quali “costrutti tecno-sociali” (Airoldi 2022) dalle grandi potenzialità artistiche in alcune fasi del processo creativo, ma non primi di contraddizioni. Inoltre, si evidenzia come la loro incapacità di conoscere il mondo al di fuori della logica degli algoritmi (Pereira, Moreschi 2021) possa essere sia un limite, che un’opportunità per sviluppare nuovi immaginari condivisi (Arielli 2024) e modi innovativi di leggere e interpretare criticamente l’arte. Riconoscere l’immagine fotografica nell’epoca delle AI. Uno studio del dibattito intorno a Pseudomnesia: The Electrician di Boris Eldagsen. Università di Urbino Carlo Bo, Italia La popolarizzazione della fotografia come nuova tecnologia del visivo ha accompagnato una serie di rivoluzioni rispetto il ruolo quotidiano degli oggetti visivi, il sistema sociale dell’arte e le finalità informative e politiche accordate alle immagini, come illustrato già da Walter Benjamin nel classico L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). Oggi, la diffusione dei generative visual media in grado di produrre immagini simil-fotografiche (Arielli, Manovich, 2023) sembra portare a compimento un processo di cambiamento radicale rispetto al ruolo del medium fotografico, esasperando un dibattito iniziato con l’avvento del digitale, con la diffusione del World Wide Web e poi dei social media. Le teorie che ruotano intorno alla svolta iconica degli anni ’90 (W.J. T. Mitchell, 2017), in particolare, inquadrano questo cambiamento nei termini di un salto epistemologico dove le immagini tecniche e le fotografie vengono intese prevalentemente per la loro valenza performativa, comunicativa e informazionale (Gemini 2021). Entro questa cornice teorica, la letteratura recente riguardo la filosofia e la storia della fotografia, si fa spesso portatrice di invocazioni riguardo una presunta morte del medium fotografico e dei suoi tradizionali valori (Dewdney 2021; Zylinska 2022). Il seguente paper si concentra quindi sul rapporto tra fotografia e immagini AI generated simil-fotografiche: in questo momento definito talvolta come “crisi” del fotografico, assistiamo all’emergere di nuove forme di immaginario sociale e culturale riguardo il ruolo dei nuovi media visuali (MacKenzie, Munster 2019)? In questo senso, un caso paradigmatico è quello del fotografo Boris Eldagsen che, nell’aprile del 2023, ha partecipato al Sony World Photography Award, vincendo il premio nella sezione “Creative” con una immagine AI-generated intitolata Pseudomnesia: The Electrician. L’artista ha tuttavia rifiutato il premio, ammettendo di aver partecipato solo per innescare una riflessione intorno al medium fotografico. La sua azione provocatoria ha scatenato quindi un dibattito pubblico che ha coinvolto il sistema dell’arte e della fotografia, le sue istituzioni, i suoi attori e i suoi pubblici ma anche i media generalisti, le categorie degli amatori e di tutti coloro che si occupano di tecnologie e intelligenze artificiali generative. La prospettiva del paper è quella di una cultura visuale che si avvalga di presupposti, metodi e finalità sociologiche: si riesce così a indagare empiricamente e fenomenologicamente quali siano, allo stato attuale, le continuità e le rotture rispetto agli immaginari, ai valori, alle pratiche e ai discorsi che ruotano attorno all’emergere di questa nuova tecnologia visiva in diversi campi del sociale, entro le dinamiche di senso oramai definite dalle logiche online della cultura convergente (Jenkins 2008). Sulla piattaforma Facebook è quindi possibile osservare la risonanza e la diffusione che la vicenda ha avuto nel dibattito pubblico: attraverso il tool di Crowdtangle si è svolta una ricognizione dei 562 post pubblicati da pagine e gruppi pubblici in lingua inglese e italiana che hanno riportato la notizia nell’arco di un anno, per i quali la scelta delle lingue permette di svolgere una content analysis del testo. La categorizzazione della tipologia di pagine e gruppi pubblici permette di circoscrivere le aree di interesse rispetto alla vicenda. L’analisi del contenuto del testo in descrizione per i post permette poi di mostrare quali nodi problematici emergano rispetto alle immagini AI-generated, quali valori siano in gioco e le posizioni assunte. Infine, l’analisi del contenuto dei commenti, campionati per pertinenza e popolarità, illustra topic e sentimenti diffusi nell’opinione pubblica da parte degli utenti. Emergono quindi differenti posizioni riguardo cosa sia l’immagine fotografica digitale, quale siano le problematiche dell’AI nell’ambito artistico e quali traiettorie etiche e politiche sembrano dover essere incentivate.
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15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 7: Disordini informativi Luogo, sala: Aula VII Chair di sessione: Marco Mazzoni |
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Effetti dei media e pratiche informative: uno studio sui fattori che favoriscono l’adesione a conoscenze rifiutate dalla scienza istituzionale Università di Napoli Federico II, Italia Negli ultimi anni, e nel contesto della “piattaformizzazione” dell’esperienza quotidiana, l’articolazione del conflitto tra saperi istituzionalmente legittimati e comunità che promuovono saperi alternativi è stata spesso associata ai meccanismi di produzione, circolazione e socializzazione della conoscenza negli ambienti online. La natura orizzontale e disintermediata di Internet e dei social media, in cui le opinioni degli esperti entrano in competizione con quelle degli utenti comuni, favorirebbe infatti secondo alcuni interpreti uno scetticismo iperbolico nei confronti delle istituzioni legittimate a produrre conoscenza. Ciò spiegherebbe in parte la proliferazione di fake news e la crescente legittimazione di teorie cospirazioniste. Concetti come quelli di “post-verità”, “società post-fattuale” e, più di recente, “infodemia”, sono stati mobilitati proprio per evidenziare una presunta crisi epistemica delle società occidentale, strettamente collegata ai processi di piattaformizzazione della conoscenza. Alla base di questo approccio vi è anche ciò che alcuni studiosi hanno definito un ritorno a un paradigma comportamentista o degli “effetti forti” dei media, secondo cui la crescente esposizione a notizie false aumenterebbe in maniera deterministica la disponibilità ad aderire a teorie anti-scientifiche. 1. Tra i vari meccanismi sociali e culturali che favoriscono la disponibilità - da parte di laypeople - ad attribuire credibilità a conoscenze rifiutate dalla scienza istituzionale, che ruolo rivestono i mezzi di comunicazione (specie quelli digitali) e le informazioni da essi veicolate? 2. Quali sono le fonti e le pratiche informative più comuni tra laypeople che hanno aderito a conoscenze rifiutate dalla scienza istituzionale o che si mostrano comunque aperte a legittimarle? Scientific (dis)information and ingenuous trust in science: Engagement and reception of scientific (dis)information in Italian high schools Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia The proposed intervention focuses on the high school classroom as a social group in order to investigate its role in mediating access, reception, and circulation of scientific (dis)information. It is based on a two-year-long mixed-method research on twelve high school classrooms selected from six schools proposing different curricula (humanistic, scientific or professionalizing). In each of them, we conducted qualitative interviews with students, teachers and parents; focus groups with students and parents; two rounds of qualitative media diaries; virtual ethnography and commented social media reel scrolling sessions; and data donation. Especially when compared with the family, the classroom as a social group has by and large emerged as a weak mediator for the access and reception of scientific (dis)information: a role that is almost entirely fulfilled by the guidance provided by teachers within their educational programs. Beyond that, scientific information is rarely shared or discussed among classmates, except for information delivered through infotainment formats on social media, or strictly related to common concerns for everyday life (in particular regarding health and nutrition). By far more relevant are smaller groups of friends, within and across the classroom, who share the same interests or passions, like astrophysics. Notwithstanding this role of the classroom, our observations suggested how students share the same criteria to distinguish between scientific information and disinformation – generally based on stylistic features on the message and on the refusal of scientific populist or conspirative frames – and above all a similar – and somehow ingenuously unrealistic – idea of science, based on an unerring capacity of the scientific method to ascertain definitive truths, grating unanimous consensus in the scientific community. This ingenuous trust in science can represent a vulnerability when probed by personal or social crises (like a disease or the pandemic). As a part of the project, we have developed an experimental formative module to promote a more realistic understanding of science, based on the main acquisitions of the Social Studies of Science, taking care, however, not to undermine its trustworthiness. The Role of “News Finds Me” Perception, Political Knowledge, and Ideological Extremism in Misinformation Sharing Practices 1Università di Bologna; 2Università di Urbino; 3Univeristà di Sassari, Italia In the contemporary digital media environments – characterized by the abundance of information sources, news fragmentation, secondary gatekeeping, and algorithmic news selection – the risks for citizens to meet false news and amplify them are increased. Based on survey data collected in January 2023 on a representative sample of Italian adults, the present study investigates individual-level drivers of misinformation sharing on Social Media (SM) and Instant Messaging Services (IMs), which we define as the unintentional amplification of a false news story. Even if misinformation sharing does not aim at misleading, it is considered a “democratically dysfunctional participatory practice” (Chadwick et al., 2018). The study has two aims. The first aim is to examine the direct influences of “News-Finds-Me perception” (NFMP) and political knowledge (PK) on misinformation sharing on SM and IMs. NFMP is a recent phenomenon, very diffused in Italy (Gil de Zúñiga et al., 2020). It is the perception of being well-informed, relying on the information received from peers on digital platforms (Gil de Zúñiga et al., 2017; Song et al., 2020). Only a few recent studies investigated the association between NFMP and fake news sharing (Apuke and Omar, 2021; Chadwick et al., 2021; Wei et al., 2023). In the light of the few available findings, we formulate this hypothesis: H1. Higher levels of NFMP are positively associated with a higher probability of sharing misinformation on SM/IMs. The depressive effect of PK on misinformation sharing has been instead extensively investigated (e.g., Pennycook et al., 2020; Rossini et al., 2021), but results are still not consistent, also depending on the type of PK that is considered. Following the hypothesis of a positive effect of higher knowledge in error detection, we expect that: H2. Higher levels of knowledge of current political issues are negatively associated with a higher probability of sharing misinformation on SM/IMs. The second aim is to explore the interactions of ideological extremism with NFMP and PK in misinformation sharing processes. Scholars demonstrated the significant role of (right-wing) extreme ideological positions in fake news engagement (Marino and Iannelli, 2022) but have overlooked the role of extremism in moderating the supposed positive effect of NFMP and the supposed negative effect of PK on misinformation sharing. Yet, extremism could enhance misinformation sharing of NFMP people following a vicious circle that, from NFMP, brings individuals to political homophily, to ideological polarization, to ideologically motivated misperceptions, and to misinformation sharing. At the same time, extremists could refuse this low-effort style of news consumption, thus neutralizing its effect on misinformation sharing. Moreover, in line with the motivated reasoning perspective, for individuals holding extreme ideologies, higher PK could enforce misinformation sharing because this combination helps to recognize attitude-consistent arguments, regardless of their factuality. At the same time, if individuals with extreme ideologies tend to follow accuracy goals in news sharing, higher levels of PK could have a depressive effect on misinformation sharing. We thus pose this RQ: RQ1. Does right-wing and/or left-wing ideological extremism moderate the effects of NFMP and political knowledge on the probability of sharing misinformation on SM/IMs? After controlling our regression models for a range of variables concerning demographics and informative media use, we find support for both our hypotheses. We then find that left-wing extremism increases the depressive effect of higher levels of PK on misinformation sharing. On the contrary, right-wing extremism neutralizes the effect of political knowledge. These findings can help to understand contemporary societies starting from the investigation of the effects that low-effort styles of news consumption, knowledge of current political events, and ideological polarization can have on the disruption of the digital public sphere. Media, informazione e conoscenza: i disordini dell'informazione nel cortocircuito tra opinioni, competenze e aleturgie. Sapienza Università di Roma, Italia Il presente contributo propone una riflessione volta a comprendere gli aspetti sociali, culturali e comunicativi delle forme di disordine che emergono al livello del rapporto tra media, informazione e conoscenza a partire da una prospettiva ecologica. In una realtà profondamente mediatizzata (Hepp 2020) come quella in cui viviamo, e in cui la centralità delle piattaforme (van Dijk et al. 2018; Zuboff 2019), l’information disorder e l'information overload (Wardle, Derakhshan 2017; Maddalena, Gili 2018, Boccia Artieri, Marinelli 2018) costituiscono aspetti ormai divenuti strutturali, tali disordini, oltre ad essere tecnologicamente determinati, si rivelano anche culturalmente determinanti, influenzando valori, pratiche e visioni sociali (Fuchs 2021; Boccia Artieri 2022; Esposito 2022). A tale proposito, verranno presentati e discussi i risultati conclusivi di una ricerca quinquennale (“The Social Effects of Fake News”), incentrata sul legame tra disordini dell’informazione e disordini della conoscenza, che ha previsto la realizzazione di 399 interviste a individui selezionati con un campionamento a scelta ragionata, rappresentativo della popolazione italiana in termini di età e genere, attraverso una survey suddivisa in tre aree (dati socio-anagrafici; repertori mediali; opinioni personali). I dati raccolti sono stati analizzati attraverso il ricorso a due specifiche categorie teoriche e interpretative, nel tentativo di comprendere le dinamiche e i processi alla base della proliferazione dei disordini (non solo) informativi. Da un lato, si è fatto riferimento al concetto di competenza quasi-statistica (Noelle-Neumann 1974), in passato fondamentale per riconoscere i limiti sociali e culturali delle opinioni individuali, e che oggi invece appare oggetto di una crisi derivante sia dalle moltiplicate possibilità di accesso a un’ampia gamma di contenuti, sia da una propensione conoscitiva orientata a conservare (e/o a rafforzare) opinioni e orientamenti cognitivi personali. Dall’altro, è stato preso in considerazione il concetto di aleturgia (Foucault 1985; Colombo 2022) che, se in passato identificava un complesso apparato macro-sociale in grado di esercitare il potere della verità, oggi, anche a seguito di una inesorabile mediatizzazione, sembra attivare processi di costruzione di micro-regimi di verosimiglianza (o addirittura di non-verità), attraverso cui gli individui costruiscono e condividono le proprie visioni e le proprie pratiche di realtà. A un livello generale, la considerazione di tali aspetti è stata fondamentale per evidenziare anzitutto come non siano soltanto l’informazione e i disordini informativi a innescare i disordini conoscitivi, ma sia anche la dimensione conoscitiva (pregressa o acquisita) ad esercitare un ruolo determinante nella selezione e nella fruizione delle informazioni (anche false) e nella conseguente generazione di potenziali disordini informativi. In modo più specifico, tutto questo ha permesso di costruire quattro frame principali a cui sono stati ricondotti i risultati relativi alla propensione a credere e a condividere le notizie false: “descrizione” (realtà presunta); “enfasi” (realtà esagerata); “segreto” (realtà nascosta); “negazione” (realtà negata). Quindi, considerando le diverse modalità di ricerca/ricezione/fruizione dei contenuti informativi da parte degli individui del campione, è stato possibile delineare, per ognuno dei quattro frame, uno specifico modello di riferimento: il “modello ecfrastico” (basato sulla tendenza/necessità di descrivere la realtà a tutti i costi); il “modello ipocondriaco” (basato su paure, soprattutto legate alla dimensione della salute); il “modello solipsista” (basato sulla sopravvalutazione delle competenze personali e, dunque, su una superiorità illusoria, Kruger, Dunning 1999); il “modello ideologico” (basato su valori e convinzioni personali). |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 8: Comunicazione e immaginari del cambiamento climatico Luogo, sala: Aula VIII Chair di sessione: Pierluigi Musarò |
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Quale comunicazione per la comunicazione del rischio? Riflessioni a partire da una literature review Sapienza Università di Roma, Italia I rischi ambientali e naturali rappresentano una minaccia crescente. Inoltre, l’impatto del cambiamento climatico ha portato all’innalzamento della frequenza di eventi meteorologici estremi, quali inondazioni, siccità e incendi boschivi. Questi eventi presuppongono un investimento nella divulgazione delle attività necessarie ai processi di mitigazione, adattamento e prevenzione da parte di istituzioni deputate alla gestione dei rischi. La comunicazione del rischio è un elemento strategico per la realizzazione di tali aspetti. Il campo della comunicazione del rischio è caratterizzato da confini porosi e discipline permeabili. Le scienze sociali si sono trovate a dialogare con altri campi disciplinari per comprendere i rischi naturali, la loro gestione e i relativi processi di comunicazione, anche con il fine di immaginare soluzioni efficaci (Balog-Way et al., 2020; Cerase, 2017; Sellnow et al., 2008). Spesso, la comunicazione del rischio deve veicolare messaggi legati all’incertezza e alla probabilità (Schneider, 2016); inoltre, non sempre amministratori e decision-makers riescono a comunicare efficacemente le informazioni tecniche a pubblici non necessariamente a proprio agio con il linguaggio della scienza. Media e operatori dell’informazione hanno la responsabilità di trasmettere e tradurre le informazioni prodotte da scienziati ed esperti ai pubblici (Covello et al., 1986). In questo contributo, ci interrogheremo sul ruolo delle discipline comunicative nel più ampio contesto della comunicazione del rischio, riflettendo intorno a pratiche, processi e strumenti raccolti in una scoping review (Anderson et al., 2008). Questa review, condotta all’interno di un più ampio progetto di ricerca, aveva lo scopo di catalogare le pratiche di comunicazione del rischio internazionali, concentrandosi su campagne, strumenti ed esperienze significative. La stringa di ricerca per la raccolta dei paper, composta da 43 keywords, è stata formulata dettagliando tre aree: 1) rischi naturali; 2) campo della comunicazione del rischio; 3) elementi che compongono e caratterizzano i processi di comunicazione del rischio, prendendo in considerazione quanto evidenziato in contributi sulla comunicazione del rischio e sulle campagne di comunicazione pubblica (Atkin, 2012; Covello et al., 1986; Rice & Paisley,2012). La stringa è stata lanciata in cinque database (ACM, EBSCO, IEEE Xplore, Scopus, Web of Science) e ha raccolto 2217 articoli, ridotti a 1387 a seguito della rimozione dei duplicati. Questi articoli sono stati selezionati considerando il principio dell’intenzionalità (Malle et al., 2001) della comunicazione, in linea con i fondamenti della mass communication research (Katz & Lazarsfeld, 1955). Questo processo ha condotto all’identificazione di 125 paper, analizzati qualitativamente in profondità per estrapolare le informazioni rilevanti per la costruzione di un repository di pratiche efficaci e di fattori limitativi nella comunicazione del rischio. Nello specifico, l’analisi vuole rispondere a due domande di ricerca: RQ1: quali sono le caratteristiche della letteratura internazionale che ha descritto le pratiche di comunicazione del rischio? RQ2: quale è il ruolo delle discipline e dei saperi comunicativi nella comunicazione del rischio? Le principali caratteristiche emerse dall’analisi dei paper (frequenza e sedi di pubblicazione, temi principali, focus geografici, metodi di ricerca, etc.) sono utilizzate per rispondere alla RQ1. Si restituiranno, inoltre, le principali evidenze in merito ai quadri teorici di riferimento, le definizioni di comunicazione del rischio, i modelli di comunicazione prevalenti (RQ2). I risultati principali mostrano come la dimensione comunicativa sia talvolta marginale rispetto al peso interpretativo di altre discipline, specialmente quelle che interessano i dettagli tecnici dei rischi. Inoltre, nei paper analizzati la problematizzazione della comunicazione del rischio è limitata a poche occorrenze, mentre si descrivono dettagliatamente strumenti e ricadute operative. La review ha evidenziato aree ancora poco esplorate: processi organizzativi, attenzione alla comunicazione del rischio in chiave di genere/diversity/multiculturalismo, partecipazione e co-design necessiterebbero di approfondimenti attraverso gli strumenti teorici delle discipline sociologiche e comunicative. Eventi meteorologici estremi come eventi mediali nell'era del cambiamento climatico. Il caso delle alluvioni in Emilia-Romagna Scuola Universitaria Superiore IUSS Pavia, Università degli Studi dell'Insubria Comunicare il rapporto tra cambiamento climatico ed eventi meteorologici estremi durante e successivamente il loro accadimento si è rivelato una sfida complessa per giornalismo e media. Sebbene sia ormai accertato che le emissioni climalteranti generate dall’uomo influenzino la frequenza e l’intensità di tali eventi su scala globale e regionale, non è altrettanto semplice stabilire il ruolo che ricoprono nei singoli episodi. Gli studi di attribuzione, che provano a stabilire tale legame, sono relativamente recenti e numerosi contributi evidenziano come la scelta delle variabili considerate e dei metodi di analisi possano far variare in modo rilevante i risultati ottenuti. Inoltre, non sono sempre disponibili e, quando lo sono, visti i tempi di valutazione e pubblicazione, possono trovare copertura mediatica solo nel momento in cui la notiziabilità dell’evento è solitamente in calo, se non del tutto scomparsa, e lo spazio dedicato alla discussione di cause e responsabilità è già stato largamente definito. Gli studi circa l'effetto di questi eventi su credenze e percezioni dei rischi climatici sono piuttosto controversi. Nonostante ciò i media, attraverso l’effetto di agenda setting rivestono un importante ruolo nell’influenzare i discorsi, gli immaginari costruiti e le posizioni assunte sul cambiamento climatico e il suo legame con gli eventi meteorologici estremi. Gli eventi in questione grazie all’alta notiziabilità che li caratterizza assumono spesso la forma di veri e propri eventi mediatici. Infatti, la definizione di crisi assunta dalla situazione climatica e lo statuto emergenziale degli eventi meteorologici estremi determinano un grande interesse da parte dei media. Interesse che viene ancor più riservato alle alluvioni grazie al loro impatto improvviso, le gravi conseguenze e le immagini sconvolgenti che le caratterizzano. In questo studio, adottiamo un approccio olistico che combina la teoria dell'evento mediatico e l'analisi dell'ecosistema mediale, indaghiamo in modo critico discorsi, frame, rituali e narrazioni che danno forma alla rappresentazione mediatica delle alluvioni che hanno colpito l'Emilia-Romagna nel maggio 2023. Utilizziamo un disegno metodologico misto che prevede un'analisi qualitativa dei contenuti e delle narrazioni integrata da statistiche descrittive e analisi quantitativa dei testi. I dati sono costituiti da notizie provenienti dai cinque principali quotidiani nazionali, sette telegiornali di prima serata e tweet, relativi al mese di maggio 2023. I risultati preliminari mostrano una certa coerenza tra i media considerati circa fasi narrative, agenda e discorsi presentati, con alcune variazioni nell'inquadramento delle notizie, nella selezione delle cause e nella rappresentazione del legame cambiamento climatico-eventi estremi. In primo luogo, si nota come l’enfatizzazione di lutto e perdita, sostenuti dall’immagine di resilienza data dei cittadini dell'Emilia-Romagna abbia creato un rituale di solidarietà nazionale. Da qui lo spazio dato a toni emotivi e logiche emergenziali, che hanno limitato le prospettive critiche circa cause, vulnerabilità e misure preventive. Si evidenzia così come il momento di grande attenzione mediatica e il fermento emotivo che caratterizza l’evento mediatico non riescano rendere conto della complessità del fenomeno e dei diversi fattori che potrebbero aver contribuito alle gravi conseguenze registrate. Dall’altra, il giornalismo mainstream in Italia sembra carente di uno spazio e di competenze specifiche per affrontare in maniera critica le questioni ambientali e scientifiche. La tendenza a semplificare e sensazionalizzare il discorso porta a una gestione problematica dell’incertezza e della rilevanza dei fattori coinvolti nell’attribuzione delle cause. Le narrazioni e i loro soggetti si sovrappongono e confondono nei diversi media e testate, evidenziando una trattazione parziale e talvolta fuorviante del legame tra cambiamento climatico ed eventi meteorologici estremi. The Day after Tomorrow Gli immaginari sociali del futuro nelle culture giovanili attraverso la produzione culturale di climate-fiction Università Milano-Bicocca, Italia Questo lavoro di ricerca fa parte di un più ampio progetto finanziato dal PRIN PNRR 2022 (codice CUP - F53D23010870001) che indaga la produzione e la circolazione di scritti da part di attivisti e di narratori sul clima e sull'ambiente all’interno delle culture giovanili. Nel complesso, il progetto prende sul serio l'immaginario giovanile sul futuro come questione centrale del dialogo intergenerazionale, del potenziale conflitto e consenso tra generazioni diverse, mettendo al centro gli strumenti dell’analisi della sociologia culturale per comprendere l’intreccio tra discorso scientifico, mercato editoriale e immaginari sociali sul futuro. In questo quadro, questa specifica proposta si concentra sull’emergere nel panorama italiano di opere letterarie appartenenti al genere della Climate Fiction (Cli-Fi): tanto le visioni utopiche quanto le distopie ecologiche diventano oggetti di analisi rilevanti, per verificare in che misura e con quali dispositivi retorici gli immaginari speculativi del futuro vengono classificati come positivi o negativi, ottimisti o pessimisti. A questo scopo, la ricerca si propone di combinare la letteratura sugli immaginari sociali (Taylor, 2004; Castoriadis, 1975; Appadurai, 2004) con l'approccio del campo della produzione culturale (Bourdieu, 2005), al fine di collocare la produzione discorsiva nell'ambito empirico delle routine della produzione editoriale. Il disegno di ricerca è organizzato attraverso tre momenti di analisi volti a ricostruire la genesi sociale, le caratteristiche intrinseche e gli effetti potenziali di un immaginario letterario costruito attraverso questo particolare campo di produzione culturale. In un primo momento, è stata ricostruita la storia culturale del particolare genere letterario definito Climate Fiction (Milner & Burgmann, 2018; Goodbody & Johns-Putra, 2019) al fine di delineare le modalità con cui è diventato un segmento centrale dell'editoria rivolta alle nuove generazioni e di tracciare le potenziali linee di sviluppo futuro nel contesto italiano ed europeo. In una seconda fase, attraverso gli strumenti della critical discourse analysis, è stato analizzato un corpus di romanzi, selezionati sulla base di 3 criteri principali: la rilevanza dell'argomento rispetto al tema della ricerca, il grado di diffusione del testo su base europea e il marketing editoriale in cui il testo è inserito. Parallelamente all'analisi del discorso, in questa seconda fase, sono state condotte una serie di interviste in profondità con una selezione di responsabili di case editrici incaricate di selezionare e promuovere collane editoriali dedicate al genere Cli-Fi. Infine, è stato condotto uno studio di caso relativo alla circolazione sulle piattaforme digitali di questi stessi testi, concentrandosi sulle principali comunità di lettura che si sono recentemente sviluppate intorno a questo genere letterario su Tik Tok, attraverso l'hashtag #Booktok, contribuendo in modo significativo alla sua diffusione editoriale (Flood, 2021). Questi spazi rappresentano, infatti, luoghi sperimentali in cui l'immaginario sul futuro del clima presentato nei romanzi etichettati come Cli-Fi, viene coltivato, commentato e rinegoziato da vari pubblici e attraverso diverse pratiche digitali, creando le condizioni per lo sviluppo di forme di partecipazione e di costruzione di comunità virtuali che problematizzano ulteriormente la polarità tra attivismo e fatalismo. In conclusione, questa ricerca esplora l'emergere e la diffusione della Climate Fiction in Italia e i suoi effetti più rilevanti in termini di immaginari sociali futuri portando alla luce tre elementi: 1) la storia culturale più recente di questo particolare genere letterario che intreccia discorso scientifico e mondi della fiction, 2) gli immaginari che dall’interno delle culture giovanili sintetizzano narrazioni sul cambiamento climatico aprendo o chiudendo spazi di azione creativa e politica 3) descrivendo le forze del campo di distribuzione, circolazione, fruizione, interpretazione e discussione tra i giovani (sia sui legacy media sia sulle piattaforme tematiche digitali) di questo nuovo genere letterario. De-naturalizzare il cambiamento climatico: la negoziazione dei frame mediatici Università di Bologna, Italia La comunicazione del cambiamento climatico è stata definita «la sfida comunicativa del nostro secolo» (Priest 2016). Lo è per numerose ragioni: per la posta in gioco; per la complessità del tema; per la sua capacità di polarizzazione politica; per la difficoltà di porre una simile questione all’attenzione di un pubblico ampio nell’età della disintermediazione (Moser 2010). Soprattutto, perché il modo in cui gli individui e le società inquadrano e percepiscono il cambiamento climatico apre la strada a risposte e azioni differenti (Nisbet 2009; Dunlap e Brulle 2015; Singh e Swanson 2017). Fare in modo che un pubblico riconosca un problema come tale, ne comprenda le cause, individui delle responsabilità e identifichi eventuali soluzioni è, in ambito comunicativo, una questione di framing (Griswold 2005), ovvero della cornice interpretativa che permette alle persone di dare un senso a ciò che esperiscono (Goffman 1986). Entman (1993) e Scheufele (1999) distinguono due tipi di frame: i frame dei media e i frame del pubblico. Da quando il cambiamento climatico ha iniziato a penetrare nel discorso pubblico attraverso la copertura dei media di informazione e di intrattenimento, numerosi studiosi/e si sono occupati/e di analizzare i frame maggiormente utilizzati dai media, dai movimenti sociali o dai leader politici per inquadrare questo fenomeno (Nisbet et al. 2013; O’Neill et al. 2015; Chen et al. 2023; Guenther et al. 2023). Decisamente meno numerosi, soprattutto nel contesto italiano, sono gli studi che si sono interessati ad esplorare la negoziazione di quei frame da parte dei pubblici, ovvero ad indagare in che modo determinate audience interpretano attivamente e danno un senso alle narrazioni del cambiamento climatico in circolazione nello spazio pubblico. Per colmare questo gap e allo scopo di fornire indicazioni utili a sviluppare una comunicazione più coinvolgente per i giovani tra 18 e i 29 anni in Italia, si è intrapresa una ricerca-azione, di cui in questa sede si vorrebbero riportare i risultati preliminari. Prendendo ispirazione dalla metodologia dei narrative workshop (Shaw e Corner 2017) e dei climate visuals (Chapman et al. 2016), nel 2023 sono stati condotti 35 focus group con un campione di convenienza di studenti iscritti a un ateneo italiano, allo scopo di esplorare le loro percezioni del cambiamento climatico, la loro ricezione di immagini e testi relativi a questo fenomeno e di individuare quali, fra i differenti frame esaminati, sembrano essere maggiormente in grado di favorire il loro coinvolgimento. 22 focus group hanno riguardato la ricezione di immagini, con un media di 6 partecipanti ciascuno, 13 focus group hanno riguardato la ricezione di testi, con una media di 5 partecipanti ciascuno. Tutti i focus group hanno previsto un moderatore partecipante, un osservatore e una traccia strutturata per la discussione. I dati raccolti sono stati analizzati tematicamente ed interpretati alla luce della letteratura scientifica esistente. I risultati preliminari, circoscrivibili ai soli partecipanti, mostrano che inquadrare il cambiamento climatico attraverso la cornice della “crisi climatica” permette di de-naturalizzare il fenomeno e di individuarlo come problema sociale, di veicolare un senso di maggiore urgenza e di stimolare una reazione emotiva. Il frame meramente scientifico risulta poco in grado di stimolare un dibattito, mentre il frame delle responsabilità politiche e il frame sociale/umanitario, legandosi a valori come la responsabilità morale e permettendo di individuare più precisamente cause e responsabilità della crisi, vengono dai partecipanti reputati più adatti ad una comunicazione efficace. Se la reazione di fronte alle immagini è meno omogenea, si nota una preferenza per immagini che, ancora una volta, fanno emergere gli aspetti sociali del cambiamento climatico, siano essi le disuguaglianze sociali o i processi di diniego e inazione. |
15:30 - 17:00 | Sessione 2 - Panel 9: Anticipatory Governance. Governare, prevedere e anticipare in contesti sociali sempre più incerti, complessi e diversi Luogo, sala: Aula T02 Chair di sessione: Riccardo Prandini |
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Anticipatory Governance. Governare, prevedere e anticipare in contesti sociali sempre più incerti, complessi e diversi 1Università di Bologna, Italia; 2Università di Parma, Italia; 3Università di Padova Chairperson: Riccardo Prandini, Università di Bologna Le sfide odierne - come l’automazione, il cambiamento climatico, l’invecchiamento della popolazione, le pandemie e la diffusione dell’intelligenza artificiale, etc. - hanno conseguenze imprevedibili e incerte a livello globale. I sistemi complessi sono diventati la norma piuttosto che l’eccezione. Per esempio la crisi sindemica, dovuta alla diffusione del COVID19, ha mostrato ancora di più la necessità di investire nella prevenzione. In questo contesto, approcci standardizzati e solo “reattivi” alla definizione delle politiche si sono rivelati sempre più inefficaci. Prepararsi anticipatamente a rispondere a crisi sempre più probabili, sebbene non prevedibili, è diventata una necessità. L’esigenza di policy “anticipatorie” è legata ad almeno tre dimensioni strettamente interconnesse: 1) la diversità, intesa come il pluralismo degli attori coinvolti, dei loro punti di vista e delle salienze portate nel campo d’azione; 2) la complessità, riferita più specificamente alle interdipendenze tra le aree di policy e i sottosistemi coinvolti; 3) l’incertezza, definita come la mancanza di conoscenza di un sistema o la presenza di gap conoscitivi. Di fronte a queste problematiche, sia i policymaker che i sistemi esperti hanno la tendenza a semplificare e a considerare come loro orizzonte d’aspettativa un “futuro del presente” simile al presente attuale, creando così un falso senso d’adeguatezza, piuttosto che riconoscere l'imprevedibilità di un “presente nel futuro” non deducibile dall’hic et nunc. Questa tendenza è fortemente legittimata da un sistema scientifico dominato da approcci razionalistici, positivistici e quantitativi. La disponibilità di Big Data e del loro trattamento algoritmico, si lega strettamente ai cosiddetti approcci “evidence-based” creando un “senso comune” che valorizza la cosiddetta “previsionalità”. Il risultato è l’emersione di risposte istituzionali codificate incapaci di attivare dinamiche di lettura dei bisogni e di decision-making realmente innovative. A scompigliare questo punto focale contemporaneo, praticamente non messo in discussione se non mediante critiche “tecnocratiche” a lora volta molto ideologiche, è invece una crescente ricerca sull’anticipazione. Anticipazione che non significa previsione, in quanto consapevole che il “novum”, se davvero è tale, non è semplicemente deducibile dalla presentificazione del futuro. Gli attori territoriali - pubblici, privati e di terzo settore, coinvolti nella governance di servizi pubblici sembrano, dunque, aver bisogno di un nuovo approccio di definizione e governance delle politiche che consenta loro di affrontare in modo efficace problemi complessi e incertezze costanti con nuovi strumenti. Questo approccio si orienta al futuro, “potenzializzandolo” mediante l’apertura di immaginari possibili e realizzabili ma non ancora sperimentati. Nonostante la necessità di integrare sempre di più gli strumenti di previsione nella definizione delle politiche, ogni stakeholder (dal livello locale a quello nazionale) non sembra mostrare una sufficiente propensione all’incertezza del futuro e di conseguenza neanche possedere le competenze pratiche per agire nel presente, rimanendo aperti al futuro. Infatti, spesso si evita di mettere in discussione gli esiti raggiunti, non attivando processi di revisione condivisa o non riflettendo sui potenziali fallimenti. Il panel intende introdurre il concetto di “governance anticipatoria e trasformativa” (OECD 2023), presentando riflessioni teoriche e di ricerca capaci di stimolare applicazioni territoriali. Lo fa introducendo riflessioni ed esempi che evidenziano alcuni elementi di questa nuova governance, sia a livello di decision-making e design delle politiche sia a livello d’implementazione ed erogazione delle politiche/servizi. Tali elementi riguardano processi iterativi di riflessione condivisa su problemi e obiettivi; ampia discrezionalità e autonomia degli stakeholder coinvolti nella governance; processi di apprendimento fra pari; revisione e monitoraggio del lavoro avviato. Il panel rappresenta anche un esempio di come ragionare nei termini della “cultural sociology”, cioè d’osservare ed analizzare i processi e le strutture sociali mediante lenti culturali. . Foresight and Anticipatory. Ricomprendere le culture temporali della governance tra pre-visioni, big data e algoritmi Gianluca Maestri, Università di Parma L’Anticipatory Governance costituisce una delle quattro aree in cui la previsione può fornire un contributo importante al lavoro delle burocrazie pubbliche nell’ambito dell’attuazione degli UN’s Sustainable Development Goals. Come tale, essa si presenta nelle vesti di un approccio innovativo nel processo decisionale, focalizzato sulla previsione e sulla gestione proattiva dei “futuri possibili”. Come indicato dall’Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD), tale metodologia ambisce a integrare la strategic foresight nelle strutture di governance al fine di rispondere con efficacia alle sfide emergenti. A partire da questa prospettiva, il contributo intende considerare criticamente l’azione anticipatoria – prevedere, prefigurare o predire eventi futuri – che ha acquisito un valore sempre maggiore come modalità per affrontare problemi complessi di vasta portata, tra cui emergono, nella loro interconnessione, Climate Change, Environmental Sustainability, Social Inequalities, Human Rights e Global Health. Generalmente, l’anticipazione comporta l’immaginazione di un evento o di uno stato futuro nel presente e può rappresentare sia un’attività organizzativa, sia un’aspirazione fondamentale del sistema politico. Stati, imprese e organizzazioni della società civile ritengono che la “conoscenza” del futuro sia indispensabile per una serie di finalità, tra cui la mobilitazione del sostegno alle proposte politiche, l’empowerment del processo strategico e decisionale – in termini di “facticity” e prevedibilità – e l’acquisizione di credibilità, competenza e capacitazione in un orizzonte di contingenze. Tuttavia, se l’aumento e l’istituzionalizzazione della strategic foresight nelle amministrazioni pubbliche dipendono da una serie di equilibri, occorrerà comprendere come mantenere un’indipendenza sufficiente a produrre risultati che sfidino il pensiero dei decision-maker. Infatti, la riuscita dell’istituzionalizzazione di successo dovrebbe basarsi sul fatto che i policy-makers e i professionisti della previsione trovino il giusto equilibrio per il loro contesto e per molti altri nodi critici. Sebbene gli ecosistemi specifici di previsione (specific foresight ecosystems) siano plasmati dal contesto storico, culturale e socio-politico dei loro Paesi e delle loro istituzioni, è possibile riflettere su elementi comuni, nei casi di istituzionalizzazione di successo della strategic foresight, che possono servire da guida per i governi che cercano di raggiungere policy capacitanti. In questo quadro, il contributo si soffermerà su alcune best practices di anticipatory governance che stanno attualmente emergendo. Inoltre, in contesti sociali rapidamente mutevoli, specialmente nell’affrontare le “future challenges” in termini di governance, l’approccio evidence-based policy (EBP) sembra evidenziare diverse limitazioni connesse all’incertezza e alla complessità, alla rapidità dei mutamenti, ai valori e alle preferenze, all’accesso e alla qualità delle evidenze e alla polarità “Long-term policies” vs. “political cycles”. Per cercare di comprendere tali limitazioni, il contributo intende esplorare cosa offre in termini innovativi la distinzione tra strategic foresight e anticipatory governance, valutandone potenzialità e limiti rispetto ai modelli di governance attuali. Attraverso l’analisi di pratiche consolidate in contesti governativi e organizzativi plurali, si discuterà di come l’approccio “foresight” possa favorire o meno una visione più complessa e multidimensionale dei possibili futuri, promuovendo politiche più flessibili. L’anticipatory governance, utilizzando questa prospettiva per informare e guidare il processo decisionale, potrebbe rivelarsi essenziale per lo sviluppo di strategie di governance adattabili e floride nell’incertezza. Contestualizzando i limiti delle evidence-based policy, il contributo si concluderà con alcune riflessioni sulla necessità di ripensare la cultura della governance nell’ambito del policy-making. Per fare ciò, l’analisi intende avvalersi degli strumenti concettuali forniti da Niklas Luhmann e da Reinhart Koselleck, sia per una piena comprensione della distinzione tra foresight e anticipatory . Tecniche per pro-gettare la governance anticipatoria di ecosistemi di innovazione sociale. Spunti per professionisti territoriali e ricercatori sociali Giulia Ganugi, Università di Bologna A fronte di maggiore diversità, complessità e incertezza nella società contemporanea, la generazione di giustizia sociale, intesa come inclusione delle diversità ed effettiva partecipazione (Verschuere et al. 2018), necessita di processi di co-creazione dei servizi, capaci di coinvolgere sia i beneficiari nella fase di co-produzione sia le organizzazioni pubbliche, di terzo settore e private nelle fasi di co-design e co-management. A livello operativo, anche il Codice del Terzo Settore del 2017 (art. 55) si è espresso in tal senso, sostenendo un maggiore utilizzo di strumenti di collaborazione e fornendo, in particolare, chiare indicazioni per l’implementazione di co-programmazioni e co-progettazioni. In questo contesto, ciò che si prospetta agli attori che si occupano di servizi sociali, culturali e sanitari è duplice. Da un lato, la necessità di governare e/o collaborare all’interno di ecosistemi territoriali, ovvero ambienti organizzativi, istituzionali e culturali (Christoph et al. 2017) in cui l’innovazione sociale è co-creata da una pletora di attori e condizioni (Pel et al. 2020). Dall’altro lato, la necessità di implementare la capacità – da parte di ogni organizzazione partecipante all’ecosistema – di auto-governarsi per raggiungere i propri obiettivi, ma anche gli obiettivi dell’intero ecosistema. Più nel dettaglio, la partecipazione all’ecosistema e alla sua organizzazione, richiede lo sviluppo di una governance sperimentalista, composta da: a) condivisione di problemi, bisogni e conseguenti obiettivi comuni; b) autonomia e discrezionalità di ogni attore nelle modalità di realizzazione degli obiettivi; c) apprendimento in ottica paritaria e non gerarchica; d) continua revisione del processo (Sabel 2013). . Governance sperimentalista e Alternative Food Network: riflessioni critiche su framework teorico e applicazione a due casi studio sul territorio bolognese Sara Chinaglia, Università di Bologna La crescente incertezza, complessità e volatilità delle attuali sfide globali ha fatto emergere i limiti della governance top down stimolando la nascita di forme di governance definite post-hierarchical. Tra di queste emerge una forma di governance denominata “sperimentalista” (Sabel & Zeitlin, 2012). . “Ricettività futura” e discrezionalità. Il caso dell’Ambito padovano nel contrasto alla povertà Martina Visentin, Università di Padova Il sistema di governance della Regione del Veneto è stato coinvolto, negli ultimi anni, in un processo di rinnovamento che ha interessato le modalità di intervento degli attori nella gestione ed erogazione dei servizi sociali. Il profilo delle politiche sociali territoriali si è ridefinito attraverso l’affidamento agli Ambiti Territoriali (ATS) in cui i Comuni hanno il compito di gestire i servizi sociali in rete. Gli ATS appaiono come lo strumento primario di ricognizione dei bisogni dei cittadini con l’obiettivo di ottimizzare le risorse provenienti dalle reti istituzionali e non istituzionali, formali e informali e di favorire un maggior benessere per tutti i cittadini (Gui 2020). |
17:00 - 17:15 | Coffee break |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 1: Sociologia e studi sul giornalismo: quali radici, quale futuro? Luogo, sala: Aula Aldo Moro Chair di sessione: Carlo Sorrentino |
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Sociologia e studi sul giornalismo: quali radici, quale futuro? 1Università degli Studi di Milano, Italia; 2Università degli Studi di Siena; 3Università per Stranieri di Perugia; 4Università degli Studi di Firenze; 5Università per Stranieri di Perugia Chair: Carlo Sorrentino, Università degli Studi di Firenze . Gli studi sul giornalismo sono un campo interdisciplinare istituzionalizzatosi all’inizio del nuovo millennio e ben radicato nel complesso degli studi sulla comunicazione. Questa istituzionalizzazione è avvenuta proprio nel momento di maggior cambiamento e crisi della storia del giornalismo. Gli studi sul giornalismo sono dunque un campo plurale in cui coesistono differenti approcci teorici e metodologici, che si sforza da una parte di tratteggiare le regolarità del giornalismo, dall’altra di catturarne il movimento (Ahva, Steensen, 2020). Nonostante questa multidisciplinarietà la sociologia per lungo tempo è stato il centro che ha mosso la ricerca sul giornalismo. Se a partire dalla seconda metà del Novecento la separazione tra sociologia da una parte e giornalismo dall’altra appare semplice e intuitiva, per lungo tempo questa divisione non è stata affatto immediata. Chris Anderson (2015) ricorda, a questo proposito, la traiettoria di Robert Park, prima giornalista locale e poi rinomato sociologo. La distinzione tra le due parti avviene a partire dagli anni Settanta, quando la sociologia considera con più fermezza, rigore e distacco il giornalismo come oggetto di indagine empirica. Questa maturazione avviene non solo quando la sociologia è ormai considerata legittimamente una scienza sociale, ma anche quando sono cominciati ad istituzionalizzarsi i primi programmi accademici che si occupano di comunicazione: è questo il momento fondativo di quella che ancora oggi identifichiamo come sociologia delle notizie. Parlando di sociologia delle notizie, il riferimento non è tanto al lavoro seminale di White “The Gatekeeper: A Case Study in the Selection of News” (1950), precedente e che affonda nella tradizione di psicologia sociale, bensì dai lavori portati avanti da sociologi che svolsero ricerche in diverse redazioni americane e inglesi per realizzare etnografie della produzione di informazione (Cottle, 2007). La sociologia qui analizza le interazioni quotidiane dentro le redazioni, esaminando quali fattori interni (come ad esempio il controllo esercitato dalla proprietà) o esterni (pressioni politiche o economiche) incidano sul lavoro dei giornalisti. Sarah Stonbely (2015) passa in rassegna gli approcci sociologici più impiegati in questo periodo, elencando la teoria organizzativa, la critica ai processi di professionalizzazione e il costruttivismo sociale derivato dall’influente libro di Peter Berger e Thomas Luckmann (1966). Se questo periodo è identificato proprio come svolta sociologica (Wahl-Jorgensen, Hanitzsch, 2009), questo slancio non si ferma agli approcci costruttivisti, ma prosegue nell’incorporazione dell’eredità di Pierre Bourdieu e di Bruno Latour. Discutere di giornalismo in termini sociologici significa identificare, tratteggiare e comprendere l’impatto della società sulle attività giornalistiche e le relazioni sociali ad esse inerenti, sul loro funzionamento. Ovviamente, anche viceversa, ovvero come il giornalismo influisca sulle rappresentazioni condivise di ciò che accade, sul senso reale. Questo panel si interroga su quali ruolo ricopra oggi la sociologia negli studi sul giornalismo. Si domanda dunque se e come la sociologia è ancora la disciplina prevalente nell’ambito di questi studi. Ma ancora, qual è la sua eredità? Come è possibile tratteggiarla? Se ne discute in quattro differenti presentazioni sia teoriche sia basate su dati empirici che tentano di riflettere, rispondere e riattualizzare le questioni che legano la sociologia al giornalismo. . Il paradigma dei newsroom studies oltre le redazioni Sergio Splendore (Università degli Studi di Milano)
Il momento di distacco tra fare giornalismo e studiare il giornalismo sociologicamente è avvenuto quando sociologi e sociologhe hanno intrapreso percorsi di ricerca dentro le redazioni, dando corpo ai cosiddetti Newsroom Studies tra il 1960 e il 1980. Questo periodo è appunto indicato come svolta sociologica nell’evoluzione degli studi sul giornalismo. Dopo decenni in cui la sociologia si era occupata di media prevalentemente per comprenderne gli effetti sulle persone, considerando le notizie come meri messaggi, questo filone di ricerca porta l’attenzione sulla produzione. Come fa notare David Weaver (2015), la mancanza di ricerca e riflessione su chi produce informazione e contenuti dei media, l’attenzione spasmodica sugli effetti dei media sulle persone che li utilizzano, aveva avuto come conseguenza la sottovalutazione del processo inverso: quali effetti la società avesse sui media e su chi li produce, argomento che in queste ricerche diviene centrale. Il paradigma dei Newsroom Studies (appunto studi sul funzionamento delle redazioni), talvolta definiti anche come sociology of news (sociologia delle notizie, proprio perché analizza come siano prodotte e distribuite le informazioni giornalisticamente rilevanti), è però capace di gettare le fondamenta degli studi sul giornalismo (Kunelius, Waisbord, 2023). Quello che accade con la sociologia delle notizie è una accurata e minuziosa analisi sociologica del lavoro del giornalismo, dove vengono presi in considerazione non solo i meccanismi di controllo sociale attribuibili agli editori o a chi ricopre posizioni influenti nella redazione, ma anche al più ampio contesto di socializzazione alla professionalizzazione e al modo di esercitarla. Con i Newsroom Studies si sposta il focus dalle scelte individuali di editori o giornalisti, ai processi complessi che intervengono nella produzione dell’informazione e che vedono coinvolti diversi attori. Il costruttivismo come principale approccio sociologico a questo tipo di studi mette in discussione l’idea che le osservazioni compiute sulla complessità del reale abbiano una qualsivoglia corrispondenza con la verità (o con la falsità); questo approccio sostiene dunque che la realtà esterna non possa essere rappresentata, se non in maniera approssimativa e arbitraria. Il costruttivismo reputa importante la posizione dell’osservatore e insiste sul fatto che ogni descrizione abbia a che fare con condizioni situate e contingenti. Enfatizza perciò che l’emergere e la condivisione di visioni del mondo dipendono dai processi sociali. I Newsroom Studies sottolineano invece come gli eventi, le idee, le prospettive raccontate, non siano altro che l’effetto di una rifrazione, un riflesso inevitabilmente distorto della complessità del reale. Questa rifrazione del reale avviene attraverso le strutture organizzative e culturali all’interno delle quali il giornalismo si muove. I newsroom studies sono stati inoltre capaci di indentificare in maniera innovativa anche il processo di professionalizzazione. Questo processo era, ai tempi, definito soprattutto da quei tratti professionali reputati determinanti per emancipare il giornalismo dalle diverse influenze: ovvero più il giornalismo riesce a essere professionale, includendo nelle sue pratiche e nei suoi prodotti obiettività e imparzialità, più riesce a essere autonomo. Al contrario qui si sostiene che quei valori rappresentano un modo per rafforzare le posizioni dominanti e per cementare lo status quo. La professionalizzazione come progetto non aveva per scopo la crescita dell’indipendenza dei giornalisti bensì la loro cooptazione. La conseguenza delle routine adottate dal giornalismo e della sua organizzazione interna è la legittimazione e il consolidamento di una cerchia ristretta di credenze e prospettive che generalmente servono gli interessi di una élite. Gli elementi chiave che costituiscono la costruzione della conoscenza da parte dei giornalisti, con i loro legami agli editori, a una competenza istituzionalizzata, alle burocrazie e al sistema politico, rafforza infine l’ideologia dominante dell’epoca. Se i newsroom studies sono stati considerati come un paradigma, i contestuali ampliamento e frammentazione del campo rendono questo approccio meno centrale. Nella contemporanea arena digitale come si inserisce questo approccio teorico e i suoi metodi? Come si può adattare ancora quello sguardo e le sue metodologie in un contesto in cui la redazione non esiste più nel modo in cui era concepita? . Sociologia del giornalista e percezione dell’incivilità politica Rossella Rega, Università degli Studi di Siena
Una delle fondamentali chiavi sociologiche dello studio del giornalismo è intesa a comprendere come le percezioni e le pratiche degli stessi giornalisti influenzino il loro lavoro e le rappresentazioni che offrono della realtà (politica, economica, sociale etc.). L’obiettivo di questo studio è quello di esaminare l’interpretazione giornalistica dell’inciviltà politica nei media informativi. Attraverso interviste a giornalisti politici di testate informative differenti (tv, digital only, legacy media, etc.), si vuole esaminare la loro percezione dell’inciviltà politica e la consapevolezza circa le conseguenze che essa può avere sulla vita democratica. Basandosi, infatti, sulla drammatizzazione, l’allarmismo, lo scontro polemico, l’esagerazione e distorsione informativa, il discorso oltraggioso/incivile (Berry, Sobieraj, 2014) attira l’attenzione dei pubblici ma difficilmente accresce il loro livello di comprensione della politica. Di conseguenza, è importante indagare quali valori i giornalisti considerino come essenziali per la loro attività professionale e se questi valori entrino in conflitto con la scelta di promuovere contenuti politici incivili. In questo quadro è altrettanto decisivo identificare la relazione tra i giornalisti che producono e distribuiscono contenuti incivili e il più ampio contesto di inciviltà in cui sono accolti (sia sociale sia politico). Esiste un rapporto di reciprocità? Come si comportano i giornalisti quando si trovano di fronte a comportamenti politici che possono essere considerati come incivili? In che modo la società influenza il discorso incivile e/o viceversa, il discorso incivile giornalistico influenza la società? In questo paper si esaminano quattro dimensioni del discorso giornalistico incivile: (a) Cos’è per i giornalisti l’inciviltà politica e quali sono le motivazioni riguardanti il suo aumento, ponendo particolare attenzione al ruolo svolto nel merito dai diversi attori della scena pubblica (politici, giornalisti, cittadini, etc.). (b) Qual è il livello di consapevolezza, conoscenza e riflessività da parte delle giornaliste e dei giornalisti circa le conseguenze dell’aumento dell’inciviltà politica. (c) Qual è il ruolo del contesto - trasformazioni del sistema mediale e dei modelli di business – nel contribuire a una crescita di questo fenomeno. (d) Qual è il ruolo della partigianeria delle testate e della ricerca di fidelizzazione di nicchie di pubblico: le caratteristiche attuali del sistema mediale e politico contribuiscono, infatti, ad accentuare la competizione tra le testate per la fidelizzazione di pubblici schierati, mediante la diffusione di un’informazione politica biased e coerente con le aspettative dei propri pubblici. Questo paper presenta i primi risultati di una ricerca effettuata attraverso interviste semi-strutturate a 15 giornalisti. Le interviste evidenziano una comprensione frammentata e diversificata del concetto di discorso incivile. In generale, i giornalisti intervistati mostrano una bassa riflessività sia rispetto alla comprensione del discorso incivile sia rispetto alle sue potenziali ricadute – allontanamento dei cittadini dalla politica, indebolimento della credibilità della testata, etc. (Egelhofer et al.2022; Goovaerts_2022). Contemporaneamente, si nota anche una debole riflessione circa il ruolo che essi svolgono nel contribuire a una diffusione dell’inciviltà Legato al punto precedente, emerge, infatti, come nella rappresentazione offerta della politica, spesso siano gli stessi giornalisti a enfatizzare gli attacchi tra i rappresentanti politici e gli episodi di inciviltà, perché considerati come contenuti remunerativi in termini di crescita di audience e visibilità. La piattaformizzazione è a sua volta indicata – più o meno implicitamente – come una delle motivazioni alla base dell’aumento dell’inciviltà nel discorso pubblico. Nell’insieme, si conferma come le varie strategie utilizzate dai giornalisti (sovra-rappresentazione dei contenuti incivili, accentuazione dello scontro e della polemica nella rappresentazione della politica, ricorso a forme di derisione, discriminazione e distorsione informativa per fidelizzare pubblici schierati, etc.) rispondano anche alle esigenze di “sopravvivenza” del giornalismo contemporaneo in un mercato sempre più competitivo e orientato al profitto. Questa deriva, di lungo corso ma oggi più accentuata che in passato, pone, però, una sfida alla questione dell’autorevolezza del giornalista che al momento non sembra essere stata colta pienamente dai giornalisti intervistati. . Prospettive relazionali nella sociologia del giornalismo: un dialogo tra Pierre Bourdieu e Bruno Latour Matteo Gerli, Università per Stranieri di Perugia
L’evoluzione del panorama giornalistico, soprattutto nel contesto della comunicazione digitale, ha suscitato un crescente interesse accademico, sollecitando numerosi studiosi a riconsiderare criticamente teorie e concetti “convenzionali”, nati in epoca analogica. L’avvento delle tecnologie digitali ha profondamente trasformato il modo in cui le notizie vengono raccolte, prodotte, distribuite e consumate, ponendo il giornalismo contemporaneo di fronte a nuove sfide e opportunità. Nell’ambito di questa trasformazione, la ricerca sociale è chiamata a confrontarsi con un quadro in costante evoluzione, dove le incongruenze e la fluidità sembrano emergere come dimensioni costitutive della realtà giornalistica. In effetti, i mezzi di informazione si trovano immersi in un contesto carico di incertezze sul futuro, cercando di adattare le proprie logiche e strategie alle mutate condizioni, anche a rischio di subire un’erosione dei “pilastri” istituzionali e professionali su cui avevano fondato il loro potere. Peraltro, tutto ciò si accompagna a una destabilizzazione delle differenze fisiche (materiali), di ruolo, stilistiche e di genere che, storicamente, hanno delineato i confini e le caratteristiche distintive delle varie forme di comunicazione e di espressione giornalistica (Wahl-Jorgensen 2015). La necessità di comprendere e analizzare queste dinamiche ha portato allo sviluppo di nuovi approcci teorici e metodologici, incentrati sul concetto di “ibrida” (hybridity) come risposta alla natura dinamica, multiforme, contingente e perciò disomogenea delle pratiche e dei prodotti giornalistici (Witschge, Anderson & Domingo 2019; Splendore & Brambilla 2021; ). Con tutto ciò, la “svolta ibrida” (hybrid turn), se da una parte è stata accompagnata da una rinnovata consapevolezza circa la complessità e la pluralità del giornalismo, dall’altra è stata oggetto di critiche da parte di studiosi che ne hanno evidenziato la vaghezza, indicando la necessità di definire con maggior precisione i diversi significati che essa può assumere in relazione a specifici oggetti di ricerca (Witschge, Anderson & Domingo 2019; Hallin, Mellado & Mancini 2023). Ci si è inoltre interrogati sulla effettiva novità e originalità di un concetto – quello di ibridità – che, a uno sguardo meno compenetrato con l’innovazione digitale, si manifesta come una caratteristica intrinseca ai processi di cambiamento socio-culturale, più che come un tratto emergente, specifico dell’attuale “era digitale”. Sotto questo profilo, la svolta ibrida sembra delinearsi più come l’esito di un processo in progress di de-istituzionalizzazione, che non come una netta “rottura” rispetto a una precedente stagione giornalistica contraddistinta da “forme pure” (Hallin, Mellado & Mancini 2023). In questo scenario, l’evoluzione storica del giornalismo, precedentemente vista come un processo relativamente lento e lineare, sta ora cedendo il passo a una fase di maggior decentramento e diversificazione delle varie istanze giornalistiche presenti nello spazio pubblico, accompagnandosi a un’accelerazione dei processi di interdipendenza nella produzione e circolazione di materiale informativo. Con l’intento di mettere a fuoco queste dinamiche, il paper propone una riflessione di natura teorico-metodologica incentrata su un approccio di matrice relazionale che trova il suo fondamento nei progetti scientifici di Pierre Bourdieu e Bruno Latour (Dépelteau 2018; Papilloud 2018). Nello specifico, l’obiettivo è di analizzare in che modo i due autori francesi consentano di approcciarsi allo studio del giornalismo contemporaneo, sollecitando una riflessione sul problematico e mai definitivo rapporto che intercorre tra stabilizzazione e movimento, struttura e processo, dimensione macro- e micro-sociale, con particolare attenzione (anche) al ruolo degli attori “non umani” nel processo di produzione e circolazione di notizie. Bourdieu e Latour, sebbene con intenti molto diversi, hanno apportato contributi significativi al rinnovamento delle basi epistemologiche e metodologiche della sociologia in prospettiva relazionale, diventando motivo di grande interesse anche tra coloro che si occupano di media e giornalismo (Chartier & Champagne 2004; Benson & Neveau 2005; Duval 2016; Benson 2017; Lewis & Westlund 2015; Couldry 2018; Maares & Hanusch 2022). Muovendo da una ricognizione critica della letteratura di matrice (o di ispirazione) bourdieusiana e latouriana, ci si domanda pertanto: (1) se ed entro quali limiti le singole prospettive consentano una comprensione adeguata del giornalismo nell’ecosistema mediatico contemporaneo; (2) con quali strumenti analitici e metodologici il ricercatore è sollecitato a esplorare il carattere proteiforme delle pratiche e dei prodotti giornalistici; (3) con quale efficacia euristica le dimensioni del potere e dell’agency vengono incluse nell’analisi del giornalismo nel rapporto con le articolazioni del sociale; infine, (4) se e fino a che punto è possibile immaginare un’integrazione tra i motivi latouriani e quelli bourdieusiani, ovvero se non sia preferibile perseguire la via “pragmatica” di una loro combinazione. . Local Flooding News. Giornalismi e giornalisti nell’emergenza Giacomo Buoncompagni, Università di Firenze Da tempo il campo giornalistico sta assumendo molteplici sfaccettature grazie alla digitalizzazione dei suoi contenuti e alla loro diffusione all’interno delle piattaforme digitali, che hanno profondamente cambiato il modo di fare informazione e stanno modificando la stessa professione giornalistica, le routine produttive, le modalità di trattamento e di tematizzazione delle notizie, nonché il rapporto con le fonti e i propri pubblici (Schudson, 2013; Sorrentino e Splendore 2022). Processi che hanno investito tanto i media nazionali quanto quelli di comunità. Infatti, anche il giornalismo locale muta in risposta alle numerose sfide poste dai cambiamenti ecologici che hanno avuto luogo nel settore dei media e dalla più recenti emergenze sanitarie ed ambientali (Nielsen, 2015; Picard, 2014; Radcliffe eWallace 2021). E’ nella produzione di informazione d’emergenza che si sono concentrati i principali sforzi dei media locali, settore editoriale ancora più in crisi dopo l’evento pandemico. Nonostante le newsroom locali, così come tutte le agenzie d’informazione, operino ormai con margini ridotti, costrette a confrontarsi con il cambiamento delle abitudini di consumo delle notizie, è in queste situazioni che si rivela la centralità del giornalismo a base territoriale. Partendo da questo scenario lo studio qui presentato analizza il comportamento dei media locali e nazionali durante l’alluvione che ha colpito la Romagna nel mese maggio del 2023. Tre le principali domande di ricerca: Come cambia l‘agenda mediale nell’emergenza? Come il lavoro redazionale si riorganizza nelle newsroom locali e nazionali? Come i giornali romagnoli si sono rapportati con la comunità e le istituzioni locali? Per rispondere a tali quesiti è stata utilizzata una metodologia qualitativa: l’intervista semi-strutturata. Nello specifico, sono state condotte venticinque interviste tra luglio e novembre 2023, includendo nel campione giornalisti (professionisti e non), con ruoli differenti sia all’interno di redazioni locali sia all’interno di redazioni nazionali. Si è cercato di comprendere come i giornalisti hanno operato all’interno della comunità colpita e organizzato il loro lavoro di messa in forma dell’informazione; come e se sono cambiate le routine e quali sono stati i canali più utilizzati. Nello specifico sono state raccolte le voci di alcuni operatori dell’informazione a livello locale e nazionale che hanno seguito l’emergenza, con l’obiettivo di comparare il diverso modus informandi e “testare” la maggiore aderenza delle testate locali rispetto a quanto accertato dalle autorità locali e riportato nelle testate nazionali. Il corpus testuale risultante dalle interviste è stato trattato seguendo un procedimento di tipo induttivo volto ad individuare, sulla base della traccia di intervista, le categorie tematiche più rilevanti e significative per descrivere le percezioni, le opinioni e i comportamenti dei giornalisti durante l’emergenza alluvione. Abituati a un modo di informare sempre più disorganizzato e spettacolarizzato, i risultati dello studio mostrano come nei contesti d’emergenza i giornalisti locali si percepiscano come la migliore espressione del ruolo di cerniera fra sfera pubblica e vita quotidiana. L’informazione locale appare un luogo di “senso” e di relazione aperto più all’ascolto della propria comunità che all’entertainment. Al contrario, i giornalisti delle testate nazionali ritengono che lo stretto legame con il territorio rappresenti un limite nella narrazione dei disastri, che può essere superato grazie al racconto più distaccato, anche avvalendosi di fonti differenti. Entrambe le categorie di giornalisti intervistati, inoltre, considerano la testimonianza diretta dei cittadini e i contenuti audio-visuali da loro prodotti e inviati alle redazioni elementi di secondaria importanza, che spesso accentua il disordine comunicativo piuttosto che favorire la partecipazione. . Giornalismo e costruzione dell’agenda: per una critica agli approcci normativi Rolando Marini, Università per Stranieri di Perugia
Negli studi sociologici sul lavoro giornalistico e sul ruolo del giornalismo nella costruzione delle agende pubbliche si sono generate letture notevolmente orientate da varie forme di normativismo epistemologico. Sebbene di segno diverso, anzi spesso opposte, tali letture sembrano convergenti nella costruzione di architetture concettuali di tipo critico, basate su un modello ideale di funzione sociale del giornalismo e dell’informazione, ma poco inclini a misurarsi con la multidimensionalità dell’oggetto di studio e soprattutto con gli aspetti relazionali e pragmatici del lavoro giornalistico e delle strategie redazionali. Sullo sfondo vi sono le visioni del rapporto tra i poteri rilevanti nello spazio pubblico, e gli schemi del sistema delle presunte dipendenze oppure delle interdipendenze tra di essi. Si tratta appunto di una matrice relativa alle concezioni del potere nella società, e di come questo si traducea in influenza. Ciò disloca la preferenza per letture fissamente strutturaliste o, all’opposto, flessibilmente aperte all’interazione e all’agency. Un primo esempio è quello della critica – diretta e indiretta – alla cosiddetta politicizzazione del giornalismo (o parallelismo, o partigianeria) sia nell’ambiente statunitense che in quello europeo e italiano. Tale lettura, oltre a una ricostruzione discutibile della storia del giornalismo – specialmente se si pensa al contesto europeo – si basa su un assunto implicito di virtuosità di un modello industriale-commerciale ritenuto essenziale per l’indipendenza dei mezzi e degli operatori dell’informazione. In tal senso, il rapporto tra ideologie o subculture politiche e lettura giornalistica della realtà, compresa la selezione e promozione dei temi, viene considerato come fattore degenerativo di inadeguatezza, piuttosto che come risorsa. L’esempio opposto è dato dalla critica alla commercializzazione delle strategie editoriali e dei prodotti informativi, peraltro spesso coniugata con l’idea della politicizzazione. Si tratta di un lungo percorso, che punta l’attenzione sulle distorsioni della realtà, involontarie o intenzionalmente strumentali e ciniche: un percorso che va dalla denuncia di perdita inesorabile della funzione di formazione dei cittadini, fino a quella di costruire disgregazione sociale e declino della fiducia nelle istituzioni. Letture radicali e liberali sono accomunate dall’orientamento a una forma di razionalismo cognitivo che implica (e sottesamente pretende) un giornalismo asettico sul piano emozionale, e trascura la radice narrativa dei formati giornalistici, ancje negandone la specificità costitutiva come prodotti di un sottosistema che si istituzionalizza e differenzia in questo modo nell’universo della comunicazione e nel campo culturale. Il paper propone, dopo la critica alle letture normative, una rilettura basata su alcuni aspetti salienti di una possibile epistemologia pragmatica per la comprensione sociologica del giornalismo: - il sistema delle relazioni in cui il giornalismo è inserito nei vari contesti storico-sociali di appartenenza; - l’importanza delle opzioni politico-culturali come risorsa relazionale e cognitiva; - l’importanza delle alleanze con attori della società civile come co-produttori della rappresentazione della realtà; - la combinazione di strategie plurime nella selezione e costruzione dei prodotti informativi (anche come riflesso di quelle nel rapporto con gli attori politici e con il pubblico). - Le strategie di reazione e adattamento alle contingenze, soprattutto se determinate da situazioni di crisi. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 2: Lavoro e piattaforme digitali Luogo, sala: Aula Calasso Chair di sessione: Giovanni Boccia Artieri |
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Costanza e creatività per accettare l’inevitabile. I content creator e l’insicurezza algoritmica Università degli studi di Napoli Federico II, Italia La precarietà di cui il post-fordismo è intriso ha assuefatto i giovani adulti a un sistema di insicurezza, abituandoli a non aspettarsi stabilità dal punto di vista economico, lavorativo e sociale. Tale condizione di pervasiva provvisorietà permea vari aspetti della vita dei giovani adulti, che si trovano ad affrontare circostanze progressivamente difficili in diversi ambiti. Questi individui, socializzati all'interno di un contesto neoliberale, hanno imparato a navigare le molte sfide attraverso vari meccanismi di coping. Negano, infatti, la precarietà e accettano con rassegnazione l’ordine corrente, vivono con difficoltà il confronto sociale, cedono a lavori non retribuiti o pagati male e soffrono di disturbi psicologici. In questo panorama di incertezza, le piattaforme digitali sono emerse come un nuovo strumento di connessione e comunicazione, e sono divenute da una parte un modo per sopperire all’insicurezza lavorativa, dall’altra ambiente fertile per una serie di attività economiche a basso capitale e alta manodopera che Arvidsson definisce “industriose” (2019). Tra le varie piattaforme utili per galleggiare la precarietà, occorre segnalare la funzione di personal branding dei social network, che offrono diverse opportunità per espandere la propria rete di relazioni e connessioni, favorendo l'accumulo di capitale sociale. I più grandi accumulatori di capitale sociale (reputazionale, per essere precisi) sui social sono, per definizione, gli influencer. Questo lavoro parte dell’assunto che sarebbe piuttosto semplicistico limitare lo studio delle dinamiche dei social media al caso degli influencer e che, pur volendo considerare gli utenti che si fanno notare di più, questi non vogliono necessariamente diventare Chiara Ferragni o Kim Kardashian. Esiste, infatti, un nutrito sottobosco di utenti che non accumulano capitale reputazionale per ottenere entrate dirette dalle piattaforme: i micro-influencer. L’obiettivo che questa ricerca si pone è quello di indagare la percezione che i micro-influencer hanno in merito al rapporto tra la loro produzione di contenuti e l’azione della piattaforma su cui postano. Ci si concentrerà su attori del campo del second-hand e del vintage (settore già particolarmente industrioso nella sua componente analogica) che postano su due delle più importanti piattaforme di social network dell’Occidente – Instagram e TikTok. La domanda di ricerca si basa sull'assunto che le piattaforme esercitano un'influenza assertiva unidirezionale, non soggetta a negoziazione, fornendo uno spazio che, tuttavia, è rigidamente vincolato alle loro condizioni predeterminate e vuole, quindi, indagare le conseguenze che questa unidirezionalità ha sui micro-influencer. Lo studio utilizza una metodologia qualitativa basata su interviste a micro-influencer del second-hand e vintage su Instagram e/o TikTok. I partecipanti sono stati selezionati tramite snowballing. Le interviste semi-strutturate esplorano le loro esperienze, opinioni e percezioni. L'ipotesi, già supportata dai risultati preliminari, suggerisce che questi giovani adulti abituati all’insicurezza cronica tendano ad accettare in modo passivo le regole totalitarie imposte dalle piattaforme. Essi riconoscono l'imprevedibilità algoritmica come un aspetto intrinseco della propria realtà sociale e professionale, reagendo in conformità con le norme sociali predominanti, dunque intensificando i loro sforzi lavorativi. Il loro meccanismo di adattamento consiste nell'allinearsi con i presunti meccanismi della piattaforma (ad esempio pubblicando almeno tre video al giorno su TikTok). Questa condizione di difficile gestione spinge numerosi content creator a raccontare di stati di ansia o burnout legati alla cura dei loro profili social. L'ordine algoritmico dall'alto verso il basso, iniquo e spesso per loro razionalmente inspiegabile, è parte di uno sfruttamento sistemico del lavoro, riconosciuto e passivamente accettato dai content creator che, anzi, sentono di venire meno quando non riescono a compensarvi abbastanza con i loro sforzi. “Alla fine”, confessano, “per avere successo sui social l’unica cosa che devi avere è la personalità e la costanza”. Verso un professionalismo di piattaforma? Note a partire da una ricerca sulla piattaformizzazione dei servizi di cura Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia Buona parte di ciò che sappiamo sul lavoro di piattaforma proviene da un consolidato filone di ricerca nell’ambito della cosiddetta gig economy, che si è concentrato su settori di mercato nuovi – come quello del food-delivery (Bonifacio, 2023) – o scarsamente regolati – come quello dei freelance. I pochi studi che hanno preso in esame la piattaformizzazione delle professioni e del lavoro esperto tendono ad inquadrarla entro la retorica della disruptive innovation, intendendola cioè come un fenomeno capace di alterare le tradizionali logiche di funzionamento dei campi professionali, innescando processi di “de-professionalizzazione” (Haug, 1975). L’apertura caratteristica delle piattaforme digitali, infatti, tende ad erodere il valore di titoli e credenziali , mettendo in discussione il monopolio del “sapere esoterico” su cui si fonda l’autorità dei gruppi professionali (cfr. Maestripieri & Bellini, 2023). Ad esempio, la verifica dei titoli necessari per svolgere un dato servizio professionale avviene successivamente all’ingresso dei professionisti in piattaforma. Non viene svolta dalle figure normalmente accreditate alla valutazione, ma è demandata agli utenti attraverso i sistemi di rating e ranking alla base del cosiddetto management algoritmico (Stark & Pais, 2020). Inoltre, la centralità dei sistemi reputazionali assegna ai clienti un ruolo quasi-manageriale (Healy & Pekarek, 2023), producendo un parziale slittamento dal credenzialismo alla reputazione quale sistema di riferimento (Pais et al., 2023) e riequilibrando le asimmetrie di potere alla base della relazione fra professionisti e clienti. Per contribuire a questo dibattito, il presente contributo indaga i processi di piattaformizzazione in corso in alcune aree del settore sanitario, attingendo ai risultati del progetto di ricerca WePlat: Welfare Systems in the age of platforms (https://www.weplat.it/). In particolare, il contributo intende confrontare i risultati dell’analisi condotta su tre piattaforme digitali nate ed attive in Italia che erogano, rispettivamente: 1) servizi di psicologia online; 2) servizi di teleconsulto medico; 3) servizi sanitari e socioassistenziali a domicilio. I casi esaminati sono accomunati da un più alto grado di strutturazione rispetto al modello classico delle piattaforme digitali. Non si limitano ad aggregare profili professionali, rendendoli visibili e ordinandoli secondo logiche reputazionali, ma esercitano un controllo diretto su una serie di processi – dalla selezione dei professionisti alla valutazione, fino alla definizione delle tariffe – finalizzato a standardizzare la qualità dei servizi offerti e la facciata dei professionisti. Le piattaforme analizzate non producono semplicemente una disintermediazione dei campi professionali, ma si relazionano in maniera più o meno conflittuale con le logiche che governano tali campi, sia introducendo importanti elementi di novità, sia adattandosi a contesti socioeconomici specifici e allineandosi a dinamiche preesistenti. In particolare, si registrano quattro dinamiche particolarmente significative: 1) Le piattaforme convalidano il valore del capitale culturale istituzionalizzato (Bourdieu, 2015) sotto forma di titoli e credenziali quale criterio di accesso ai campi professionali. Tuttavia, ne riducono il potere di stratificazione; 2) Le piattaforme moltiplicano il capitale sociale dei professionisti, ma lo accumulano al proprio interno, costruendo relazioni di dipendenza economica (Schor et al., 2020). 3) Le piattaforme costruiscono un “discorso professionale” (Evetts, 2006) per consolidare la propria reputazione, ma riducono l’autorità dei professionisti, sia attraverso sistemi reputazionali algoritmici, sia attraverso più convenzionali forme di controllo gerarchico; 4) Le piattaforme riconfigurano il contenuto del lavoro professionale, contribuendo all’istituzionalizzazione di nuove pratiche – ad esempio, la psicoterapia online – su cui rivendicano una giurisdizione esclusiva. In conclusione, l’obiettivo del presente studio è quello di inquadrare i processi di piattaformizzazione oltre l’idea di una innovazione disruptive. Intendendo le piattaforme come agenti organizzativi, e non semplicemente come tecnologie, il presente contributo analizza il modo in cui riconfigurano i campi professionali in cui operano, riarticolandone i saperi istituzionalizzati, le dinamiche di potere e le logiche di stratificazione. Tra autenticità e omogeneizzazione visiva: l'estetica del lavoro neo-artigianale su Instagram Università degli Studi di Milano, Italia L'obiettivo di questo contributo è indagare le estetiche del lavoro "neo-artigianale" su Instagram e la relazione che intercorre tra le pratiche di produzione culturale e visuale tipiche di questo lavoro, da un lato, e le logiche e i linguaggi della produzione culturale su piattaforma dall’altro. Secondo Manovich, viviamo in una società "estetica", dove "la produzione di belle immagini è centrale per il nostro funzionamento economico e sociale" (2019: 3). Instagram, più di altri social media, ha contribuito all'estetizzazione dei momenti quotidiani attraverso una grande varietà di funzioni per l'editing di immagini e video, tra cui filtri ed effetti. Alcune delle estetiche distintive di Instagram, come lo stile minimalista o quello retro-nostalgico, hanno guadagnato una grande popolarità tra utenti, creatori di contenuti e piccole e grandi aziende che pubblicizzano i loro prodotti sulla piattaforma (Boy & Uitermark, 2024). Il lavoro “neo-artigianale” o “neo-craft” - una nuova forma di lavoro post-industriale che consiste nella “artigianalizzazione” di alcuni lavori manuali, tradizionalmente associati alla working class (Ocejo, 2017), che vengono “risignificati” attraverso un processo di produzione discorsiva caratterizzato da forme di “distinzione marginale” basate sull'autenticità e sulla "particolarizzazione" (Gandini e Gerosa, 2023) - rappresenta un caso di studio ideale per l’osservazione di questo processo. Le piattaforme di social media, in particolare Instagram, sono fondamentali per attualizzare questo processo di risignificazione discorsiva che è emblematico di questa nuova forma di lavoro. Al fine di individuare i modelli estetici ricorrenti attraverso cui i lavoratori e le lavoratrici in questo settore presentano se stessi ed il loro lavoro su Instagram, abbiamo effettuato un'analisi visiva qualitativa (Aiello e Parry, 2020) di 346 account Instagram di attività neo-artigianali con sede nell'Unione Europea, raccolti secondo un approccio digital methods (Caliandro e Gandini, 2019). I risultati indicano che un alto grado di omogeneizzazione estetica caratterizza queste attività, indipendentemente dalla loro posizione geografica e dal tipo di business e nonostante l’autenticità sia un valore centrale del lavoro neo-artigianale (Gandini e Gerosa, 2023). I profili Instagram analizzati presentano caratteristiche molto simili, con analogie di colori e tropi; le immagini di laboratori, studi o locali di lavoro sono presentate con uno stile visivo comune e una ricorrenza di componenti simboliche che sembrano parlare lo stesso linguaggio visivo. Allo stesso tempo, la presentazione del prodotto impiega forme e colori specifici che richiamano uno stile minimalista; i loghi e i caratteri utilizzati dagli artigiani sono simili tra loro, richiamando elementi vintage, luoghi specifici e una generica allure postindustriale di stampo hipster (Gerosa, 2024). Sulla base di questa analisi, è possibile rilevare la dimensione paradossale che caratterizza questo fenomeno, che può essere letta in due direzioni interpretative diverse e complementari tra loro. Da un lato, osserviamo empiricamente il potere estetico omogeneizzante delle piattaforme di social media rispetto al display di pratiche culturali e materiali eterogenee e talvolta molto distanti tra loro. Nel contempo, emerge come le imprese artigiane debbano a un tempo differenziarsi dai loro concorrenti ed essere percepite come parte della stessa scena culturale, con la conseguenza che i lavoratori e le lavoratrici neo-craft sono costretti a piegarsi alle logiche di piattaforma per esistere nel loro mercato di riferimento, agendo di fatto “forzatamente” come content creator digitali pur non avendone le competenze, o non essendo questo espressamente parte del proprio lavoro. Ciò conferma quanto suggerito da Jarrett (2022), secondo cui qualunque attività di lavoro, anche non direttamente legata alla sfera digitale o alla tecnologia, può subire un processo di piattaformizzazione - un processo di cui il caso del neo-craft è evidenza diretta. L’economia dell’autenticità tra controllo capitalista e pratiche creative dal basso Birmingham Business School, Regno Unito; Gran Bretagna L’avvento del ventunesimo secolo ha restituito ai prodotti artigianali un posto d’onore nella società post-industriale (Kroezen et al., 2021) nel cuore e nel palato dei consumatori. L’economia ‘hipster’ urbana, in particolare i settori del cibo e del bere, rappresentano l’epicentro di questo fenomeno (Ocejo, 2017). Chris Land (2018) definisce questo movimento come ‘neo-artigianale’, argomentando come la preservazione dell’immaginario tradizionale dell’artigianato si combini con una produzione innovativa e abile di prodotti di alta qualità. Basata su un corpus di 40 interviste semi-strutturate a micro-imprenditori neo-artigianali – proprietari di gourmet food trucks e bar e ristoranti - nella città di Milano, questa presentazione illustrerà la tesi per cui le industrie neo-artigianali si configurino come la manifestazione più pura di un regime estetico di consumo fondato sull’ideale dell’autenticità. Questo regime estetico di consumo è diventato paradigmatico del tardo capitalismo moderno nella sua configurazione postfordista (Amin, 1994) e, a livello concettuale e nella sua applicazione, deve sempre essere considerato nelle sue relazioni con specifici regimi di accumulazione di capitale e modi di regolazione (Aglietta, 1979), nel caso del postfordismo produzione flessibile (Harvey, 1989) e neoliberalismo (Harvey, 2007). Da questa premessa, la presentazione si concentrerà sui sottili processi di controllo dall’alto e pratiche di resistenza creativa dal basso che caratterizzano le aspirazioni quotidiane degli individui verso forme di consumo – e di vita – più autentiche nel tardo capitalismo moderno. In particolare, analizzerà il rapporto dialettico tra essi tramite tre paradossi e contraddizioni intrinseche all’economia urbana hipster fondata sul paradigma dell’autenticità. Il primo di questi paradossi, focalizzato sulla dimensione di consumo, discute di come le grandi realtà industriali crescentemente tentino di attribuire ai propri prodotti tramite strategie di marketing un’aura ‘artificiale’ (cfr Benjamin, 1936) di autenticità e artigianalità tipica dei prodotti dell’economia neoartigianale, composta da piccole attività indipendenti. Sebbene queste ultime rappresentino un’alternativa più etica e spesso più attraente per gli individui, specialmente quelli appartenenti al ceto medio, il prodotto industriale dotato di un’aura artificiale rimane altamente più accessibile per larghe fasce della popolazione. La seconda contraddizione si concentra sulla dimensione produttiva e di intermediazione simbolica del lavoro neo-artigianale (Smith Maguire & Matthews, 2012). In essa, si analizzano le distinzioni operate dai lavoratori neo-artigianali, sopratutto nell’ambito dei food truck, rispetto ai colleghi considerati legittimi e quelli considerati più distanti dal proprio approccio, in termini culturali ed etici. La categoria comune identificata da essi come più distante da sé è quella di coloro che adottano la medesima estetica senza compiere i sacrifici derivanti dalla dimensione etica dell’economia neo-artigianale. Tipicamente, la figura ideal tipica che rappresenta questo modello sono coloro che vendono fritti ottenuti da materie prime comprate surgelate presso la grande distribuzione. La frittura consente di vendere materie prime industriali e di qualità scadente agli stessi prezzi delle preparazioni ottenute tramite ingredienti di qualità e coltivati eticamente da produttori locali. Tuttavia, i cibi fritti rivestono grande importanza nella tradizione culinaria italiana precisamente per la loro capacità di rendere gustose e appetibili anche materie prime secondarie e di scarsa qualità, tipiche della cucina popolare. Il terzo paradosso si concentra sull’impatto dell’economia hipster sullo spazio urbano, analizzando come le attività commerciali neo-artigianali si configurino allo stesso tempo come un’opportunità unica per il rilancio del commercio di vicinato, storicamente stretto tra grande distribuzione e e-commerce, guidato dalla volontà di creare un tessuto sociale basato su una visione mitizzata delle relazioni sociali autentiche del passato, e una minaccia mortale per la diversità del tessuto commerciale urbano e per la sostenibilità abitativa nei quartieri in cui si diffonde. In conclusione, la presentazione si concentra sulle implicazioni di tali contraddizioni. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 3: Educazione tra innovazione e disuguaglianze Luogo, sala: Aula T01 Chair di sessione: Andrea Maccarini |
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Opportunità, limiti e sfide della digital trasformation nell’università italiana Sapienza Università di Roma, Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale Le società contemporanee devono affrontare la sfida di pensare a nuove forme educative, capaci di sfruttare le opportunità offerte dalla digital transformation, pur contenendone limiti e rischi, per formare le giovani generazioni. L’obiettivo è individuare metodi efficaci e supporti digitali adeguati a sviluppare approcci didattici per preparare al meglio professionisti in grado di interpretare, gestire e concorrere a delineare gli scenari futuri. In questo ambito, si è sviluppata da tempo un’ampia letteratura, ma soprattutto più recentemente si assiste allo sviluppo di una riflessione sulle implicazioni dell’uso di piattaforme digitali e dell’introduzione dell’intelligenza artificiale come strumenti al servizio della formazione (Ramella & Rostan, 2020; Zhang et al., 2022; Prosser et al., 2003). In particolare, la questione centrale attiene al loro ruolo nella ridefinizione di metodi e tecniche educative capaci di concorrere allo sviluppo del pensiero critico, cercando di individuare i pregi e di arginare le criticità. A questo proposito, gli approcci formativi più recenti adottano una prospettiva olistica che suggerisce di combinare indicazioni provenienti dalle diverse prospettive pedagogiche relative alle strategie di apprendimento e insegnamento, tra cui soprattutto quelle costruttivista, interazionista e socioculturale (Nguwi, 2023). Questo paper intende fornire un contributo in tal senso presentando una prospettiva teorico-interpretativa che mette in relazione i più recenti modelli di applicazione della digital transformation nell’innovazione della didattica (Vrana & Singh, 2021) con i principali paradigmi che connotano la formazione universitaria nella cultura occidentale (Al Rawashdeh et al., 2021; Aditya et al., 2022). L’obiettivo è quello di individuare le modalità più appropriate per sfruttare l’innovazione digitale in maniera conforme ai metodi didattici che i docenti ritengono più appropriati rispetto alle loro esigenze formative. Inoltre il paper riporta alcuni risultati emersi da un’indagine condotta su 5 dei 10 mega-atenei italiani nel 2022 e finalizzata a rintracciare tendenze e metodologie applicate di didattica innovativa, per delineare prospettive di sviluppo e principali orientamenti nel settore dell’innovazione della didattica e della trasformazione digitale delle pratiche educative. Lo studio, che ha coinvolto 1.821 docenti universitari, poggia su un’analisi mono e bivariata dei dati raccolti e su analisi di regressione lineare verificate mediante il coefficiente di regressione di Pearson e volta a verificare la relazione tra le principali variabili in esame relative alle modalità di insegnamento e apprendimento e all’uso di tecnologie innovative. Questa indagine ha inteso accertare se e in che misura l’innovazione didattica, comprendendo sia le prospettive pedagogiche che le strategie formative, è facilitata dalla trasformazione digitale e favorisce l’assunzione di metodologie didattiche capaci di sviluppare il pensiero critico. I risultati di questo studio costituiscono solo una prima parte di una ricerca più estesa che prevede uno studio longitudinale volto a verificare i cambiamenti in corso nel tempo, nella consapevolezza che si tratta di un processo a lungo termine e sottoposto a continue sfide correlate alle incessanti innovazioni tecnologiche. L’approccio è incentrato sulla ricerca di soluzioni adeguate alle esigenze di studenti e docenti, cercando di contenere il rischio di derive interpretative socio-materialiste o incentrate su logiche di iperludizzazione che spostano l’attenzione più sulla strumentazione tecnologica o sul principio del divertimento (Aldalur & Perez, 2023). Al contrario, lo studio si concentra su una prospettiva olistica per individuare aspetti che abbiano un fondamento nella metodologia didattica, ma che, al tempo stesso, possano leggere e interpretare in maniera critica opportunità e limiti della trasformazione digitale nella formazione universitaria. A questo scopo, il paper inquadra potenzialità e criticità emerse dai risultati della ricerca, coerentemente con la letteratura di riferimento (Sharples, 2022; Dahalan et al., 2023; Perry et al., 2023), sottolineando questioni di natura strutturale, prospettica, metodologica ed etica da considerare per garantire un impiego equilibrato dell’innovazione tecnologia a supporto della qualità della didattica. Ma possiamo ancora capire la società? Una sfida epistemologica, educativa e comunicativa 1Università degli Studi di Perugia; 2Sapienza Università di Roma Proviamo ad abitare un’epoca segnata da profondi mutamenti e processi di sintesi complessa, le cui implicazioni epistemologiche ed etiche, oltre a spalancare di fronte a noi prospettive e traiettorie del tutto inedite, non siamo in grado di valutare. Una fase accelerata di transizione “aperta” e irreversibile che ha determinato l’obsolescenza dei paradigmi tradizionali, a fronte di una trasformazione antropologica che si è concretizzata nel progressivo ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Potremmo affermare: la realtà è in continua trasformazione ed evoluzione non lineare, mentre i saperi continuano a rimanere saldamente ancorati a logiche di reclusione e separazione che li rendono, di fatto, inadeguati e sterili. Confini e limiti, tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, che sono completamente saltati, in virtù e in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche; confini e limiti destinati a trasformarsi sempre più in zone ibride e di contaminazione che, almeno per ora, trovano le nostre istituzioni educative e formative, così come le culture organizzative pubbliche e private, impreparate e inadeguate. Il complesso processo di trasformazione antropologica, in atto da tempo, dischiude orizzonti e scenari tuttora inimmaginabili, rendendo ancor più evidenti i nostri limiti, l’assenza di un sistema di pensiero, la nostra incompletezza e vulnerabilità, la nostra condizione permanente di razionalità limitata (Simon). La civiltà ipertecnologica e iperconnessa, oltre a configurarsi come una civiltà della razionalità e del controllo totale, continua a rappresentarsi, ad auto-rappresentarsi e, soprattutto, ad essere rappresentata - sia a livello di narrazioni che di discorso pubblico - come una civiltà sempre più avanzata e in grado di eliminare l’Errore e l’imprevedibilità dai processi, dai sistemi, dagli ecosistemi, dalla vita. E, una civiltà di questo tipo, sempre più programmata e automatizzata in ogni suo aspetto e innervata di processi di simulazione (= efficienza/controllo), oltre che delegare tutto alla tecnologia, non può che ricorrere in maniera esclusiva, solo e soltanto, a quei saperi tecnici e a quelle competenze che appaiono più in grado di confermare e rafforzare quell’immagine e quell’immaginario collettivi. Gettati nell’ipercomplessità – una ipercomplessità di cui non abbiamo ancora compreso le profonde implicazioni epistemologiche ed etiche -, siamo di fronte a nuove sfide epistemologiche, educative e di “cultura della comunicazione” in cui la Sociologia e, più in generale, le Scienze Sociali possono rivelarsi determinanti, e per tante ragioni. Sfera cognitiva, sfera emotiva e sfera sociale. Consapevoli della natura intrinsecamente collettiva e collaborativa della conoscenza, occorre lavorare per risanare/ricomporre alcune fratture che segnano anche le singole esistenze, la realtà e le nostre visioni della realtà. Si tratta di fratture importanti e radicate nelle culture organizzative e, perfino, in quelle scientifiche; fratture che condizionano, non soltanto l’evoluzione dei saperi e della conoscenza, ma anche le nostre abilità e capacità di abitare l’ipercomplessità e rispondere, attraverso anche i modelli culturali, alle istanze dell’incertezza, oltre che alle anomalie del vivente e del reale. Si tratta di fratture che condizionano anche, e soprattutto, le nostre esistenze e i nostri vissuti sociali e culturali, il modo stesso di concepire la vita e l’esistenza, le relazioni, l’incontro con L’Altro da Noi, il pensiero e l’azione rispetto a ciò che è e sarà sempre ingovernabile, imprevedibile, talvolta ignoto. Povertà educative nella scuola di base: valori e atteggiamenti di dirigenti e insegnanti di fronte alle conseguenze della pandemia 1Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 2Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia In Italia le povertà educative sono presenti nella scuola di base, sia come deboli livelli di apprendimento, sia come svantaggi di tipo sociale e culturale (Salmieri, Giancola, 2023) che colpiscono gli studenti con disabilità, con disturbi di apprendimento e con famiglie povere e deprivate, incluse quelle con background migratorio. Nel corso della crisi pandemica, gli studenti con BES Bisogni Educativi Speciali sono quelli che più hanno visto aggravarsi il rischio di esclusione, e quindi di impoverimento e deprivazione (Towsend, 1987). All’interno di un modello di educazione inclusiva avanzato (D’Alessio, 2011), lo Stato italiano ha garantito a questi studenti l’accesso alla scuola in presenza durante il secondo lockdown (Colombo & Santagati, 2022), mostrando di aderire ad un frame valoriale coerente con l’inclusione educativa (Onger, 2008; Canevaro, Ciambrone, Nocera, 2021). I tre anni di emergenza pandemica possono quindi essere considerati un banco di prova per il sistema scolastico, che ha risposto alle turbolenze provocate dal contagio da Covid-19 e alle sue conseguenze (Colombo et al., 2022) in maniera sia puntuale (auto-organizzazione e resilienza) sia sistemica (applicazione di norme speciali; educazione in emergenza) con impatti tuttavia differenti sugli alunni dei diversi territori, istituti e all’interno degli stessi istituti. Il contributo si chiede: Quali sono stati i principi-guida nella risposta all’emergenza (attesa, monitoraggio, attivazione, compensazione ecc.) incarnati da chi ha dovuto gestire in prima linea i rischi di povertà educativa degli alunni più fragili? Quali atteggiamenti hanno sviluppato i dirigenti e gli insegnanti? La nostra ipotesi è che durante i 3 anni scolastici della pandemia dirigenti e docenti abbiano sviluppato prospettive diverse, almeno nella fase iniziale, arrivando poi a convergere sui medesimi principi guida. Inoltre ipotizziamo che vi siano state differenze di sensibilità verso la povertà educativa (e dei rischi di deprivazione per coloro che già erano fragili) tra docenti curricolari e docenti di sostegno. Infine esploriamo gli atteggiamenti dei docenti in base a 5 dimensioni rilevanti (auto/etero referenzialità, visione della DAD, rapporto con la burocrazia, rapporto con gli studenti; orientamento verso la docenza). Il contributo si serve dei dati dell’indagine Deprivazione educativa e risposte sistemiche (2022/23) in 6 istituti comprensivi statali ad elevato tasso di presenza alunni con BES in tre province del Nord Italia (Brescia, Piacenza, Milano). La ricerca è stata effettuata con interviste semi-strutturate a 7 testimoni per ogni istituto (docenti, dirigenti, genitori) per un totale di 42 interviste, la cui traccia indaga aspetti organizzativi, didattici e relazionali della risposta delle scuole ai bisogni degli alunni con BES durante e dopo la pandemia. I risultati confermano che le divergenze di sensibilità tra dirigenti e docenti (manifestate al momento dello scoppio emergenziale) sono andate diminuendo nel corso delle due annate di “crisi”. Contrariamente all’ipotesi iniziale, i dati mostrano una sostanziale comunanza di visione tra docenti di sostegno e docenti curricolari rispetto ad un sensibile aumento negli ultimi anni delle forme di disagio psicologico, dei disturbi comportamentali e dei ritardi negli apprendimenti, maggiormente accentuato tra gli alunni ; inoltre, che la preoccupazione per gli alunni vulnerabilicon vulnerabilità. La condizione emergenziale e il deficit relazionale provocati dalla DAD hanno portato sia i docenti di sostegno sia i curricolari a rimodulare la didattica tenendo maggiormente in considerazione la promozione del benessere relazionale degli alunni sia come obiettivo in sé sia come leva fondamentale dei processi di apprendimento , più elevata tra i docenti di sostegno rispetto ai docenti curricolari, è andata allineandosi, all’interno di un frame valoriale di attivazione piuttosto che di precauzione, malgrado le scarse competenze digitali di entrambe le categorie, caratterizzate da atteggiamenti di autonomia più che eteronomia. Si conferma quindi un apprendimento organizzativo nelle scuole pubbliche di base verso la lotta contro la deprivazione educativa. La “rivenducazione” come forma di lotta della nuova educazione popolare. Il caso delle scuole popolari a Roma Sapienza, Italia Il paper affronta un tema molto interessante e poco indagato nel campo sociologico come la rinascita delle iniziative di educazione popolare in Italia (De Meo, Fiorucci 2011; Antonini 2019; Zizioli 2024), Paese connotato da una lunga e al suo interno variegata tradizione in questo campo (Guimares et al. 2018; D’Ascenzo 2020). L’unità di analisi della ricerca qui presentata fa riferimento al caso della Rete delle scuole popolari di Roma (Zizioli 2023). In linea con quanto riscontrato in altri studi nazionali e internazionali sui nuovi movimenti sociali (Yates 2015; Bosi, Zamponi 2020; Della Porta 2020), gli attivisti di queste Rete combinano il “mutualismo” praticato soprattutto dalla “sinistra antagonista” (di ispirazione neo o post-marxiana) organizzati nei centri sociali (Alteri 2014; Membretti, Mudu 2013; Bazzoli 2021; Bosi, Zamponi 2022) con pratiche di pedagogia critica (Giroux 2020). La scelta di questo oggetto di studio è derivata dall’obiettivo di praticare una “sociologia pubblica” (Burawoy 2007). Questo modo di fare sociologia presuppone la partecipazione attiva del ricercatore ai movimenti sociali in lotta, al fine di contribuire in qualche modo ai processi di emancipazione collettiva. Questa visione critica della sociologia (Apple 2015) implica una rottura epistemologica rispetto alla netta separazione tra soggetto indagatore e oggetto di studio, e di conseguenza favorisce l’autoriflessione delle soggettività̀ in lotta così come del ricercatore stesso. Tale postura intellettuale ripudia l’idea positivista della supremazia delle categorie cognitive del ricercatore rispetto a quelle delle soggettività indagate, mirando alla traduzione e al dialogo tra diverse forme di saperi. Anche per via dell’esplicitazione di questa prospettiva, l’entrata nel campo di osservazione in qualità di ricercatore sociale, e in particolare di studioso di diseguaglianze scolastiche, è stata ben accolta e vissuta come “naturale” dagli attivisti delle scuole popolari. La ricostruzione di questa rete è stata resa possibile, quindi, dall’osservazione partecipante scoperta (Silverman 1997; Cardano 2020). L’osservazione è stata condotta a partire dalla metà di ottobre del 2019, e continua tuttora. Nel gennaio del 2020 chi scrive ha così potuto partecipare attivamente alla redazione della “Carta”, ossia del manifesto contenente i principi e i valori condivisi dalle scuole popolari aderenti alla rete. L’osservazione ha comportato la partecipazione anche alla chat di WhatsApp in cui gli attivisti scambiano messaggi per stabilire le riunioni, organizzare eventi culturali (dibattiti, presentazione di libri, etc.) e pianificare iniziative politiche (sit-in, partecipazione a cortei, etc.). Il materiale raccolto con l’osservazione partecipante è stato integrato da ventotto interviste non direttive (Bichi 2007) agli educatori delle scuole popolari, realizzate grazie alla fruttuosa collaborazione tra le Università La Sapienza e Roma Tre. Il tipo di intervista impiegata consente di reperire informazioni in profondità grazie a una conduzione in cui il ricercatore interviene poco, rispetta i silenzi e le pause dell’intervistato, adattando alla situazione dell’intervista formulazione e ordine delle domande (Bichi 2007). Il paper esamina identità politico-culturale degli attivisti romani e loro pratiche educative, rileggendo entrambe alla luce delle trasformazioni neoliberiste di Scuola e Welfare. In particolare, l’analisi evidenzia il nesso tra la rapsodica partecipazione all’agone politico-istituzionale degli educatori popolari e la possibilità per la governance neoliberista (Brenner 2004; Moini 2016) di ricondurre sotto la propria “ragione” (Sorice 2022) il contrasto alla cultura dello scarto, sfruttando la gratuità di un’attività che in qualche modo compensa la debolezza del welfare locale e della scuola nel contrastare le diseguaglianze sociali. Allo stesso tempo, i risultati portano a evidenziare anche le potenzialità di un nuovo modo di declinare educazione e politica per il quale è stato coniato il termine “rivenducazione”. Questo tipo di azione riflette una tendenza che travalica le scuole popolari e fa riferimento alla progressiva costruzione in seno a una parte di società civile di forme di vita e pratiche contro-egemoniche (Hall 1986). |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 4: Intelligenza artificiale e algoritmi Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Giovanna Mascheroni |
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“Caro algoritmo...”. Consapevolezza algoritmica nelle media sharing platforms Sapienza, Italia Quando a dicembre abbiamo assistito al lancio di Threads – il Twitter di Meta – in Europa (The Verge, 2023) molte persone hanno avuto la loro prima esperienza di un social di microblogging con timeline (principalmente) algoritmica. Durante i primi giorni di vita della piattaforma sono comparsi sempre più post che iniziavano con “Caro algoritmo...” o “Ok algoritmo...” e proseguivano dando indicazioni su quali tipologie di persone gli utenti speravano di trovare nella loro rete. Questo riferimento diretto all’algoritmo di piattaforma testimonia una notevole algorithmic awareness (Hamilton et al 2014), frutto di una ormai pervasiva presenza di algoritmi di raccomandazione in tutte le media sharing platform. In una società nella quale i dati hanno un ruolo sempre più predominante (van Dijck, Poell, de Waal 2019) la consapevolezza algoritmica assume sempre più importanza in quanto diventa essenziale che le persone siano al corrente degli algoritmi che operano nella curatela dei contenuti che vengono mostrati nelle piattaforme da loro utilizzate, non solo quando si tratta di vedere post di amici e conoscenti, ma soprattutto quando si tratta di informazione. Nei media mainstream si parla sempre più spesso di algoritmi, complice anche il successo di TikTok, piattaforma di contenuti distribuiti quasi esclusivamente secondo un flusso algoritmico, ma il loro funzionamento rimane, spesso, percepito come una black box. Per ovviare a questo problema entra in atto la pratica creativa dell'ideazione di immaginari algoritmici (Bucher, 2017), e conseguenti folk theories (DeVito, Gergle, Birnholtz 2017), che orientano i comportamenti degli utenti online e portano a vari livelli di consapevolezza. Questo tema è emerso con forza all'interno dell'analisi tematica di 30 interviste in profondità portate avanti con persone tra i 18 e i 35 anni, inserite all’interno di un progetto più ampio sugli usi e le percezioni di TikTok, le quali si sono concentrate sulla percezione e consapevolezza algoritmica, declinate poi nelle dimensioni di collaborazione, resistenza e affidamento. Nel primo caso gli utenti si mostrano consapevoli delle dinamiche algoritmiche in atto nella piattaforma e parlano delle azioni che compiono per aiutare il “loro” algoritmo a capire meglio che genere di contenuti mostrare. Nel secondo, tenendo sempre in mente la presenza di questo attore, condividono i gesti che fanno per riorientare i contenuti che si trovano in piattaforma nei casi in cui la loro identità algoritmica non rispecchi la loro identità percepita (Karizat et al 2021), in alcuni casi arrivando a chiudere o cancellare l’app. Nell’ultimo caso si inseriscono gli utenti che hanno una consapevolezza dell’algoritmo di piattaforma ma scelgono di non interagirci per riorientare i contenuti, piuttosto lasciano che la piattaforma faccia da sé e costruendo il loro gusto in base alle proposte della app. Per quanto l’esperienza in TikTok non sia generalizzabile a tutte le piattaforme di media sharing è un buon esempio del livello di algorithmic awareness che hanno gli utenti di queste piattaforme – soprattutto quelli appartenenti a una fascia d’età giovane, come suggerito anche da Gran, Booth e Bucher nel loro studio del 2021 sulla consapevolezza algoritmica come possibile digital divide. GenAI tra entusiasmo e preoccupazione. Uno studio su opinioni e percezioni degli studenti universitari italiani Università di Udine, Italia Le tecnologie basate sull'intelligenza artificiale da decenni fanno parte della vita sociale e trovano applicazione nei più svariati campi, dalla medicina all'ambito legale, dall’arte alla robotica. Piuttosto recente al contrario è l'adozione di massa di sistemi basati sull’intelligenza artificiale di tipo generativo, caratterizzati dall’utilizzare il linguaggio naturale e quindi di essere potenzialmente "aperti a tutti", anche agli utenti che non dispongono di conoscenze tecniche o di programmazione. Per comprendere come gli studenti universitari italiani utilizzano e percepiscono gli strumenti di GenAI, è stato condotto uno studio prevalentemente quantitativo basato su un questionario online composto da 55 items, prevalentemente a risposta chiusa, con l'obiettivo di indagare le seguenti domande di ricerca:
Il questionario è stato diffuso da ottobre a dicembre 2023 (un anno dopo il lancio di ChatGPT) e ha raccolto 1366 risposte, tutte provenienti da studenti universitari attualmente iscritti a un totale di 23 università di tutta Italia, che sono poi state analizzate sia dal punto di vista quantitativo (con SPSS), sia dal punto di vista qualitativo per quanto riguarda le tre domande aperte (NVivo). Emerge un quadro variegato, in cui l'uso di questi sistemi di GenAI tra i giovani studenti italiani sembra essere già sufficientemente diffuso (anche per svolgere compiti universitari, dove però sembra ancora permanere un tabù a dichiararlo apertamente) ma anche una serie di opinioni e preoccupazioni ambivalenti e in qualche misura contraddittorie che fanno sorgere il dubbio che l’opinione espressa su queste tecnologie sia poco chiara e fortemente influenzata da aspetti di “desiderabilità sociale”. Gli intervistati dichiarano una forma di preoccupazione legata alla diffusione di questi sistemi, ma questa preoccupazione è espressa solo a “livello generale”, su questioni lontane e astratte che riguardano la società nel suo complesso ma non il proprio percorso personale, negando quindi la percezione di influenze dirette sulla propria vita. In generale, si evidenzia la presenza di quattro diverse polarizzazioni degli atteggiamenti di opinione. Il primo cluster identificato nei dati (21,3% del campione di convenienza) associa gli sviluppi delle tecnologie di GenAI a un impoverimento generalizzato di tutte le capacità umane e a un rischio per la società e per il proprio futuro. Sono quelli che utilizzano poco frequentemente la GenAI e hanno un atteggiamento negativo (“apocalittico”) nei confronti di questo tema. Al contrario, un cluster di “entusiasti” (o “integrati”) rappresentante il 30,3% dei rispondenti, assume un atteggiamento esattamente opposto, carico di fiducia ed entusiasmo nei confronti del potenziale di miglioramento che queste tecnologie possono portare alla società e a tutte le abilità umane. Un terzo cluster (29,5%) è riconducibile a un gruppo di persone altamente digitalizzate e con ottime competenze in area informatica che esprime sentimenti e opinioni sostanzialmente intermedie, e in qualche modo “neutre”, rispetto ai due poli appena descritti. Infine un quarto cluster, costituito dal rimanente 18,9%, è rappresentato da persone “indifferenti”, ovvero da coloro che si sentono sostanzialmente estranei a queste rivoluzioni in atto, utilizzano poco le device digitali e i sistemi di generative AI e hanno opinioni poco nette su tutte le dimensioni analizzate, che sembrano non comprendere appieno e non attirare il loro interesse. Quale equità algoritmica? La persistenza del mito della neutralità dello strumento tra i programmatori di sistemi di ML Sapienza, Università di Roma, Italia I sistemi di Machine Learning (ML) e Intelligenza Artificiale (IA) possono esercitare una profonda influenza nei contesti socio-culturali (van Dijck, Poell, de Waal, 2019), orientando, tra l’altro, preferenze, comportamenti, estetiche e immaginari (Manovich, 2018). Guidati da logiche computazionali e tecnologie algoritmiche, tali sistemi possono sia elaborare e classificare grandi moli di dati, sia ridurre la complessità dei fenomeni che descrivono (Crawford, 2021). Le macchine algoritmiche, poi, si configurano come “agenti sociali” (Airoldi, 2022), ossia come il prodotto socialmente e storicamente situato (Airoldi, 2022; Aragona, 2020; Dourish, 2016) di intricate interazioni tra individui e “attori” tecnologici (Latour, 1987), e, al pari delle persone, apprendono e replicano comportamenti, abitudini e valori culturali (Airoldi, 2022). Ne deriva che gli algoritmi non sono né neutrali né oggettivi (Aragona, 2020), con potenziali ricadute sociali, compreso il rafforzamento di pregiudizi e disparità (Gupta et al., 2021). Proprio sulla base della consapevolezza che le decisioni prese dai sistemi di ML/IA possono avere un impatto significativo sulle persone, in particolare su coloro la cui identità è più vulnerabile, negli ultimi anni si è assistito a un interesse crescente nei confronti dell’equità algoritmica (Bellamy et al., 2018; Cowgill, Tucker, 2020; Pessach, Shmueli, 2020). In questa direzione, si colloca il progetto di ricerca PRIN PNRR IMAGES (Inclusive Machine learning system using Art and culture for tackling Gender and Ethnicity Stereotypes), promosso da Sapienza Università di Roma e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), volto a indagare inclusività e accessibilità dei sistemi di ML/IA utilizzati in dataset e piattaforme di opere d’arte, con il duplice intento di mitigare i pregiudizi di genere ed etnici di tali sistemi (Shrestha, Das, 2022) e utilizzare immagini artistiche come strumento formativo per promuovere sensibilità e consapevolezza in merito all’equità di genere, alla diversità culturale e all’inclusione sociale. Nell’ambito del progetto, si propone un paper che mette a confronto gli esiti di una scoping analysis della letteratura sui bias di genere di genere ed etnici incorporati in testi e immagini dalle tecnologie algoritmiche e di IA, con i punti di vista, le esperienze, i percorsi formativi e le prassi professionali dei programmatori di sistemi di ML, raccolti con interviste in profondità. Considerando la predominanza degli uomini impiegati nel campo delle tecnologie informatiche (WEC, 2022), le dinamiche d’influenza nei luoghi di lavoro (Lancaster et al., 2023) e gli studi sui bias degli sviluppatori (Cratsley, Fast, 2024), l’obiettivo specifico del contributo è verificare la persistenza del mito della neutralità algoritmica nell’immaginario dei professionisti del settore, soprattutto in relazione alla dimensione etnica e di genere (Natale e Ballatore, 2018). L’analisi della letteratura, effettuata tramite keyword su Scopus e Web Of Science, ha restituito 1.341 contributi, che hanno permesso di individuare prospettive disciplinari prevalenti, tematiche privilegiate, metodi di ricerca utilizzati ed esiti più rilevanti, costituendo sia la base sia un ambito di confronto con i punti di vista dei programmatori. In linea con altri studi sul tema (Lancaster et al., 2023; Cratsley, Fast, 2024), i primi risultati rivelano, tra gli sviluppatori, una conoscenza prevalentemente teorica e tendenzialmente superficiale delle possibili iniquità dei sistemi algoritmici, una ridotta consapevolezza dei potenziali impatti dei loro prodotti sull’equità e la giustizia sociale e la discreta persistenza del mito della neutralità algoritmica, con alcune variazioni legate al genere e al profilo culturale degli intervistati. "Agency percepita" e "agency effettiva". Una triangolazione metodologica per comprendere la relazione tra utenti e music streaming platforms Università degli Studi dell'Insubria, Italia L’incessante quanto incontrollabile soggezione della nostra vita quotidiana all’intermediazione di tecnologie della comunicazione basate sul funzionamento degli algoritmi e sulla loro capacità di leggere e interpretare i nostri comportamenti e i nostri desideri è oramai da diversi anni oggetto di interesse da parte di studiosi delle più varie discipline. Tale interesse è risultato in una rapida germinazione di riflessioni presto rivoltesi anche alle mutate funzioni di produzione e di consumo culturale, oggi largamente mediate dai dispositivi del capitalismo digitale, alla cui ascesa si è accompagnata una progressiva riconfigurazione delle modalità con le quali i contenuti culturali vengono prodotti, disseminati e fruiti. Benché in una fase iniziale siano stati dominanti orientamenti tendenti a scorgere nella presunta democratizzazione dello scambio culturale promessa dagli spreadable media un orizzonte di libero esercizio dell’intelligenza collettiva nel segno della cultura partecipativa, con gli anni sono andate consolidandosi visioni assai meno ottimistiche, dirette all’indagine critica della dimensione politica, economica, istituzionale, ideologica e infrastrutturale delle piattaforme. Il presente paper ambisce a offrire un contributo al corrente dibattito introducendo la discussione di una triangolazione metodologica impiegata in uno studio di recente pubblicazione, volta a comprendere la relazione tra agency degli utenti e affordances di un servizio di streaming tipicamente rappresentativo del capitalismo delle piattaforme, Spotify. Centinaia di milioni di persone in tutto il mondo fruiscono oggi di prodotti musicali diffusi da servizi di streaming attorno ai quali si è sviluppato un sistema di produzione, distribuzione e consumo controverso e ampiamente discusso, tuttavia alcuni aspetti relativi alle implicazioni sociali della mediazione algoritmica della dialettica produzione-consumo culturale restano ancora da comprendere a fondo. Il disegno metodologico adottato per lo studio dell’”agency effettiva” e dell’”agency percepita” degli utenti di Spotify coinvolti nella ricerca, e dei relativi processi di sense-making sviluppati dagli stessi, prevede l’impiego di tre metodi:
Lo studio ha mostrato una netta divaricazione tra ciò che gli utenti percepiscono e la loro effettiva attività, rivelando alcuni effetti sia positivi sia negativi della mediazione operata dalla piattaforma enmettendo in luce sia i preconcetti degli utenti relativamente ad alcune potenzialità dei servizi di streaming sia alcuni elementi critici delle piattaforme, che riguardano in particolare la loro capacità di indirizzare i consumi verso prodotti più standardizzati, espressione del mainstream culturale, a detrimento dell’ampliamento degli orizzonti culturali degli utenti. La triangolazione dei metodi ha permesso di comprendere sia come una posizione di scetticismo sia spesso impiegata come marcatore di “distinzione sociale” sia di ipotizzare che, allo stesso tempo, le piattaforme esercitano attraverso la propria “interfaccia invisibile” una propria agency favorendo l’orientamento degli utenti a consumi che nell’economia politica delle piattaforme contribuiscono al perseguimento di specifici obiettivi commerciali e finanziari. In conclusione, il presente contributo ambisce a presentare alcuni strumenti di indagine potenzialmente utili a comprendere i processi di sense-making costruiti dagli utenti dei media algoritmici pur senza sottovalutare alcune potenziali forme di compressione dell’agentività degli utenti operate dal sistema delle piattaforme. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 5: Religioni istituzionalizzate e spazio pubblico mediale Luogo, sala: Aula Multimediale Chair di sessione: Alberta Giorgi Chair di sessione: Rita Marchetti |
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Religioni istituzionalizzate e spazio pubblico mediale 1Università di Bergamo, Italia; 2Università di Perugia, Italia; 3Università di Padova, Italia; 4Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Italia; 5Sapienza Università di Roma, Italia; 6Pontificia Accademia per la Vita - Dipartimento Comunicazione Chairs: Alberta Giorgi, Università di Bergamo, Rita Marchetti, Università di Perugia I legacy media svolgono un ruolo importante nel plasmare il discorso pubblico sulla religione in due prospettive principali. In primo luogo, contribuiscono alla strutturazione delle principali categorie e cornici attraverso cui si parla di religione, del suo ruolo nella sfera pubblica e politica, della sua rilevanza nella vita quotidiana delle persone, nonché dei conflitti e delle tensioni che coinvolgono la religione, per esempio in relazione alla cosiddetta “governance” della diversità religiosa. In questa prospettiva è quindi rilevante capire se e quanto la dimensione religiosa sia presente nel dibattito pubblico, quale sia il peso dei temi religiosi, quale la capacità di voice degli attori religiosi e se il loro peso sia mutato nel tempo: più in generale, se e come varia il modo in cui si parla di religione, in relazione a quali fattori (per una panoramica recente si vedano Lövheim e Jensdotter, in corso di pubblicazione). Studi recenti mostrano per esempio come in Italia la copertura religiosa sia diminuita negli ultimi anni (Marchetti, Pagiotti 2023). In secondo luogo, i legacy media contribuiscono alle pratiche di legittimazione e de-legittimazione di attori e temi religiosi, offrendo visibilità e voce ad alcuni soggetti religiosi ed escludendone altri, per esempio, oppure trattando alcuni temi e ignorando altre questioni. Diversi studi hanno sottolineato per esempio come in Italia la trattazione dell’Islam sia prevalentemente inquadrata in una narrazione emergenziale, che costruisce questa religione come “altra” e aliena rispetto all’Italia, e come le altre minoranze religiose di fatto non trovino spazio d’attenzione e tanto meno voce, per quanto la situazione stia lentamente cambiando (cfr. per esempio Allievi 2017; Cervi et. al 2021; Giorgi 2018). In questo senso, i legacy media definiscono il mainstream e normalizzano alcuni modi di parlare di religione. D’altra parte, diversi sono anche gli studi che analizzano il rapporto tra legacy media e religioni esplorando i media di proprietà religiosa e le strategie di comunicazione degli attori ecclesiali (per l’Italia si veda Marchetti 2011) e le forme di appropriazione e innovazione comunicativa da parte di leader e gruppi religiosi (è il caso, per esempio, dei televangelisti studiati da Vitullo, 2021). Nello spazio pubblico mediale contemporaneo, i media digitali contribuiscono a modificare il discorso pubblico intorno alle religioni, in tre direzioni. Innanzitutto, facilitano la connessione indipendentemente dalla contiguità fisica – fattore cruciale nel caso di minoranze religiose i cui partecipanti sono geograficamente distanti e isolati, come la Wicca – e permettono nuove forme di espressione religiosa e di costruzione di comunità. In secondo luogo, rendono disponibili e accessibili informazioni a proposito della religione e delle religioni, ampliando così le fonti attraverso cui le persone apprendono di religione e diversificando e ampliando il ventaglio di religioni e spiritualità “note”. In questo senso la conversazione si è diversificata e pluralizzata. Infine, i media digitali offrono un potenziale spazio di voce per minoranze all’interno delle religioni. Naturalmente, quello digitale non è uno spazio neutro: le logiche socio-tecniche influenzano le forme di espressione e la visibilità. Dal punto di vista teorico, gli approcci alla religione e ai media digitali si muovono all’interno di diverse prospettive che combinano l’attenzione a come i media digitali modificano lo spazio mediale (attraverso gli approcci dell’ecologia dei media, della mediazione e della mediatizzazione) con l’esplorazione di come le persone religiose usano le tecnologie e ne negoziano i significati (cfr. Lundby e Evolvi 2022). Combinando l’attenzione a legacy media e media digitali, il panel circoscrive il suo campo d’attenzione alla religione cristiana (con particolare attenzione alla Chiesa cattolica), con l’obiettivo di mettere in evidenza diversi aspetti che riguardano il ruolo della religione nello spazio pubblico mediale. . Non c’è più religione? Continuità e differenze nella presenza della Chiesa cattolica nei media italiani Rita Marchetti, Susanna Pagiotti, Università degli Studi di Perugia Da alcuni anni studiose e studiosi di diverse discipline parlano di un “ritorno” della religione nella sfera pubblica (Meyer, Moors 2006; Butler et al. 2011; Rovisco, Kim 2014; Schewel, Wilson 2020). La letteratura in lingua inglese sostiene a riguardo un’accresciuta visibilità della religione (che non necessariamente corrisponde a una maggiore incidenza delle Chiese nelle questioni di pubblico interesse, né tantomeno a una maggiore vivacità del sentire religioso dei fedeli) dovuta, almeno in parte, ai media che pubblicano un numero sempre maggiore di notizie che vedono protagonisti attori religiosi e la dimensione religiosa più in generale (Knott et al. 2013; Hjelm 2015; Lövheim 2019). A questo riguardo, alcuni studi si sono concentrati sul ruolo ricoperto dalle Chiese nella sfera pubblica indagando quei processi che portano alla loro legittimazione: sottolineano come, in Europa, le Chiese abbiano ottenuto visibilità per i rapporti intrattenuti con il mondo della politica - coadiuvando l’azione dei governi nei sistemi di welfare ma anche contrapponendosi agli stessi su questioni etiche (Norris, Inglehart 2007; Ozzano, Giorgi 2016) – e, più di recente, prendendo la parola sulle situazioni di conflitto. Tuttavia, questo incremento della visibilità non sembra valere per il caso italiano e in particolare per la Chiesa cattolica. Un recente studio sul coverage giornalistico della Chiesa cattolica in Italia negli ultimi 17 anni ha evidenziato addirittura una diminuzione in termini quantitativi della presenza degli attori cattolici nella stampa cartacea (Marchetti, Pagiotti 2023). Tale tendenza può essere dovuta a diversi fattori che fin qui abbiamo solo provato ad accennare: dal cambiamento delle strategie comunicative della Chiesa, alle trasformazioni del contesto politico, economico e sociale, fino al mutamento del sistema mediale. In questo quadro, il presente studio - che si inserisce in una ricerca più ampia all’interno di un progetto PRIN2022 - si pone l’obiettivo di indagare più approfonditamente se emergono differenze fra i diversi media outlets che compongono l’attuale sistema dei media. Considerando le riflessioni e le ricerche condotte negli ultimi anni sulle relazioni tra le diverse agende – come l’approccio dell’intermedia agenda (McCombs 2005) e della networked agenda (Vargo 2018) – l’obiettivo dello studio è verificare se la presenza della Chiesa nel coverage giornalistico e nel dibattito sui social media mostri dinamiche di convergenza fra le diverse agende mediali e/o se emergono divergenze in considerazione dei processi di disintermediazione (Chadwick, 2013) e del fatto che il dibattito pubblico è oggi l’esito dell’agency comunicativa di una molteplicità di attori diversi (Bentivegna, Boccia Artieri 2021). L’ipotesi da cui lo studio muove è che la Chiesa cattolica sia legittimata a intervenire in presenza di questioni particolarmente controverse e sulle quali le viene riconosciuta una issue ownership (Petrocik 1996), in maniera trasversale sui diversi media analizzati (convergenza). Allo stesso tempo, però, si ipotizzano divergenze su temi e questioni specifiche dovute soprattutto alle diverse logiche mediali e all’attività di attori che attraverso i social media riescono a “imporre” temi altrimenti ai margini del dibattito pubblico mediale. Per testare le ipotesi di ricerca sono stati raccolti tutti gli articoli pubblicati da dieci tra i principali quotidiani italiani in formato cartaceo, digitale e online-only e tutti i post pubblicati su Facebook dal 2015 al 2019 che contenevano almeno una di una lista di parole chiave relative alla Chiesa cattolica. In totale, sono stati raccolti 107.136 articoli e 1.037.026 post Facebook. I due corpora sono stati poi sottoposti ad analisi del contenuto (topic modelling). Confermando le ipotesi di partenza, i risultati suggeriscono una sostanziale convergenza di agenda sui principali temi sui quali la Chiesa cattolica è chiamata a intervenire, ma una maggiore enfasi su Facebook di aspetti scandalistici e di contenuti di fede che non trovano altrettanto spazio sulle pagine dei quotidiani. . Traiettorie narrative. Rappresentazioni mediatiche degli abusi sessuali nella chiesa cattolica in Italia Stefano Sbalchiero, Università di Padova Piermarco Aroldi, Università Cattolica del Sacro Cuore Giuseppe Giordan, Università di Padova Il fenomeno degli abusi sessuali sui minori all'interno della chiesa cattolica (Béraud, 2021; Blasi & Oviedo, 2020) ha guadagnato crescente rilevanza nel dibattito pubblico negli ultimi anni. Se, da un lato, la società contemporanea mostra una crescente attenzione alla tutela dei diritti umani specialmente quando si tratta di abusi su individui vulnerabili come i minori, dall’altro lato la crescente consapevolezza dell'opinione pubblica su casi di abusi ha portato ad un maggiore interesse mediatico e a una discussione più ampia su questa problematica. La reazione delle opinioni pubbliche nel "mondo cattolico" è stata particolarmente significativa, poiché ha portato a una riflessione critica sul ruolo dell'istituzione cattolica e sulla sua gestione di tali casi ponendo interrogativi sulle responsabilità delle autorità ecclesiastiche, sulla trasparenza delle indagini e sulle misure adottate per prevenire abusi futuri. Ciò ha contribuito a ridefinire il ruolo della chiesa cattolica in vari contesti sociali e culturali, alimentando un dibattito profondo sulla necessità di riforme e cambiamenti sostanziali all'interno dell'istituzione religiosa. In questo contesto, la trasformazione dei casi di abusi sessuali sui minori all'interno della chiesa cattolica in scandali nazionali (Thompson, 2000; Blic & Lemieux, 2005) è stata facilitata dalla divulgazione delle testimonianze delle vittime, unita alla percezione di un presunto insabbiamento da parte delle autorità ecclesiastiche, suscitando indignazione e partecipazione pubblica al dibattito che i media hanno contribuito a veicolare ed articolare. All’interno di questa cornice, il paper si propone di analizzare le rappresentazioni del fenomeno in alcuni quotidiani italiani (Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire), sia dal punto di vista quantitativo (più di 500 articoli rilevati tra il 2018 e il 2023), sia in una prospettiva analitica quanti-qualitativa focalizzata all’estrazione automatica dei contenuti (Sbalchiero, 2018). Il percorso di analisi dei dati testuali (Lebart et al., 1998) adottato si configura non solo come uno strumento utile per gestire grandi quantità di testi ma anche come un valido approccio per superare i limiti intrinseci di un'analisi qualitativa e manuale dei contenuti. I risultati inerenti i processi di tematizzazione e rappresentazione del fenomeno evidenziano differenti traiettorie narrative, e relative strategie comunicative, caratterizzanti le diverse testate e che vanno da un approccio meramente descrittivo dei casi a quello istituzionale e protettivo, passando per un approccio maggiormente critico che valorizza, per l’appunto, la dimensione dello scandalo sulle altre. . Contestare il Papa: la polarizzazione del dibattito online sulla “Chiesa di Bergoglio”. Un caso di studio Alessandra Vitullo, Sapienza Università di Roma Negli anni più recenti, numerose ricerche si sono occupate di studiare la presenza mediatica di Papa Francesco. Le particolari capacità espressive del Papa, unite alla sua visibilità, hanno contribuito a renderlo una vera e propria “celebrità”, facendogli guadagnare diversi soprannomi, tra cui: “selfie pope”, “rock star pope”, oppure “il Papa come social network”. L’eccezionale attenzione mediatica verso il Papa è chiaramente legata anche ai temi che la Chiesa di Bergoglio ha messo in evidenza durante il suo pontificato. Una Chiesa proiettata più verso le periferie, che verso la centralità dell’istituzione, che a volte lo espone a violente critiche da parte dei gruppi più tradizionali del cattolicesimo. Le principali critiche contro il Papa si basano, infatti, sulla sua mancanza di chiarezza dottrinale e sulla perdita di integrità del suo ruolo, a causa di alcune pratiche e messaggi poco ortodossi, che si ritiene mal rappresentino l’istituzione vaticana. Alcuni degli episodi controversi più recenti includono la benedizione del Giovedì Santo del 2022, durante la quale Bergoglio ha lavato e baciato i piedi di alcuni detenuti, l’uso del copricapo indigeno durante la visita in Canada, il permesso della Comunione - in circostanze specifiche - per i divorziati, o l'apertura del Sinodo alle donne. Negli ultimi anni, le polemiche contro Bergoglio hanno raggiunto toni estremamente duri all’interno della stessa comunità cattolica, ed è soprattutto negli Stati Uniti che i gruppi cattolici conservatori hanno trovato un’ampia risonanza mediatica. Sebbene il dibattito tra l’ala conservatrice e quella liberale all’interno del cattolicesimo - in particolare - e nel mondo cristiano - in generale - sia studiato da tempo, ancora poche ricerche esistono su come questo dibattito si articoli oggi a livello mediatico. Questo contributo, tramite l’analisi di uno specifico caso di studio, vuole offrire una ricostruzione di come alcuni gruppi cattolici statunitensi utilizzino attivamente siti web e pagine social per contestare pubblicamente la leadership di Papa Francesco. Attraverso l’analisi delle reazioni ad un tweet pubblicato nel 2021 dalla Pontificia Accademia per la Vita (PAV), verranno evidenziati i temi e le strategie comunicative che caratterizzano la comunicazione di questa parte del mondo cattolico. L’account Twitter della PAV è stato scelto come oggetto di analisi perché attraverso il suo lavoro, l’Accademia affronta alcune delle questioni più controverse all’interno delle diverse correnti del cattolicesimo, come l’aborto, l’eutanasia e altre questioni bioetiche. Risulta evidente, dunque, come l’alta sensibilità dei temi trattati dalla PAV, la espongono facilmente a dure controversie online e analizzare le reazioni a uno dei suoi tweet che ha ricevuto più interazioni fino ad oggi, permette di osservare più in generale alcune delle dinamiche, dei linguaggi e degli attori, che caratterizzano, l’attuale opposizione cattolica al pontificato di Bergoglio. . Safe soundscapes: come le podcasters femministe e cristiane agiscono sulle regole del sentire religioso Alberta Giorgi, Università di Bergamo Gli studi sulla digital religion e quelli che mettono a fuoco il rapporto tra religione e genere mostrano come i social network e, più in generale, gli spazi digitali facilitino l’emersione di contro-pubblici religiosi, che decostruiscono e mettono in questione i regimi di genere consolidati all’interno delle comunità e tradizioni religiose e che pongono una sfida alle autorità religiose tradizionali e istituzionali. In particolare, gli spazi digitali risultano essere luoghi d’elezione per la costruzione di network, per la circolazione di discorsi e per la visibilità del femminismo religioso, all’interno come all’esterno delle comunità religiose. Diversi studi, tuttavia, mostrano come le logiche socio-tecniche connesse ai social network possano favorire l’emersione e la diffusione di versioni del femminismo incentrate sull'empowerment piuttosto che sul cambiamento strutturale. Corrina Laughlin (2021) parla, in questa direzione, di “popular parochial feminism”, riecheggiando il concetto di “popular feminism” proposto da Banet-Weiser (2018). Il presente contributo analizza i risultati di una recente ricerca condotta con 17 podcasters femministe/i e cristiane/i in Europa e Nord America per esplorare l’interconnessione tra le specifiche affordances dei podcast e il tipo di discorso sul femminismo e sul suo rapporto con la religione che viene proposto attraverso questo strumento. La selezione delle persone da intervistare si è basata su una scelta ragionata – cercando, sia sulle principali piattaforme sia attraverso diversi motori di ricerca, podcast che si auto-identificassero, nel titolo o nella descrizione, come religiosi e femministi, mettendo l’accento su entrambe le dimensioni identitarie. I podcast sono di diverso tipo – in generale, gli episodi costruiscono paesaggi sonori emozionali in cui si discutono questioni estremamente diverse tra loro, dalla sessualità al management, dalle teologie queer alla violenza. Sebbene dalle interviste emergano diversi significati e comprensioni del femminismo, tutte evidenziano la volontà delle intervistate di rivendicare la religione - e di reclamare l'autorità per poter parlare di religione. Il quadro teorico combina l’attenzione alle specifiche affordances dei podcast con la letteratura sulle regole del sentire, mettendo a fuoco due interconnessioni specifiche. In primo luogo, l'autorità degli e delle host si fonda sulle loro narrazioni emotive in prima persona, sull'autenticità che trasmettono attraverso le emozioni, sulla loro empatia e sulle emozioni che circolano nella conversazione (cfr. Jorgensen 2021). In questo senso, il messaggio è incorporato nelle emozioni, che ne garantiscono la rilevanza: anche se si può essere intellettualmente in disaccordo con ciò che viene detto nel podcast, le emozioni non possono essere negate e funzionano come terreno comunicativo - come ponti tra host e audience, attivando emotional echo-chambers (Eslen-Ziya 2022; Swiatek 2018). Questo aspetto è particolarmente rilevante per le comunità religiose, nelle quali empatia e voce giocano un ruolo cruciale. L'attività delle/i podcaster cristiane/ può essere interpretata anche come una forma di audibility activism, in quanto ridefinisce cosa sia una voce religiosa autorevole in termini di genere e tonalità (Copeland 2022). In secondo luogo, i podcast conversazionali sono spazi in cui le emozioni vengono convalidate. Da questo punto di vista, l’analisi mette in luce come l’intimità e le emozioni che caratterizzano la pratica del podcasting non solo contribuiscano alla costruzione di counter-publics che propongono discorsi alternativi a quelli più diffusi o istituzionalizzati nelle comunità religiose in relazione ai temi legati al genere e al femminismo: i podcast emergono come dei veri e propri safe soundscapes all’interno dei quali sperimentare regole del sentire alternative, ampliando le emozioni culturalmente appropriate (e richieste) nel contesto religioso (Hochschild 1983; Ahmed 2004). Questi paesaggi sonori sono infatti spazi sicuri in cui i "religious misfits" (Peterson 2022) possono sperimentare un senso di appartenenza all’interno del quale le identità femministe e religiose non sono trattate come un problema. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 6: Giovani e generazioni Luogo, sala: Aula VI Chair di sessione: Marco Pitzalis |
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Il prezzo dell’emigrazione. Dinamiche e conseguenze dei ricongiungimenti minorili Università di Torino, Italia Il contributo rifletterà su un momento cruciale del percorso migratorio dei minori, ossia quello del ricongiungimento familiare. Un aspetto decisivo per molti minori, soprattutto quando avviene dopo anni di separazione in scenari, come quello italiano, in cui la salienza dei processi di ricongiungimento familiare è ancora significativa. Il tema è peraltro di particolare rilevanza in Italia, dove sono numerose le catene migratorie al femminile. In esse le madri rappresentano le breadwinner familiari e spesso riescono a richiamare figli e coniugi solo dopo anni di distanza. Inoltre, l’inserimento nel mercato del lavoro nel settore dei servizi alla persona condiziona i tempi di vita, così come quelli dello stesso ricongiungimento (Crawley et al. 2023). Grazie a contributi di ricerca qualitativi (interviste, focus group e osservazioni etnografiche) raccolti nell’arco di dieci anni in Piemonte su un campione casuale di oltre 150 children left behind provenienti da Sud America, Nord Africa e Filippine, si metteranno a confronto le pratiche e gli obiettivi delle madri (investimenti economici, emotivi, di capitale sociale) con le attese e le reazioni all’arrivo dei figli. Da un lato, quindi, le aspettative di offrire un ambiente di crescita e miglioramento socio-economico, dall’altro la delusione di sentirsi parte di una categoria (quella di figli immigrati) non ben accolta e considerata solo funzionale alle posizioni meno qualificate nel mercato del lavoro (Ricucci 2021). Nell’analisi della prospettiva dei figli, una speciale attenzione sarà dedicata alle ragazze. Infatti, fra i risultati più significativi si annoverano le polemiche rispetto all’integrazione subalterna delle madri ed alla scoperta della situazione socio-economica ed abitativa spesso poco edificanti o attese. Ma anche alle richieste di performances scolastiche cui le madri sottopongono i figli e le figlie per dimostrare il successo della decisione di migrare. Fa da contraltare il confronto con una parte della società italiana che considera (ancora) i figli delle migranti, ed in particolare le figlie, come destinate a sostituire le madri nei lavori di assistenza o poco-qualificati in generale. Reaction videos, modelli sociali e stereotipi di consumo nella prospettiva delle narrazioni generazionali Università LUMSA, Italia La presentazione proposta relaziona i risultati preliminari di un più ampio lavoro di ricerca che ha a oggetto le principali forme di manifestazione dei cosiddetti video di reazione (reaction videos, RV) e le motivazioni della loro visione. Il successo di tale variegato genere è qui considerato come fenomeno peculiare connesso alla diffusione delle piattaforme digitali basate sulla distribuzione di contenuti visuali. In particolare la presentazione si concentra sugli aspetti identitari delle narrazioni relative alla visione di RV prodotte dal confronto intergenerazionale tra gli spettatori/utenti (Colombo et. al., 2012, Aroldi e Colombo, 2013). Tali aspetti sono stati indagati attraverso l’analisi tematica delle interazioni prodotte all’interno di 6 focus group da soggetti sottoposti alla visione di RV selezionati. I partecipanti sono stati selezionati in modo che in ogni focus group fossero coinvolti tre persone under 40 e tre persone over 40, per un totale di 36 partecipanti residenti in Italia, di cui 18 persone di sesso maschile e 18 di sesso femminile. Ai soggetti coinvolti è stato conseguentemente chiesto di descrivere liberamente i contenuti visualizzati e la loro esperienza di visione. Nelle risposte dei partecipanti è riscontrabile una consapevolezza spontanea e intergenerazionale rispetto una possibile genealogia dei RV che li legata a forme estetiche dei media tradizionali (come, ad esempio, candid camera e quiz televisivi); origine per altro ampiamente descritta dalla letteratura in materia nell’ottica della rimediazione (Bolter e Grusin, 1999; Golding, 2019; McDaniel, 2020; Bliss, 2023; Goddard, 2023). Nonostante questo processo di familiarizzazione sia esplicitato da soggetti appartenenti a generazioni diverse, emergono anche aspetti prettamente generazionali delle narrazioni dei partecipanti. I partecipanti over 40 esprimono infatti una valutazione del lavoro dei creator, considerati cercatori del successo facile e operatori economici subliminali, che nascondono dietro la forma estetica del reaction video pratiche di influencer marketing. Nelle parole dei partecipanti emerge dunque la preoccupazione che i video di reazione costituiscano un’ esperienza rischiosa per gli utenti più giovani, sia rispetto alle conseguenze sui loro modelli aspirazionali, sia rispetto alla loro supposta incapacità di esercitare un senso critico nel consumo di tali contenuti. I partecipanti più anziani si ergono dunque a interpreti degli scopi impliciti di questi video che l’outgroup non sarebbe in grado di identificare. Inoltre, si riscontra spesso una seconda dinamica, complementare rispetto alla prima: gli over 40 mettono in campo un meccanismo di difesa rispetto al confronto con i contenuti proposti. Attribuendo a essi mancanza di profondità, i partecipanti over 40 dichiarano di non comprenderne del tutto il significato. Emergono qui in maniera più netta non solo gli stereotipi verso il mondo dei giovani, ma anche i meccanismi di self-ageism in relazione all’utilizzo delle tecnologie di comunicazione digitale (Bodner, 2009; Barrie et al., 2021; Kania-Lundholm, 2023). Le narrazioni dei partecipanti under 40 oscillano invece tra l’assenza di una percezione di pericolo e una consapevolezza dei meccanismi dell’economia dei creator spesso rivendicata come maggiore di quella loro attribuita dall’out-group (gli over 40). I più giovani rivendicano una capacità critica nei processi di interpretazione (sense making) e di consumo dei RV. Gli under 40 in particolare sottolineando le diversità o caratteristiche specifiche dei differenti tipi di RV e descrivono specifiche forme di appropriazione dei RV nei contesti mediali da loro ritenute quantomeno legittime. La reputazione onlife dell’identità giovanile islamica in Italia. Fra pratiche e contro-narrazioni di stereotipi 1Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute; 2Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali La relazione analizza le modalità attraverso cui le seconde generazioni di giovani musulmani italiani ristabiliscono la propria reputazione, sia negli spazi fisici che digitali, in relazione alla propria identità religiosa, che viene associata da una parte della società a falsi stereotipi di fanatismo religioso, terrorismo e misoginia. Nella platform society (Van Dijck, Poell, De Waal 2018), come ormai viene definita la società di oggi, ogni fenomeno sociale viene vissuto in maniera ibrida, fra spazi online e offline (onlife) (Floridi 2015), all’interno dei quali si sviluppano dinamiche e processi distinti e allo stesso tempo fortemente intrecciati fra loro. Emerge nella sua rilevanza la questione sociale della reputazione e della web reputation, un problema sempre più sentito dalla popolazione e maggiormente al centro degli studi sociologici, in quanto può costruire e decostruire interi scenari collettivi, modificando e mettendo in discussione anche in maniera repentina gli agenti normativi, i sistemi di valore e le pratiche consolidate in una determinata società (Conte, Paolucci 2002; Mutti 2007). Nell’infosfera, così come definita da Floridi (2017), ogni identità è interconnessa e interdipendente, le informazioni sono largamente accessibili e potenzialmente manipolabili tanto da rendere i soggetti vulnerabili nella loro reputazione pubblica. Nel contesto italiano, le seconde generazioni di musulmani, in quanto minoranza religiosa, sperimentano il problema della reputazione sociale rispetto alle discriminazioni e agli atti diffamatori vissuti nella loro quotidianità e alla diffusione di stereotipi negativi sull’identità e la cultura islamica (Savonardo, Marino 2021). Tali pregiudizi investono la vita quotidiana dei giovani e delle giovani credenti sia nel mondo offline che in quello digitale, incontrando fake news e narrative stereotipate dove è sempre più complesso riuscire ad avere un controllo o quantomeno un contenimento della gravità delle diffamazioni, accuse e offese (Ciftci 2012; Ogan et al, 2014; Crescenti 2023). Fra le varie esperienze che producono attrito e tensione nella minoranza giovanile si riscontrano fenomeni di razzismo e islamofobia, la quale sembra particolarmente diffusa e, secondo le stime, in continua crescita (Ciocca 2019; Galindo-Calvo et al. 2020). In risposta a tali problematiche, l’associazionismo giovanile diventa una forma di socializzazione, di solidarietà interna e di supporto per affrontare le sfide quotidiane incontrate nella sfera pubblica (Frisina 2007; Crescenti 2023). Non solo ragazzi e ragazze membri delle associazioni si attivano in modalità pratiche, attraverso la realizzazione di eventi, convegni, manifestazioni negli spazi fisici, ma anche nei social networks, dove mediante immagini, video e post definiscono la propria identità religiosa decostruendo i falsi modelli identitari (Premazzi, Ricucci 2015; Khamis 2021; Nadim 2023). Tali riflessioni si sviluppano a partire da una ricerca empirica (2021-2023) che ha coinvolto 17 giovani musulmani maschi e femmine fra i 18 e i 30 anni di età dell’associazione Giovani Musulmani d’Italia (GMI), la più numerosa e diffusa a livello nazionale. L’indagine si è basata su una metodologia mista qualitativa (Amaturo, Punziano 2016) che ha previsto 17 interviste semi-strutturate individuali ai membri di tale associazione, tutti con un ruolo attivo in qualità di esperto di comunicazione, presidente di sezione, etc., e l’osservazione di immagini, video e post delle pagine Facebook e Instagram del GMI. Mediante le interviste sono state analizzate le strategie attraverso le quali i soggetti presi in esame recuperano negli spazi fisici e digitali la propria reputazione in relazione all’identità religiosa; e più in particolare, con l’etnografia digitale sono state indagate le modalità propriamente digitali (immagini, video, post) con cui i giovani consolidano la propria reputazione decostruendo gli stereotipi negativi. Futuro e trasformazione sociale: una ricerca sulla generazione di giovani membri delle BCC Università Roma Tre, Italia La velocità dei tempi e dei mutamenti rendono sempre più impellente l’attesa del futuro e la sua organizzazione, la cui previsione non è più affidata «agli indovini e ai ciarlatani» ma alla ricerca scientifica (Rizza 2003). La sociologia non può disinteressarsi del futuro della società (Bell, Mau 1971) in cui vive e accettare che il sistema sociale e le istituzioni rimangano statiche e immobili. Viviamo in un tempo di grandi cambiamenti, di svolte brusche (Mannheim 1928), che hanno messo in crisi i modelli sociali e comportamentali che necessitano ora di un impegno attento a prendere inconsiderazione la dimensione temporale futura. Con il cambiamento delle condizioni storico-sociali si è assistito a una contestuale metamorfosi dei processi culturali che organizzano la società e che hanno portato alla necessità di guardare al futuro adottando nuove paradigmi socio-culturali (Bourdieu 2002). Tra i diversi approcci multidimensionali focalizzatisi sull’essenzialità di ogni persona e dei sistemi culturali vi è il capability approach (Sen 1999), che evidenzia l’importanza della persona come soggetto attivo capace di prendere decisioni e di attuare trasformazioni socio-culturali in chiave intergenerazionale (Alkire 2007). Tale processo presuppone una società inclusiva e la partecipazione attiva di ogni persona: tra le varie crisi, infatti, quelle della partecipazione e della democrazia stanno comportando conseguenze importanti in ogni ambito della società e necessitano di attenzione (Bentivegna, Boccia Artieri 2021; Ortiz et al. 2022). La partecipazione assume contestualmente una rilevanza intrinseca e una strumentale, come mezzo per il benessere. Diverse ricerche dimostrano quanto la partecipazione in vari ambiti della vita contribuisca a migliorare il benessere in termini materiali e immateriali, considerando il benessere come uno stato delle persone legato al raggiungimento di funzionamenti presenti e futuri (functioning), scegliendo quelli più adeguati alla propria vita (capabilities) ed essendo agenti attivi del cambiamento (agency) (Ardigò 1980; Welzel, Inglehart 2010; Moro, Sorice 2022). Adottando l’analisi di Mannheim, il presente contribuito si propone di mostrare i risultati di una ricerca empirica condotta nel 2022 volta a studiare la generazione di giovani membri delle Banche di Credito Cooperativo (BCC) italiane. In particolare, sono state considerate due unità generazionali, il Laboratorio Giovani Soci della BCC di Roma e il Comitato Giovani Soci della BCC di Forlì, Imola, Ravenna, nati con l’obiettivo di avviare nuovi processi culturali all’interno dell’organizzazione e una nuova trasformazione dando concretezza al principio di democraticità tipico del movimento cooperativo, promuovendo la partecipazione dei/delle giovani del territorio e valorizzandoli come risorsa trasformativa per il futuro. Considerando le gioventù e le generazioni come quelle forze rivitalizzanti capaci di contribuire al rafforzamento del legame tra dinamica generazionale e processi di mutamento (Mannheim 1928; Gili 2017), gli obiettivi principali della ricerca sono stati: studiare le caratteristiche della partecipazione all’interno dei due gruppi di giovani; verificare il possibile impatto sul benessere immateriale dei giovani considerati in termini di felicità, uguaglianza, solidarietà, responsabilità e fiducia; verificare il possibile ruolo assunto dalla generazione di giovani membri come risorsa trasformativa capace di creare un nesso inter e intragenerazionale. La metodologia utilizzata è stata mista, in un ordine ora concomitante ora sequenziale: dopo un’analisi di sfondo dei dati secondari, la narrazione qualitativa ha previsto interviste a Testimoni di Primo (Responsabili) e di Secondo livello (Giovani membri) (Bichi 2002), l’osservazione partecipata e un focus group; la narrazione quantitativa ha previsto la somministrazione di un questionario (Tashakkori, Teddlie 1998; Caselli 2005). I risultati della ricerca dimostrano che, nonostante l’importanza intrinseca e strumentale della partecipazione, essa rappresenta ancora una sfida per le BCC e assume caratteristiche particolari con intensità e forme differenti. Da ciò spesso dipende il raggiungimento del benessere e il ruolo che la generazione giovani può assumere nella trasformazione sociale, all’interno delle BCC e non solo. Credere altrove. Dinamiche e processi di religiosità in emigrazione Università di Torino, Italia Come altri paesi europei, a partire dalla seconda metà del XX secolo l’Italia ha vissuto profondi mutamenti nella sua composizione demografica, diventando sempre più un contesto multiculturale. La storica monoconfessionalità, con il predominio del cattolicesimo romano e la sopravvivenza di piccole minoranze percepite come enclaves isolate, quando non perseguitate, ha lasciato il posto a un campo religioso plurale, dove il cattolicesimo è solo una componente della gamma confessionale con cui il credente può, legittimamente, confrontarsi. In questo contesto, le migrazioni hanno giocato un ruolo fondamentale, portando nuova vitalità e rilevanza alla religione nella società italiana. Se, nell’ampio dibattito sul futuro della religione e sui processi di secolarizzazione nelle società occidentali, la trasmissione religiosa intergenerazionale in famiglia è uno degli aspetti sinora meno considerati, le dinamiche di trasmissione religiosa in atto nelle famiglie di origine straniera sembrano essere poco indagate, soprattutto in Italia. Assunta come un’esperienza dirompente, in cui i riferimenti quotidiani, gli habitus e i valori culturali e religiosi di una persona sono messi a dura prova dal cambiamento repentino di ogni aspetto della vita quotidiana, la migrazione può fornire preziosi spunti comparativi che ampliano l’analisi dedicata ai gruppi autoctoni. Agendo da specchio, le esperienze dei residenti con background migratorio e dei loro discendenti aiutano a cogliere con maggiore profondità gli aspetti intrinseci alle società europee, tra cui quella italiana. Se la trasmissione intergenerazionale sembra fallire soprattutto nei paesi europei a maggioranza cattolica e protestante, che cosa avviene alle famiglie immigrate, religiosamente diverse e di più recente insediamento? Quale ruolo svolgono l’esperienza migratoria, le eventuali difficoltà d’inserimento nella società d’accoglienza (nei contesti scolastici, lavorativi, nei gruppi amicali), l’improvviso venire meno del contesto culturale e cultuale di riferimento, l’allontanamento dalla più ampia rete famigliare di origine? Se le comunità e i luoghi di culto nati dall’immigrazione hanno garantito rifugio, rispetto e risorse alle prime generazioni, diventando il punto di riferimento per l’accoglienza, l’orientamento e l’inserimento socio-culturale e professionale, per l’espressione religiosa e il recupero di costumi, tradizioni e valori, quale percezione ne hanno e quale funzione svolgono per le seconde e terze generazioni? In tale cornice, il presente contributo mira a ricostruire le dinamiche di socializzazione religiosa (o meno) dei giovani nel contesto delle famiglie con background migratorio in Italia, con particolare attenzione alle tre principali confessioni presenti nel paese: il cattolicesimo, l’islam e l’ortodossia. Tra le domande fondamentali che costituiscono l’obiettivo primario dell’indagine: i) come avviene (o come non avviene) la trasmissione della fede, dei valori e delle visioni del mondo all’interno delle famiglie e tra le generazioni? ii) nei contesti migratori, quali sono i principali fattori che influenzano il processo di trasmissione intergenerazionale e come cambia – se cambia – il modo di essere religiosi? iii)quale ruolo svolgono l’esperienza o il background migratorio sulla trasmissione religiosa nelle prime, seconde o terze generazioni? iv) quali differenze e, all’opposto, quali pattern condivisi emergono dalla comparazione tra le pratiche delle famiglie di origine straniera e italiana? La ricerca è parte di un’indagine internazionale che ha coinvolto cinque paesi: Italia, Canada, Finlandia, Germania e Ungheria. Condotta in ottica comparativa, con l’adozione di metodi qualitativi (interviste semi-strutturate e in profondità, focus groups in diverse regioni italiane), la ricerca ha coinvolto testimoni privilegiati (ministri di culto, rappresentanti di organizzazioni religiose con background migratorio) e un campione di famiglie, selezionate per territorio di residenza e religione di appartenenza. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 7: Comunicazione politica Luogo, sala: Aula VII Chair di sessione: Sara Bentivegna |
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What does Italian political fandom look like? 1Università degli Studi di Bergamo, Italia; 2Università degli Studi di Perugia, Italia The interplay between celebrity culture and political engagement has become a focal point of contemporary political discourse, particularly within the context of Western democracies. This synthesis explores the emergence and impact of political fandoms, a phenomenon resulting from the interloping of celebrity and politics. Drawing from an extensive analysis of the literature on "celebrity politics", characterized by high-visibility politicians leveraging the mechanisms of fame to gather consensus, and on social media affordances, the proposed work seeks to delineate the evolution of political celebrity phenomena as candidates adapted their digital personae to widespread social media use. In particular, the proposed work seeks to shed new light on the role of affect-based mechanisms in shaping how the public interacts with celebrity politicians on social media. Politicians increasingly engage in celebrity-like performances to construct a relatable and attractive public persona. In turn, many political supporters have started to act like fans of their preferred candidate engaging in behaviours resembling those of fans of entertainment or sports celebrities. The proliferation of social media platforms such as Instagram and TikTok has paved the way for the construction of a new social space, where fan communities (or fandoms) can express their (negative or positive) feelings for political celebrities and even mobilize to support the politician outside the digital realm. In a nutshell, with the spread of social media the lines between celebrity fandom and political activism have increasingly blurred. Our research starts from the following question: What are the main features of political fandom online? How is it different from communities of “traditional” political activists? Based on current theoretical understandings of political fandom (Dean, 2017; Sandvoss, 2013), we hypothesize that the defining characteristic of political fandom is the emotive attribute that permeates fan content, setting it apart from more traditional forms of political engagement which may rely on ideological commitment or rational deliberation. To examine this hypothesis, the research will unfold in two distinct phases. First, a theoretical reflection will delve into the existing literature on the relation between fandom and social media affordances. In particular, we will look at the foundational element that affect seems to be for both fan-like performances and social media interactions. That is, we are interested in exploring how affect-based mechanisms are articulated into the political spaces of digital spheres (Papacharissi, 2015). The second phase will include an empirical focus as we seek to map the fandom content related to international political leaders on social media platforms, specifically Instagram and TikTok. This phase aims to use visual (Kress & Van Leeuwen, 2006) and multi-modal (Kress, 2013) methods of analysis to categorize fan content. Hence, our final aim is that of identifying emotional cues, thematic concerns, and how the exploitation of social media affordances allows political fans to channel their affectivity. Through this analysis, the research seeks to provide a nuanced understanding of the state of fan activities in the Italian digital mediascape. This investigation promises to set a foundational pillar to help researchers develop more nuanced classifications of content produced by political fans in Italy. Moreover, this work can provide insights into the complex dynamics that govern the relationships between political figures as celebrities and their diverse fan bases. In conclusion, by articulating the emotional dimensions that underpin political fandom, the study aims to shed light on the evolving nature of political engagement in the digital age, highlighting the potential of fandom as a form of participatory culture that may shape future forms of political activism. The Brazilian Digital Battlefield: Investigating The Dynamics Of Political Information Campaigns In Post-Bolsonaro Era Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia The 2022 Brazilian presidential elections, marked by intense polarization and widespread online misinformation, culminated in an attempted coup on January 8, 2023, post-elections (Bastos & Recuero, 2023; Rennó, 2022). Amidst the contentious tenure of far-right President Jair Bolsonaro, characterized by his anti-vaccine campaign, religious politicization, land grabbing, and Amazon deforestation for mining, Lula narrowly won the presidency. Despite this political transition, attacks on democratic principles persist (Chaguri & Amaral, 2023; Recuero et al., 2022). The rise of social media, particularly Facebook, as a primary news source in Brazil has facilitated the spread of misinformation, correlating with the growth of far-right ideologies and sustained problematic content beyond election periods (Rossini et al., 2021; Recuero et al., 2022). Our study focuses on the evolution of Facebook misinformation campaigns in Brazil following recent political shifts. We examine the nature, dissemination methods, and networks involved in spreading potentially problematic information, guided by François' ABC framework (2020). Our key research questions are: RQ1: Identifying the main actors in the misinformation network. RQ2: Investigating the dissemination techniques used. RQ3: Analyzing the types of content spread. Data and Methods Within a European disinformation analysis project, we developed a system to detect and highlight coordinated sharing of links by known purveyors of misinformation on Facebook (Giglietto et al., 2022; Giglietto et al., 2023). This system revealed a pattern of coordinated sharing related to Brazilian politics. Over three months, from October 9, 2023, to January 8, 2024, we analyzed 2,710 links. We constructed a network graph of accounts sharing these links in coordination, filtered to include those with significant interaction, and identified 62 communities using a modularity algorithm. The analysis employed a mixed methods approach, combining quantitative data with qualitative insights based on François' guidelines for studying viral deception (2020). Findings Our study identified two distinct networks of political Facebook groups: one with 54 pro-Bolsonaro accounts and another with 49 pro-Lula groups. The pro-Bolsonaro groups often bear names associated with Bolsonaro, his party, and far-right figures like Carla and Bruno Zambelli, reflecting shifts in Brazil's political scene. Conversely, pro-Lula groups, opposing Bolsonaro, typically feature names that reference Lula or the Workers' Party and criticize far-right politics. Links found in both clusters are mainly from Folha de S. Paulo and UOL (a Brazilian web content, one of the largest websites in Portuguese), both belonging to Grupo Folha, the second giant mass media conglomerate based in the country. In the pro-Lula cluster, we also observed links from O Globo, from Grupo Globo, the most prominent Brazilian mass media conglomerate. However, Facebook URLs were found in both groups, showing that native content is widely shared between groups. During our investigation, we identified peculiar sharing behavior: also pro-Bolsonaro spaces are often occupied by Lula supporters. In fact, Lula supporters repeatedly share part of the above-mentioned content criticizing or mocking Bolsonaro, his family members, and his supporters within pro-Bolsonaro groups (Figure 3). The predominant themes of these posts are political critiques. These posts often receive a substantial number of comments and a minor number of reactions and shares. The presentation will delve deeper into these findings, contextualizing them within theoretical and socio-political frameworks. La crisi dell’immaginario democratico. Come gli immaginari sociali alimentano il malessere democratico Università di Bologna, Italia Nel corso degli ultimi decenni, studiosi di varie discipline si sono ampiamente dedicati alla crisi della democrazia liberale, esplorando fenomeni quali la crescente disaffezione della popolazione, la crisi dei partiti, l'astensionismo, la polarizzazione e l'erosione della fiducia, al punto da arrivare a parlare di “malessere democratico” (Kupchan, 2021; Di Gregorio, 2021) Nonostante siano state avanzate diverse ragioni per questa crisi, una prospettiva di analisi finora trascurata e che potrebbe arricchire la nostra comprensione è quella degli "immaginari sociali" e del ruolo che svolgono nel perpetuare e intensificare tale crisi. Questo articolo sostiene che gli immaginari sono un elemento cruciale, ma spesso trascurato, per comprendere il malessere democratico e, di conseguenza, per intervenire efficacemente su di esso. Per sostenere questa tesi, mi baso sulle opere dei principali teorici dell'argomento (Ezrahi, 1990; Anderson, 1991; Castoriadis, 1997; Taylor, 2004; Ezrahi, 2012; Jasanoff, 2015). Sostengo che l'immaginario sociale, con la sua natura produttiva, collettiva, normativa e plurale, risulti un concetto più utile di altri potenzialmente simili, come le folk theories, le ideologie o le narrazioni, per comprendere le difficoltà che i regimi democratici attraversano. Secondo Taylor, gli immaginari sono "le interpretazioni comuni che rendono possibili pratiche comuni e un ampio senso condiviso di legittimità" (Taylor, 2004, p. 24). Lontani dall'essere astratti e distanti dalla realtà fisica, gli immaginari plasmano le convinzioni, le azioni e le routine quotidiane delle persone. Questo è particolarmente evidente in un'epoca caratterizzata dalla complessità e dall'accelerazione sociale (Rosa, 2013), dove la politica simbolica e il pensiero veloce costituiscono euristiche mentali necessarie per dare senso al mondo (Kahneman, 2011). Dopo aver introdotto l’importanza degli immaginari, per spiegare come questi impattino sull’attuale crisi della democrazia liberale introduco il concetto di “crisi dell’immaginario democratico". Questa crisi nasce dalla coesistenza del principio della sovranità popolare, ovvero la convinzione che la fonte di legittimità della politica siano i singoli individui e la loro volontà (Ezrahi, 2012), con tre “immaginari antidemocratici”: l’immaginario tecnocratico, l’immaginario neoliberista, e l’immaginario antipolitico. Questi immaginari, pur non attaccando esplicitamente le elezioni o lo stato di diritto, costruiscono un senso comune che impedisce alla democrazia e al principio di sovranità popolare di funzionare come dovrebbero, rendendo rispettivamente più difficile l'azione politica degli individui, dei collettivi e delle istituzioni. L’immaginario tecnocratico depoliticizza i singoli soggetti suggerendo che le decisioni dovrebbero basarsi su criteri oggettivi piuttosto che su valori umani (Gunnell, 1982). L’immaginario neoliberista sponsorizza un marcato individualismo ed economicismo, aumentando così i costi delle azioni collettive (Brown, 2015). Infine, l'immaginario antipolitico, affermando che la politica è intrinsecamente corrotta, delegittima le istituzioni politiche come partiti, parlamenti e governi (Clarke et al. 2018). La crisi dell’immaginario democratico aiuta così a spiegare come la democrazia liberale possa essere apprezzata come ideale (con il principio della sovranità popolare) pur essendo veementemente contestata nelle sue manifestazioni istituzionali e pratiche (politici, partiti, policy-making, ecc.) (Haerpfer et al., 2022) Questo articolo contribuisce al dibattito sulla crisi della democrazia, fornendo nuove prospettive. Il suo contributo è teorico e mira ad aprire un dibattito che potrà essere approfondito con lavori empirici, finalizzati a esaminare più approfonditamente come gli immaginari antidemocratici siano emersi e come influenzino le pratiche democratiche. L'articolo mira, inoltre, a sensibilizzare sull'importanza di esplorare nuove strade per cambiare gli immaginari antidemocratici, impiegando nuove strategie politiche e comunicative. Femminismo neoliberale e comunicazione politica. Un'analisi dell'agenda e della retorica di Giorgia Meloni sulle questioni di genere. Luiss, Italia Questo contributo vuole esaminare criticamente l'incorporazione di un orizzonte di senso femminista neoliberale nelle strategie discorsive, nell'agenda e nella comunicazione politica di Giorgia Meloni, Primo Ministro italiano e figura di spicco nel panorama politico conservatore di estrema destra. Il femminismo neoliberale può essere descritto come una rilettura del femminismo liberale da una prospettiva individuale e orientata al mercato. Allo stesso tempo, può anche essere letto come discorso egemonico, capace di 'genderizzare' la logica autoimprenditoriale del soggetto neoliberale foucaultiano (1978, 1979) ed estenderla anche all'ambito, privato, della riproduzione sociale. Temi come il merito, l’uguaglianza, la volontà individuale, la messa a frutto dei propri talenti diventano dunque centrali nel contesto di una rimodulazione in chiave individuale dei temi classici del femminismo e nella riaffermazione delle strutture sociali tradizionali (Rottenberg 2013, Prugl 2015, Fraser 2013-2015,Eisenstein 2017,Banet-Weiser 2015-2020, Gill 2017, Cooper 2017). L’analisi qui proposta approfondisce discorsi ufficiali, interventi in convegno, interviste televisive, a quotidiani nazionali e a riviste femminili, per un totale di 25 testi selezionati su un periodo che va da luglio del 2022 a gennaio del 2024. Analizzando la retorica utilizzata da Meloni, caso studio di questo contributo, ci si propone, per un verso, di mettere in luce l'uso strategico del linguaggio femminista neoliberale e dei suoi macrotemi all'interno del quadro politico conservatore degli ultimi tre anni. Per l’altro, di scoprire se l'impegno proclamato rispetto ad alcune tematiche di genere si traduca in iniziative sostanziali, in azioni concrete, o funzioni piuttosto come semplice dispositivo retorico. Se da un lato, infatti, Giorgia Meloni ha reso noto fin da subito di non voler essere, nel suo ruolo istituzionale, portavoce di forti istanze femministe, dall’altro non ha potuto fare a meno di costruire una agenda sui temi di genere. In che modo questa agenda si strutturi, come vengano declinati questi temi, quale vocabolario venga utilizzato per scioglierli, quale sia la loro messa in pratica discorsiva e, soprattutto, quale sia l’ideologia che li informa, è il quesito fondativo di questo contributo. Oltre la barriera: come i Paesi del Golfo puntano a riscrivere la geografia dello sport Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, Italia Per molto tempo il valore culturale, economico, mediatico e politico dello sport è stato sottovalutato. Tuttavia, grazie all’interesse manifestato dai sociologi nei confronti del tema e alla crescente letteratura, anche il fenomeno sportivo sta iniziando ad essere inquadrato come “fatto sociale”, una realtà «che le scienze sociali non possono permettersi di ignorare» (Bifulco, Tirino 2019, p. 9) perché in grado di dire molto sulla società contemporanea e le sue logiche. Lo sport è parte viva del tessuto sociale e costituisce a tutti gli effetti un campo nell’accezione bourdieusiana del termine (Bourdieu 2010); in quanto tale, è chiamato a relazionarsi con moltissime altre sfere sociali tra cui il campo economico e il campo mediatico, ma anche e soprattutto quello politico. Sebbene nel progetto di Pierre de Coubertin lo sport avrebbe dovuto rappresentare un’isola felice da preservare da ogni incursione della politica, e malgrado ancora oggi la Carta Olimpica faccia leva sull’ideale dell’apoliticità, la realtà dei fatti è ben altra. Per Giulianotti (2023) «è assurdo ipotizzare che le due sfere si possano dividere, tenendo la politica fuori dallo sport». Non a caso, infatti, sono sempre di più gli Stati e i governi, per lo più regimi autocratici (Scharpf, Gläßel, Edwards 2022), che ricorrono al fenomeno sportivo come strumento di soft power (Nye 2004). In particolare, i Paesi del Golfo sono tra i più attivi nel settore della diplomazia dello sport (Tosi 2020; Castellini Curiel 2021). Qatar, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e i loro ricchi vicini sono da decenni impegnati in un’opera strategica di riavvicinamento tra Medio Oriente ed Occidente. Nella cultura in generale e nello sport in particolare hanno individuato il mezzo perfetto per oltrepassare le barriere culturali e riposizionarsi sul piano geopolitico internazionale. In quest’ottica possiamo rileggere i grandi investimenti nel panorama sportivo attuale, dagli appuntamenti fissi con il motorsport all’all-in sul calcio, culminato nei Mondiali del 2022 a Doha, che saranno seguiti da quelli del 2030 in terra saudita. In ultima analisi, si tratta di un tentativo neanche troppo camuffato di farsi notare sulla cartina, di riscrivere la geografia dello sport e, con essa, il biglietto da visita dell’intera regione, proiettando verso l’esterno un’immagine nuova e ripulita. Il presente contributo intende prendere le distanze dalla concezione stereotipata dello sport puro e apolitico (Black 2008; Sbetti 2019), ponendo l’accento sullo stretto legame esistente tra i due campi e sottolineando la predisposizione dei massimi esponenti della politica alla strumentalizzazione del fenomeno sportivo per secondi fini più o meno nobili. L’obiettivo dell’autore sarà quello di ripercorrere passo dopo passo l’avvicinamento dei Paesi del Golfo allo sport globale, un processo graduale che li ha portati ad essere stakeholder di assoluta rilevanza per l’industria dello sport spettacolarizzato. Per far ciò, sarà inevitabilmente affrontata la questione relativa allo sportswashing (Masini 2023); perché lo sport e i suoi racconti sanno come costruire ponti e oltrepassare i confini, ma non va dimenticato che tutto ciò si porta dietro alti rischi. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 8: Genere e attivismo Luogo, sala: Aula VIII Chair di sessione: Laura Gemini |
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Violenza di genere online: la responsabilità delle piattaforme digitali nello sguardo consapevole di chi la contrasta. 1Università degli Studi dell'Aquila, Italia; 2Sapienza Università di Roma, Italia In questo paper presentiamo i primi risultati di un progetto di ricerca che indaga criticamente il ruolo delle piattaforme nel riprodurre e/o nel contrastare le diverse forme di violenza di genere online (Segrave & Vitis, 2017), attingendo ad un quadro teorico che considera le tecnologie digitali ed il genere come “categorie intrecciate” (Lerman et al. 2003) ed in un rapporto di reciproca influenza con le strutture sociali e le pratiche culturali. Tale approccio implica una problematizzazione delle “gendered affordance” (Schwartz & Neff 2019) nonché dei meccanismi e dell’economia politica delle piattaforme digitali (Van Dijck et al. 2018), che attingono a repertori sociali e culturali di genere a disposizione di utenti e designer, favorendo così pratiche d’uso violente e misogine, ma anche risorse per la resistenza e l’autodeterminazione delle donne, delle soggettività LGBTQIA+ e di altre comunità emarginate. Nello specifico, in questo contributo illustriamo i risultati emersi da 20 interviste in profondità svolte con portavoce dei centri antiviolenza italiani e delle reti femministe nazionali, impegnatə in iniziative e sperimentazioni di contrasto alla violenza di genere, anche attraverso l’uso di strumenti digitali. L’approccio narrativo ci ha permesso, infatti, di aggregare esperienze personali, stimolare il pensiero riflessivo e generare momenti di apprendimento (Gherardi & Poggio 2009), in una prospettiva emica che ha messo in evidenza, come dimensione analitica prevalente, la consapevolezza deə partecipanti circa le logiche di funzionamento delle piattaforme digitali e, di lì, i limiti e le potenzialità che le caratterizzano rispetto al problema specifico della violenza di genere online. L’analisi tematica delle interviste, infatti, dimostra che la maggior parte deə partecipanti è consapevole circa i pericoli che soprattutto i meccanismi di datafication e curation, nonché le affordance di persistenza e scalabilità comportano, per lo più in termini di surveillance e disinformazione. Alcunə partecipanti rintracciano nel design stesso delle piattaforme dei veri e propri “trigger” di specifiche forme di violenza di genere online, riconoscendo in esso il precipitato “tecnologico” di norme sociali sessiste e credenze culturali misogine. Diversə partecipanti mettono in discussione anche alcune espressioni post-femministe che circolano sui social media, identificandole come “femminismo pop” che può scollegare l’attivismo dalle mobilitazioni fisiche e dalla denuncia strutturale del patriarcato. Non sorprende, dunque, che pur riconoscendo la potenziale inclusività degli spazi digitali, soprattutto quando facilitano il superamento delle barriere fisiche per la partecipazione a momenti di protesta e (in)formazione, alcunə di loro esprimono scetticismo sul fatto di affidarsi completamente ad essi per l’attivismo, tracciando così una linea di demarcazione tra la “piazza virtuale” e i luoghi fisici dell’azione politica dal basso. Sguardi femminili sulla società: B. Gasperini e B. Pitzorno, una narrazione del cambiamento Università degli studi di Cagliari, Italia Domanda di ricerca A partire da due casi studio si vuole analizzare la modalità con cui il cambiamento sociale viene raccontato e promosso. Si vogliono mettere in relazione i lavori di Brunella Gasperini e Bianca Pitzorno che si sono dedicate alla scrittura, alla traduzione, al giornalismo, rivelandosi sapienti conoscitrici degli strumenti di comunicazione per rappresentare la complessità del presente. Hanno sfidato i condizionamenti sociali, promuovendo una maggiore autoconsapevolezza femminile (Gasperini, 1978). Hanno anche affrontato tematiche che sono oggi oggetto dei dibattiti internazionali, come l’animal care (Pitzorno, 2023). Consapevoli della necessità di promuovere modelli sociali innovativi, le loro opere riflettono una profonda comprensione delle dinamiche sociali e dei cambiamenti avvenuti in Italia dal Dopoguerra della Gasperini, alla realtà odierna di Pitzorno. Negli ultimi anni sono mutati il concetto di maternità, le famiglie, il ruolo della donna e i suoi diritti, la relazione con gli animali, i diritti degli animali. Ad accomunarle è il ricorrere al genere letterario della biografia e a uno stesso immaginario simbolico per raccontare momenti che hanno segnato una svolta in Italia sul piano sociale (come il referendum sul divorzio). L’immaginario non verrà inteso solo come oggetto di studio, quanto come una prospettiva di analisi della realtà sociale. L’intento è sia di approfondire il potere che le simbologie hanno di influenzare le percezioni collettive, sia di interpretare questi simboli in base al significato che la società contemporanea attribuisce loro. Il quadro metodologico Sulla base delle letture critiche delle istanze dei movimenti femministi e ambientalisti fatte negli ultimi anni, è fondamentale tenere in considerazione la risonanza che questi hanno nelle opere letterarie. I movimenti sociali hanno avuto risvolti significativi sugli studi letterari, ma in che modo l’apporto della letteratura italiana può essere considerato fondamentale per una nuova analisi del movimento culturale? Negli ultimi decenni l’immaginario sta cambiando verso un punto di vista più paritario e inclusivo. Si vuole ripercorrere il cambiamento del significato attribuito a questi simboli per capire quali sono le attuali funzioni assegnate dalle donne. Si vuole ricorrere a un metodo induttivo: individuare nei testi letterari le funzioni simboliche, per risalire a una rappresentazione universale di esse. Si vuole dimostrare che le pratiche narrative che cambiano la rappresentazione nell’immaginario collettivo, riorientano lo sguardo di chi legge, ispirando nuove simbologie sociali. I risultati e la pertinenza rispetto ai temi della conferenza Queste scrittrici hanno creato un nuovo immaginario collettivo, partendo da una comprensione critica della società e contribuendo attivamente alla formazione di una moderna coscienza civile in Italia. Il lavoro di queste donne rivela una comprensione profonda di dinamiche e fenomeni sociali delicati e complessi e hanno scelto la letteratura come strumento per un “empowerment” collettivo. Dal loro lavoro emerge la necessità di una maggiore interrelazione tra sociologia e letteratura, poiché un uso perspicace degli strumenti di comunicazione può davvero innestare un profondo cambio di prospettive e idee. Si consideri l’importanza della stampa femminile negli anni Sessanta, di cui la penna di Gasperini è tra le più note, diventata il veicolo privilegiato delle nuove idee. Nel ‘68 infatti anche nel suo “Salotto” si respirerà un’atmosfera nuova: lo scopo non sarà più quello di dare risposte taumaturgiche alle lettrici, ma di stimolare le donne a una nuova conoscenza di sé (Tommaso, 1999). La scrittura di queste due autrici ha svolto un ruolo importante nel plasmare la narrazione sociale italiana e nel promuovere un cambiamento culturale attraverso la diffusione di nuove idee. Hanno ridisegnato un mondo femminile della comunicazione, educando in primis le donne e condizionando il modo di vedere e vivere la realtà. Le femministe italiane possono trarne ispirazione per portare avanti il cambiamento. Dati che non comprendono: feminist data activism e violenza di genere 1LUISS Guido Carli; 2Università di Firenze È evidenza comune che i dati abbiano assunto un ruolo centrale nella formulazione di decisioni strategiche e di policy sia nel settore privato che in quello pubblico; quest’ultimo, in particolare, per tanto tempo ha promosso la pubblicazione di open data come principale (quando non unico) impegno nella direzione dell’open government (De Blasio, 2018). Inoltre, il quadro che ci viene consegnato dalla letteratura sulla platform society (van Dijck, Poell, de Waal, 2018) insiste sulla pervasività del processo di datificazione, indicandolo come uno dei meccanismi di progressiva integrazione di diverse sfere della realtà sociale all’interno di infrastrutture piattaformizzate. I critical algorithm studies mettono in luce gli effetti distorsivi non solo degli algoritmi ma anche delle modalità con cui i dati sono raccolti, aggregati e utilizzati per alimentare processi di deep learning. Tuttavia, sebbene si presti molta attenzione ai dati nei processi decisionali, intere aree di conoscenza rimangono ancora scoperte: una di queste riguarda la violenza di genere e in particolare il femminicidio. Sono molte le voci che denunciano una grave mancanza di dati su questi fenomeni, tra cui le Nazioni Unite, l'OCSE, Eurostat, la Commissione Europea (si veda per es. Gerards & Xenidis, 2021) e lo European Institute for Gender Equality (EIGE), oltre a numerosi studiosi e attivisti (D’Ignazio, 2024). Questo è dovuto principalmente al fatto che molte istituzioni in Europa e nel mondo non hanno ancora adottato una definizione univoca di violenza di genere e, di conseguenza, i loro database dei reati non sono stati progettati per promuovere una copertura completa di tutti gli elementi che contribuiscono a spiegare il fenomeno e soprattutto faticano a formare il personale sul campo, quello stesso personale che "costruisce" materialmente i dati. Adottando la prospettiva del data feminism (D’Ignazio & Klein, 2020), il nostro lavoro si concentra proprio sui molteplici tentativi di portare alla luce i gender data gaps relativi alla violenza di genere in Italia. In quest’ottica, l’intersezione tra attivismo digitale e temi di genere apre nuovi scenari di ricerca: piuttosto che focalizzarsi su come i movimenti femministi usano i media digitali per perseguire la loro lotta, puntiamo l’attenzione a come l’assenza di dati sia un nuovo campo di lotta, anch’esso caratterizzato da un forte attivismo e con una posta in gioco rilevante nel contesto della platform society e del data-driven decision-making. Attraverso un monitoraggio di più ampio respiro, nel nostro intervento identifichiamo in particolare: (a) le cause culturali, sociali, economiche e politiche che hanno portato alla datificazione di alcuni aspetti della violenza di genere tralasciandone altri; (b) i mutevoli livelli di invisibilità raggiunti dai diversi tipi di violenza di genere, con particolare riferimento al formato dei dati e alla salienza nei media in determinati momenti della storia recente; (c) i soggetti esposti sul fronte dell’attivismo dei dati (principalmente giornalist* e ONG) che si occupano di tenere traccia delle informazioni diffuse per costruire una conoscenza più accurata, tracciandone i repertori e le interconnessioni con altre soggettività (politiche e non). Dalla riflessione sui dati raccolti emerge la necessità di considerare il feminist data activism come un panorama complesso e molto variegato. Da una parte, in alcuni casi appare in sostanziale continuità con esperienze più consolidate, che vanno da repertori istituzionalizzati in deontologia professionale (come nel caso del giornalismo d’inchiesta e del data journalism) a una sorta di “evoluzione naturale” dell’attivismo femminista anche in relazione alle più recenti esperienze digitalizzate. Dall’altra, troviamo nuove esperienze di attivismo che si sono palesate come single-issue, concentrandosi proprio sull’emersione dei gender data gaps e sulla rielaborazione dei dati in chiave (trans-)femminista. Contrastare l’ingiustizia epistemica sui social network: il caso dell’attivismo contro la violenza ostetrica in Italia Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia L’espressione “violenza ostetrica” indica un insieme di abusi e comportamenti irrispettosi subiti dalle donne durante il parto in struttura. Il fenomeno ha ottenuto visibilità in Italia dal 2016, grazie alla campagna Facebook #Bastatacere, promossa da Human Rights in Childbirth in Italy. La discussione sul tema è oggi alimentata soprattutto da attiviste, che sui propri profili social parlano di nascita e maternità. Per numero di follower (20K) e centralità della violenza ostetrica, risulta particolarmente rilevante la community Instagram “mammeanudo”, gestita dalla dottoressa Sasha Damiani. Confrontando questo progetto con la campagna del 2016, il presente contributo intende evidenziare vantaggi e limiti dell’attivismo digitale contro la violenza ostetrica. Il ricorso al concetto di ingiustizia epistemica consentirà di leggere le iniziative come tentativi volti a riabilitare l’agency epistemica delle vittime, messa in dubbio nei contesti sanitari. L’ingiustizia epistemica consiste in un torto rivolto alle capacità conoscitive di un individuo e basato su pregiudizi inerenti alla sua identità sociale. L’ingiustizia può riguardare la credibilità del soggetto in quanto testimone (ingiustizia testimoniale) o l’assenza di risorse ermeneutiche, che impedisce un’adeguata interpretazione delle proprie esperienze (ingiustizia ermeneutica) (Fricker, 2007). Il concetto è stato recentemente applicato allo studio della comunicazione in Rete. Alcune ricerche hanno dimostrato le potenzialità del Web nel fornire visibilità a soggettività epistemicamente emarginate, esaminando specifici casi studio: attivismo contro la violenza di genere (Salter, 2013; Cayli Messina, 2022; Jackson, 2018, 2023), lotta a pregiudizi e privilegi (Frost-Arnold, 2019), ricerca educativa open-access, (Quantz, Buell, 2019), iniziative di blogging e vlogging portate avanti da persone transgender e disabili (Cavar, Baril, 2021) e da donne con patologie invisibili (Groenevelt, De Boer, 2023). Altri studi hanno evidenziato come lo stesso Web possa generare nuove forme di ingiustizia e amplificare quelle già esistenti, a causa della classificazione e della targhettizzazione operate dagli algoritmi (Stewart, et al., 2022), dell’opacità del loro funzionamento e della scarsa consapevolezza della policy delle piattaforme da parte degli utenti (Origgi, Cirinna, 2017), nonché per via del design intrinsecamente discriminatorio di queste ultime (Groenevelt, De Boer, 2023). Il “collasso del contesto” (Marwick, Boyd, 2010) online incentiva poi l’appropriazione e l’uso indebito della terminologia dei gruppi marginalizzati, privandoli così di importanti strumenti interpretativi (Allen, 2023). Nel quadro delineato, #Bastatacere e “mammeanudo” costituiscono utili casi studio per vagliare l’uso della categoria di ingiustizia epistemica in riferimento ai social media. Diversi contributi teorici hanno sottolineato il legame fra ingiustizia epistemica e violenza ostetrica (Cohen Shabot, 2019; De Barros Gabriel, Guimarães Santos, 2020; Chadwick, 2019, 2021a, 2021b), sostenendo che il personale ospedaliero mette in discussione l’attendibilità epistemica delle partorienti sulla base di un duplice pregiudizio: (1) la minor credibilità attribuita al genere femminile e (2) l’invalidazione delle affermazioni delle partorienti sul proprio corpo, in un contesto in cui domina l’autorità del sapere medico (Freeman, 2015; Cohen Shabot, 2021). Si cercherà pertanto di capire se è opportuno parlare di ingiustizia epistemica in relazione alle due iniziative, verificando in esse la presenza di riferimenti alla scarsa considerazione del parere e della volontà della partoriente, e se questa è motivata (1) dal suo genere o (2) dall’autorità del sapere medico. Si procederà quindi effettuando un’analisi qualitativa del contenuto su un campione selezionato di post e commenti tratti dalle due iniziative. La stessa metodologia sarà impiegata per capire se le strategie comunicative adottate dai casi studio selezionati sono prevalentemente orientate “all’interno” o “all’esterno”, ossia a creare solidarietà fra i membri della community o a influenzare l’agenda setting (Kaiser, Rauchfleisch, 2019). Si ipotizza che la comunicazione di #Bastatacere sia rivolta in entrambe le direzioni, mentre quella di “mammeanudo” sia sbilanciata verso l’interno, determinando una diversa capacità di questo progetto di produrre cambiamenti dell’agenda setting. Oltre i generi: tra paradossi, rappresentazioni e singolarismi Università di Pisa, Italia Riflettendo attorno alle rappresentazioni di genere il contributo intende proporre una lettura dei processi di pluralizzazione, moltiplicazione e, più recentemente, destrutturazione delle rappresentazioni di genere all’interno dei processi di singolarizzazione/singolarismo (Martuccelli 2010, Reckwitz 2020). Nel tematizzare la riflessione il contributo considera come il genere sia entrato prepotentemente all’interno del discorso pubblico divenendo, nel nuovo millennio, uno dei contested-concept attorno ai quali si concentrano dispute anche molto accese. L’assunto originariamente acquisito come un dato, ovvero l’articolazione binaria uomo-donna, è stato progressivamente problematizzato, rivelando i limiti sia della semplificazione di una costruzione che assume a proprio fondamento l’esistenza di due categorie dotate di relativa omogeneità interna sia del binarismo in sé, favorendo lo sviluppo di approcci intersezionali e consentendo l’emersione di generi multipli e fluidi. L’istanza del superamento delle diseguaglianze di genere si è così tradotta, alle nostre latitudini, in discorsi permeati dal paradigma del degendering che trova nella degenderizzazione linguistica – con la promozione del ricorso a pronomi neutri, l’introduzione di segni grafici in sostituzione delle desinenze maschili o femminili (cfr. *, ǝ, pl. ɜ) o di bagni gender-neutral – la principale arma per ridurre i pregiudizi di genere e le distinzioni binarie (Liu et al 2018). In breve, si assume che se non è possibile distinguere le persone in categorie fondate sul genere, diventa difficile trattarle in modo diverso. Una prospettiva che alimenta una dialettica accesa tanto nel dibattito scientifico che in quello pubblico. Se nell’ambito del dibattito scientifico tali posizioni possono essere ricondotte al femminismo post-strutturalista, che sostiene la necessità di superare l’identità di genere tout court promuovendo politiche capaci di sovvertirne la sostantività (Butler 2013 [1990]), non mancano voci critiche che evidenziano come le pratiche di decostruzione delle narrazioni (ancorché naturalizzanti) rischino di oscurare, rafforzandoli e alimentandoli, i processi di diseguaglianze sociali (c.d. regendering) finendo per invisibilizzare sia la(e) storia(e) delle donne sia le dinamiche di esclusione e marginalizzazione sociale specificamente legate al genere (Lorber [2021] 2022). Nell’ambito del dibattito pubblico le istanze di degendering si intersecano con la politica delle identità, offrendole nuovo alimento (Moran 2020); un’intersezione che è stata utilizzata per attualizzare il c.d. paradosso di genere (Lorber 1995 [1994]) che rileva il persistere delle diseguaglianze di genere a fronte di una crescente messa in discussione del binarismo di genere (Lorber 2022 [2021]). Un paradosso che affonderebbe le proprie radici nel “ribellismo individualistico” della molteplicità delle emergenti identità multiple e non binarie, incapaci di riconoscersi come alleate per dar vita ad “un terzo genere” (Ivi, p.153). Ma perché le identità multiple e non binarie sono “incapaci di riconoscersi come alleate” (Ibidem)? Perché i processi di mobilitazione attorno al genere non convergono attorno alla costituzione di un “terzo genere” quale “casa comune” di riconoscimento? E questa connotazione è compatibile, ed eventualmente come, con le istanze che “vogliono bandire le identità di genere per intero” (Lorber 2022 [2021], p.153)? Il contributo intende tematizzare queste domande leggendo i processi performativi delle identità multiple e non binarie alla luce dell’affermarsi della logica del particolare come logica sociale delle società tardo moderne. Una logica che emerge in tutte le sfere sociali (dalla produzione al consumo, dalle istituzioni ai legami sociali) coinvolgendo il processo di significazione del sé e del legame sociale. Confrontando due diverse letture dell’emergere delle singolarità, la singolarizzazione di Martuccelli (2010) e il singolarismo di Rekwitz (2020), il contributo propone di considerare le performance multiple e non binarie come espressione della prima tendenza e, al contempo, recupera la lettura culturalista di Reckwitz per interpretare le dinamiche radicalizzazione e polarizzazione all’interno del dibattito pubblico, in cui le performance fluide alimentano la frattura tra ipercultura ed essenzialismo culturale. |
17:15 - 19:00 | Sessione 3 - Panel 9: Rappresentazioni e pratiche del genere Luogo, sala: Aula T02 Chair di sessione: Isabella Crespi |
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La mia vita violenta. La violenza negli immaginari giovanili contemporanei tra naturalizzazione e spettacolarizzazione. 1Università di Cagliari, Italia; 2Università degli Studi di Genova, Italia Il tema della violenza ha assunto nuova centralità negli immaginari delle giovani generazioni. La partecipazione al dibattito mainstream sulla violenza mediato dalle tecnologie digitali produce una nebulosa discorsiva attraversata da polarizzazioni, continuità e apparenti contraddizioni. Le nuove tecnologie e le nuove forme di comunicazione offrono spazi e modi per la circolazione di discorsi che da un lato promuovono consapevolezza e istanze di mutamento, in particolare per quanto riguarda la violenza di genere (Popolla, 2023) e, dall’altro si allineano alle logiche di un’economia dell’attenzione che individua proprio nella spettacolarizzazione della violenza un potenziale estrattivo fondamentale nella costruzione della reputazione delle (micro)celebrità (Saitta, 2023). Rispetto alla dimensione di genere, soprattutto le giovani donne sembrano condividere in questi contesti una crescente sensibilità per le condotte e gli agiti violenti, ma dal punto di vista delle narrazioni e degli immaginari veicolati online questo non si traduce necessariamente in una comprensione degli aspetti di riproduzione culturale e strutturale che informano le dinamiche di genere sottese alla violenza. A questo proposito, in questo intervento si prenderà in esame l'emersione su TikTok e Instagram di interpretazioni patologizzanti (#narcista) o gender blind (#malessere) della violenza, allo scopo di indagare come le nuove generazioni rappresentino e costruiscano il discorso sulla violenza di genere, quali parole e concetti mobilitino per nominarlo, quali cambiamenti abbiano investito i modelli relazionali più diffusi. A complemento di questa analisi, e in ragione delle dinamiche riflessive che si generano tra gli immaginari della Generazione Z e la narrazione prodotta nei confini sfumati della musica trap (Cuzzocrea e Benasso, 2020; Benasso e Benvenga, 2024), si esploreranno i processi di costruzione e diffusione di un ethos violento interpretabile a partire dalla risposta alla violenza istituzionale (Grassi, 2022) impressa su molte delle biografie degli/le trapper, ma anche in termini di strategia di self-branding (Chicchi e Simone, 2017) e monetizzazione della visibilità. In senso più ampio, attraverso queste contestualizzazioni intendiamo osservare come la retorica neoliberale che inquadra gli individui come agenti onnipotenti che creano le proprie circostanze produca conseguenze solo parzialmente contraddittorie. Da un lato, infatti, per quanto riguarda la violenza di genere le persone sono spesso raccontate come vittime a causa della loro limitata capacità di evitare o superare le avversità (Lewis & Anitha, 2019). Dall'altro, nel caso della cultura trap, nonostante la violenza venga interpretata come istituzionale, le strategie di risposta si configurano come necessariamente individualizzate e dipendenti da capacità, motivazioni e risorse personali. Questo sospende, o addirittura annulla desideri di cambiamento proiettati sulla dimensione sistemica. Nella traduzione biografica di istanze che sono in realtà sociali, si creano dunque configurazioni specifiche, di lettura o di risposta, che sembrerebbero depotenziare il portato collettivo e politico del discorso sulla violenza, quantomeno nelle sue accezioni classiche, trovando talvolta una propria collocazione nell’ambito delle cosiddette economie reputazionali (Langlois & Slane, 2017). Una regina negli scacchi? Dinamiche sociali e identitarie nella comunità scacchistica italiana Università Milano-Bicocca, Italia La pratica degli scacchi si configura come un universo sociale intriso di rapporti culturali, dinamiche di potere e sfumature identitarie (Fine, 2013; Fine, 2015). Negli ultimi anni, si è assistito a un rinato interesse per gli scacchi, un fenomeno alimentato principalmente da due fattori fondamentali. Prima di tutto, il successo ottenuto dalla serie televisiva "La regina degli scacchi" ha svolto un ruolo catalizzatore, portando l'attenzione del pubblico verso questo gioco. In aggiunta, l'accessibilità crescente delle piattaforme online ha in parte democratizzato la pratica degli scacchi, permettendo a un vasto spettro di persone di partecipare attivamente all'interno di un ambiente digitale interattivo. Pratiche digitali, genere e sessualità nelle vite quotidiane delle/degli adolescenti italiane/i 1Università di Padova, Italia; 2Link Campus University Il contributo intende approfondire il rapporto tra pratiche digitali, genere e intimità nella vita quotidiana delle/degli adolescenti. I media digitali sono stati analizzati come ambienti che offrono ai giovani agency e spazi in cui costruire ed esprimere la propria identità (boyd 2014), attraverso pratiche di bricolage (Willett 2008) e di sperimentazione, anche per quanto riguarda genere e intimità (Livingstone & Mason 2015; Scarcelli 2015; De Ridder 2017; Metcalfe & Llewellyn 2020; Ferreira 2021). Gli studi esistenti si sono concentrati principalmente sulle interazioni comunicative (ad esempio il “sexting”) in connessione alla costruzione del genere e della sessualità (Ringrose et al. 2013; Scarcelli 2020); alle dimensioni di genere delle rappresentazioni e autorappresentazioni della maschilità e della femminilità (Marshall et al. 2020; Caldeira 2021); e all’uso di piattaforme per l’espressione personale e il supporto sociale, in particolare per le donne e le persone LGBTQ+ (Tortajada et al. 2021). La comunicazione pubblica contro la violenza sulle donne. Un’analisi comparata sulle campagne di sei paesi europei 1Lumsa Università Roma, Italia; 2Sveučilišta u Zagrebu, Croazia; 3Sapienza Università di Roma, Italia Il fenomeno della violenza maschile contro le donne ha acquisito negli ultimi due decenni una notevole visibilità nel discorso pubblico e nell’agenda dei media, fino ad entrare a pieno titolo nel mainstream. La definizione stessa di violenza di genere è stata oggetto negli ultimi anni di profonde trasformazioni, caratterizzate da una centralità del contesto sociale che ridefinisce nella modernità i ruoli e le relazioni di genere. Il fatto che, nonostante tale accresciuta visibilità del problema, il numero dei femminicidi e delle violenze di genere rimanga drasticamente stabile e trasversale a classi e generazioni, pone seri dubbi agli studiosi, compresi i sociologi, sulle loro capacità di proporre chiavi di lettura adeguate e soluzioni ai problemi sociali. Sul piano culturale la prevenzione attraverso i media e la formazione sono le strategie di lungo periodo più accreditate. La pervasività dei media e la capacità di orientare l’opinione pubblica costituiscono il presupposto per la ricerca sulle narrazioni ricorrenti, i formati, i linguaggi e gli immaginari evocati dai media in tema di gender-based-violence. In questo contesto la comunicazione pubblica acquisisce una responsabilità particolare nei confronti dei cittadini Tra il 2008 e il 2009, infatti, gli enti governativi di molti Paesi europei iniziano un percorso costante di sensibilizzazione e denuncia del problema attraverso gli strumenti della comunicazione istituzionale con l’obiettivo di contrastare e prevenire la violenza di genere. Nonostante gli enti pubblici siano stati i principali promotori delle campagne di comunicazione per contrastare la violenza di genere, questo aspetto è stato poco approfondito dalla ricerca, che invece ha fornito numerose indagini sulla comunicazione promossa dalle imprese private, in particolare ai fenomeni di femvertising, pink & gender washing. Il contributo qui proposto si propone di affrontare lo studio delle campagne di prevenzione della violenza contro le donne promosse dalla istituzioni pubbliche di diversi paesi europei. Quali sono i contenuti e i linguaggi utilizzati dalla comunicazione pubblica per sensibilizzare i cittadini? Quali forme di violenza intendono contrastare le narrazioni proposte? Quali azioni e forme di prevenzione e contrasto propongono? A quali attori sociali si rivolgono? Quali immagini/ideologie della maschilità e della femminilità promuovono? Considerando i dibattiti ricorrenti sui ruoli e le responsabilità delle istituzioni, si rintracciano nelle campagne pubbliche forme di deresponsabilizzazione o delegittimazione delle azioni di violenza? Trattandosi di uno studio longitudinale e comparato, per tutte le dimensioni sopra citate si cercherà di rintracciare se esistono differenze e peculiarità tra i paesi europei coinvolti nell’indagine? Il materiale empirico è costituito da quasi un centinaio di campagne audiovisive prodotte dal 2009 al 2024 dalle istituzioni pubbliche di 6 Paesi Europei: Belgio, Croazia, Francia, Italia, Polonia, Spagna. Il corpus è stato raccolto da un team di ricercatori residenti nei diversi paesi, consentendo un’analisi dei prodotti nelle diverse lingue nazionali. L’analisi dei prodotti audiovisivi è stata effettuata secondo l’approccio tripartito dell’analisi del contenuto comprendente: analisi descrittiva, analisi interpretativa, analisi critica. I risultati dell’indagine forniscono una serie importante di evidenze in risposta a tutte le domande di ricerca sopra-elencate. La prospettiva temporale consente di ricostruire una prima fotografia dei cambiamenti avvenuti nelle mentalità e nei linguaggi nell’ultimo decennio; la comparazione internazionale suggerisce considerazioni sugli investimenti e le strategie di paesi diversi di fronte a un problema comune. Il mio corpo in shadowban. Performance drag, pratiche di moda e corpo rivestito queer offline e online Università degli Studi di Bari Aldo Moro, Italia Questo lavoro di ricerca si colloca in un percorso di riflessione che attraversa politiche dell’identità, narrazioni di moda e pratiche mediali e creative concentrandosi sulla connessione tra performance drag e moda, e rivolgendo un interesse particolare alla presentazione del corpo queer negli spazi offline e online. Il corpo rivestito rappresenta lo spazio performativo delle identità (Calefato 2004, 2021), il luogo dove la moda esprime il suo carattere ambivalente: espressione di relazioni di potere (Wissinger 2016), riproduce e sovverte codici culturali. Ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda la definizione di soggettività e comunità queer (Gegzy, Karaminas 2013; Karaminas, Taylor 2022; Steele 2013), all’interno delle quali la cultura drag è identificata come performance che ribalta le credenze del senso comune (Santamaria 2021) attraverso scelte e codici stilistici che producono una distinzione tra il naturale e l'artificiale (Butler 1993, 1999). Per questo studio ci siamo concentrati sull’analisi della comunità queer della città di Lecce, dove la scena drag, i suoi eventi e le forme di presentazione offline e online, costituiscono l’avamposto più evidente dell’emersione delle istanze collettive e lo spazio dove la sovrapposizione tra dimensioni ludiche e attivismo dal basso creano un ponte tra spazi urbani e online, producendo contropubblici queer ibridi e connessi (Warner 2002). La metodologia utilizzata è di tipo qualitativo, ovvero una etnografia degli show drag e interviste a performer, attraverso le quali sono emerse una serie di pratiche legate alla moda che contribuiscono alla costruzione della comunità e alla definizione della propria performance. Attraverso l’esplorazione dei profili Instagram delle performer, ci focalizziamo altresì sul ruolo degli spazi online e sull’utilizzo dei social media come pratiche di costruzione identitaria per soggettività queer (O'Riordan, Phillips 2007; Siebler 2018; Duguay 2022). Se gli studi sulla mediatizzazione della moda (Rocamora 2017; D'Aloia e Pedroni 2022) suggeriscono di analizzare il fenomeno anche attraverso l’analisi dell’appropriazione dei dispositivi e dei linguaggi mediali, soprattutto per quanto riguarda i social media è necessario confrontarsi con la moderazione dei contenuti, le discriminazioni algoritmiche e le affordances legate al genere (Schwartz, Neff 2019). Da un lato quindi, abbiamo la necessità di comprendere possibilità e limiti delle pratiche e dei codici della moda nella definizione di soggettività queer; dall’altro, posizionandosi negli spazi online, abbiamo ancora la necessità di analizzare quanto le linee guida di una piattaforma e i meccanismi algoritmici possano incidere sulla presentazione del corpo rivestito queer, sulla diffusione di una performance, su una carriera artistica e sulla necessità di creare spazi safe (Hartal 2018, Lohman 2022) per riconoscimento e (in)visibilità. |
19:15 | Cena Sociale |
Data: Venerdì, 21.06.2024 | |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 1: Il futuro qui e ora dei giovani. Le ricerche sociologiche oltre il senso comune Luogo, sala: Aula Aldo Moro Chair di sessione: Roberto Serpieri |
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Il futuro qui e ora dei giovani. Le ricerche sociologiche oltre il senso comune 1Università di Napoli Federico II, Italia; 2Università di Cagliari, Italia; 3Università di Milano Bicocca, Italia Chair: Roberto Serpieri, Università di Napoli Federico II . Che alla conoscenza sociologica sia in buona misura preclusa la via dei modelli previsionali è nella logica di indagine da cui muovono le scienze sociali: nell’infungibilità dei suoi oggetti, cioè, e nell’impraticabilità di strategie di ricerca che si avvalgono di una strumentazione investigativa e intellettuale mutuata dalle scienze fisiche (Marradi 2010). Da una parte, comunque, il paradigma dell’Evidence-Based Research anche in campi come quelli dell’economia e delle scienze sociali mainstreaming ha riscosso consensi e ha preso a funzionare come un “nuovo regime di verità”, che si afferma progressivamente per i discorsi che ospita, i meccanismi attraverso cui distingue le argomentazioni vere da quelle false, le tecniche utilizzate e valorizzate per ottenere la verità e infine “lo status di coloro che sono incaricati di dire ciò che conta come vero" (Foucault 1976/1977: 25). Nello stesso tempo, nonostante le ambizioni previsionali del mantra Evidence-Based e anche a causa della suddetta preclusione, la sociologia ha a lungo sottovalutato la dimensione del futuro nell’agire sociale e quindi la necessità di analizzare il modo in cui gli individui si proiettano nel futuro per capire il presente (Mische 2009; Coleman, Tutton 2017; Mandich 2023). Recentemente, tuttavia, ha ripreso vigore la consapevolezza del fatto che future matters (Adam, B., Groves, 2007) e si sono moltiplicati i modi di interpretare il futuro da una prospettiva critica che colga le condizioni di possibilità della trasformazione e delle differenze. In questo senso, va letta la scelta dell’unità d’analisi di questo panel, i giovani: “coloro che sono destinati ad abitare il futuro prossimo” (Cavalli e Leccardi 2013, 158); “interpreti esemplari della trasformazione e del cambiamento, i più impegnati nei processi di costruzione del sé, i più interessati dalla necessità di investire in tutte quelle pratiche che consentono la realizzazione di un progetto, il conseguimento di un traguardo” (Vatrella e Serpieri 2022). Più nello specifico, il panel accoglie l’invito a esplorare le complesse relazioni fra potere e pratiche creative, attraverso la presentazione di riflessioni che: si interrogano sul rapporto che i giovani intrattengono con il futuro; sulle memorie del futuro (Jedlowski 2017) e sui meccanismi attraverso cui il futuro, colto nelle sue molteplici declinazioni culturali e affettive (aspirazioni, speranze, aspettative, progetti, sogni), si situa al crocevia tra percorsi biografici, climi sociali e culture locali (Mandich, Satta, Cuzzocrea, 2023) e si determina nell’intreccio tra agency e struttura (Cuzzocrea e Mandich 2016) per confluire in configurazioni sui generis (Spano et al. 2023). Il panel si pone quindi due obiettivi: 1) rimettere al centro della riflessione le sfide metodologiche nello studio del futuro e i correlati epistemici e gnoseologici di talune opzioni analitiche; 2) proporre una lettura del tema che muova da una postura creativa alla ricerca sociale per mostrare la valenza euristica di approcci che non si lascino segnare da mere ambizioni previsionali. Approccio metodologico e strategie di ricerca L’obiettivo su delineato è stato perseguito attraverso una strategia analitica che ricorre, coerentemente, all’approccio qualitativo alla ricerca sociale. Nei paper verranno presentati alcuni dei risultati emersi dalla somministrazione di 160 interviste qualitative svolte nell’ambito del Progetto Prin “Mapping Youth Futures” (https://www.mappingyouthfutures.it), e condotte con giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni,. In particolare, i contributi guardano a tre diversi tipi di giovani, distinti sulla base delle differenti “vocazioni” con le quali evidentemente si inquadrano i profili biografici e le configurazioni di futuro emergenti: mobilità, attivismo politico e imprenditoria. Significativo è, in tal senso, il ricorso alla tecnica dell’intervista qualitativa, reinterpretata alla luce di talune opzioni tecniche (l’utilizzo della visual elicitation), che sono state impiegate al fine di sollecitare nelle narrazioni, l’emersione di quelle nuove semantiche di futuro (Leccardi 2014), in cui si inquadrano le suggestioni interpretative di seguito brevemente delineate negli abstract dei paper. . Il futuro che si sente: le pro-tensioni al futuro dei giovani mobili Giuliana Mandich, Caterina Satta, Valentina Cuzzocrea, Università di Cagliari La rinascita dell’interesse della sociologia per il futuro a partire dal nuovo secolo (Beckert, J. w L. Suckert 2021) si accompagna alla consapevolezza del fatto che il futuro è una dimensione complessa, intangibile e difficile da ricondurre alle modalità di analisi e ricerca generalmente utilizzate nel campo della sociologia. Il futuro è simultaneamente simbolico e materiale, qualcosa che ancora non c’è ma che allo stesso tempo si sta (in diversi modi) facendo, proiettato in avanti e radicato nel presente e nel passato (Adam, B. e C. Groves, 2007). Questa complessità è anche frutto dalla multidimensionalità dell'azione sociale (Ermirabayern Mishe 2009, Mandich 2022). In questa presentazione riflettiamo su modi possibili di studiare l’intangibilità del futuro, con un focus particolare sui giovani con esperienza di mobilità, sulla base delle 40 interviste condotte per il progetto Mapping Youth Futures. Per affrontare la complessità del futuro che si lega alla complessità dell’agire sociale ci serviamo del lavoro di Thévenot (2006, 2014) sui modes of engagement. Della stessa versatilità pragmatica studiata da Thévenot dobbiamo tenere conto anche nell’analizzare la proiezione nel futuro. Utilizzando gli elementi di base dei regimes of engagement, possiamo definire quattro modi diversi di engagement with the future (Mandich 2020; Welch et al. 2020): il regime del progetto, il regime della giustificazione, il regime dell’esplorazione e il regime della familiarità. Quest’ultimo regime coglie una modalità del futuro oggi fortemente esplorata nella letteratura (Massumi, 2005, Coleman, 2017, Tutton 2022). Un futuro che si intreccia strettamente al presente e si esprime in una pro-tensione fortemente connotata affettivamente. Il futuro, dunque, non solo si progetta, si esplora, si discute collettivamente ma si sente. Le narrative raccolte nelle nostre interviste attraverso la sollecitazione della visual elicitation, ci permettono di mettere in luce come i giovani, nel momento in cui vengono stimolati a pensare al futuro, hanno soprattutto bisogno di sentirlo, di viverlo affettivamente nel presente (Mandich, Satta, Cuzzocrea 2023). In questa presentazione, per meglio mettere in luce il dispositivo metodologico adottato e valorizzare il ruolo che gli immaginari visuali hanno avuto nel racconto del futuro, ci soffermiamo, su due interviste che permettono si far emergere due dei modi possibili di sentire il futuro nel presente. . Come Giano, creatore di inizi. I processi di costruzione del sé del giovane imprenditore accademico Sandra Vatrella e Roberto Serpieri, Università di Napoli “Federico II”
Nell’era della globalizzazione economica e culturale, le ragioni della governamentalità neoliberista incidono sulle relazioni pedagogiche, interne ed esterne al sistema educativo formale, spingendo verso la produzione di individui conformi alle logiche della competizione globale. Da un lato le istituzioni educative (scuola e università) rispondono alle pressioni verso il miglioramento delle risorse di capitale umano a loro disposizione, investendo nello sviluppo delle cosiddette “competenze di carattere” (Maccarini 2019). Dall’altro lato i giovani in formazione sono sollecitati a evolvere quei tratti personali, che consentono loro di scommettere su un percorso formativo, lavorativo e di vita ardimentoso in cui “le difficoltà si cristallizzano nell’atto di assumersi dei rischi” (Sennet 1999, 174). Ciò malgrado, in molti continuano a chiedersi se, in che termini e attraverso quali strategie, la “trappola neoliberale” degli investimenti educativi possa ancora essere sfidata. Si tratta di un quesito complesso e non univoco al quale proveremo a rispondere facendo riferimento alle riflessioni foucaultiane sulle pratiche di autogoverno etico (Foucault 2010) e, in particolare, sulle tecnologie del sé; quell’insieme di pratiche cioè “che permettono agli individui di effettuare, soli o con l’aiuto di altri, un certo numero di operazioni sul loro corpo e la loro anima, i loro pensieri, le loro condotte, il loro modo di essere; di trasformarsi allo scopo di raggiungere un certo stato di felicità, di purezza, di saggezza, di perfezione o d’immortalità» (Foucault 1988, p. 3). Sono dunque le tecnologie del sé il dispositivo euristico (cfr., Vatrella, Serpieri 2022) al quale ricorriamo nel nostro contributo al fine di comprendere: 1) Se e come i giovani riescano a fronteggiare la tensione tra le soggettivazioni prodotte dalla governamentalità neoliberale e il loro costituirsi come soggettivazioni in cerca di alternative 2) Quali siano i processi di autogoverno etico ai quali riescono a dare forma. Questi obiettivi analitici sono stati perseguiti attraverso l’adozione di una prospettiva che segue l’approccio etnografico alla ricerca sociale ed elaborando una strategia che combina l’approccio del racconto di vita (Bertaux 2003) con la prospettiva ermeneutica (Montesperelli 1998). In breve, lo studio si avvale di una base empirica composta da 40 interviste discorsive somministrate ad altrettanti giovani imprenditori di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Coerentemente con le ragioni del panel, le interviste: 1) sono state realizzate adoperando una traccia i cui stimoli sono rappresentati dalle definizioni operative delle tecnologie precedentemente costruite; 2) sono state analizzate costruendo una griglia analitica nella quale queste stesse definizioni operative sono state opportunamente riformulate e declinate in categorie concettuali utili ad attraversare il corpus testuale. Questo sforzo analitico ha consentito di realizzare un modello tipologico dal quale sembra emergere una nuova semantica del futuro (Leccardi, 2014) e in cui confluisce, tra gli altri, il tipo che presenteremo nel nostro contributo e che proveremo di seguito a delineare nei suoi tratti essenziali. Ci riferiamo a un gruppo di giovani imprenditori accademici promotori di quell’imprenditoria a vocazione scientifica che prende forma nel contesto del Contamination Lab; progetto al quale i giovani ascoltati partecipano, partecipando di fatto a un processo di soggettivazione neo-liberale. Un processo in cui il giovane costruisce se stesso nell’intreccio tra agency e struttura (Cuzzocrea e Mandich 2016), e in questo intreccio si fa Giano bifronte. Come Giano, il giovane imprenditore accademico è quel creatore di inizi senza presente, con uno sguardo rivolto al futuro e uno al passato. Homo oeconomicus e imprenditore di se stesso sempre disposto a quell’investimento in istruzione e mobilità che soli gli garantiscono la soddisfazione e il reddito futuri ai quali ambisce (Foucault 2008), questa figura sembra prefigurare l’alternativa erotica al dominio neo liberale: la realizzazione di un eros filosofico come desiderio inesausto di conoscenza e, al contempo, di una estetica pedagogica in cui le tecnologie del sé assurgono a pratiche trasformative utili a garantire l’esercizio del proprio magistero. . Giovani, esperienze di partecipazione e ‘utopie quotidiane’ Carmen Leccardi, Ilenya Camozzi, Maria Grazia Gambardella, Sveva Magaraggia, Università Milano-Bicocca
Da alcuni decenni a questa parte, su un binario parallelo al dibattito intorno alla cosiddetta ‘transizione bloccata’ (Walther 2006; Wyn et al. 2012), ha guadagnato terreno la rappresentazione dell’universo giovanile come politicamente apatico, narcisisticamente piegato sulla dimensione privata, poco o nulla interessato a forme di protagonismo pubblico e alla rappresentanza politica. In estrema sintesi, si è scelto di proporre l’immagine di una (o più) generazioni di giovani caratterizzati dal disinteresse per le vicende pubbliche, ai margini non solo delle forme di partecipazione, ma della cultura civica in generale. La pandemia ha, se possibile, ulteriormente accentuato questa rappresentazione - ignorando, ad esempio, la fioritura di iniziative solidali, e a protezione delle fragilità, che si sono sviluppate al suo interno (Bringel e Pleyers 2022). In realtà, se si fuoriesce dalla retorica di immagini distopiche intorno al destino delle nuove generazioni proposte dal discorso pubblico e mediatico, emerge una realtà ben diversa, una tendenza giovanile a costruire forme inedite di partecipazione sociale e politica, modalità attive di riconquista degli spazi pubblici unitamente a inedite dimensioni progettuali (personali e collettivi). Come numerosi studi mettono in luce e l’indagine realizzata dal gruppo di Milano-Bicocca all’interno del più ampio progetto Prin ‘Mapping Youth Future’ conferma, le generazioni più giovani si stanno costantemente allontanando dalle pratiche istituzionalizzate di partecipazione a favore di pratiche informali: oltre che nei movimenti, all’interno di associazioni spontanee, nelle sfere del volontariato e così via. La cittadinanza attiva si fa sempre più culturale e ‘quotidiana’. Il quotidiano, e il tempo in cui esso dimora, il presente, dalla periferia guadagna il centro della scena. Non più il futuro, specie quello a lungo termine, appare come il tempo verso cui si tende quanto, piuttosto, il presente e il quotidiano, i nuovi spazi-tempi dell’agency giovanile. Non a caso il concetto di ‘utopia quotidiana’ (Cooper 2014; Venditti 2017; Santambrogio 2020; Camozzi 2022) si consolida in questi anni, acquistando via via maggiore visibilità. I giovani ritornano dunque a farsi protagonisti di forme di innovazione nelle pratiche di partecipazione sociale e politica, riversando la loro voglia di protagonismo verso canali, dinamiche di comunicazione, ambiti sociali e culturali spesso non ancora esplorati (Ekman e Amnå 2012). La stessa idea di politica, e di partecipazione politica, viene in tal modo radicalmente ridiscussa (Cuzzocrea et al. 2021; Pitti 2022). Una ridefinizione che richiede, a sua volta, una trasformazione, non meno radicale, dei paradigmi interpretativi delle scienze sociali. Il paper, frutto del lavoro triennale del gruppo di ricerca di Milano-Bicocca, ha analizzato le diverse forme di attivazione politica che caratterizzano le scelte delle nuove generazioni (Macedo et al., 2005; Stoker, 2006), direttamente connesse alle loro idee di futuro. A questo fine ha fatto uso di rinnovate metodologie qualitative per lo studio delle esperienze e dei vissuti giovanili (Wyn et al. 2020; Giorgi et al. 2021). Concretamente, l’attenzione si è concentrata sulle esperienze partecipative di una quarantina di giovani uomini e giovani donne, di età compresa tra i 25 e i 34 anni, cresciuti in differenti territori (Milano, Napoli, Cosenza, Cagliari) e caratterizzati da diversi livelli di istruzione oltre che di capitale sociale e culturale. In particolare, giovani donne e giovani uomini coinvolte/i nell’indagine sono risultati attive/i all’interno di movimenti, associazioni, gruppi d’acquisto solidali, centri sociali, altre forme partecipative non convenzionali. L’analisi delle forme di narrazione in merito all’impegno politico-sociale è stata guidata dall’intersezione di tre dimensioni – il tempo (passato, presente e futuro), le relazioni attivate (sociali, istituzionali, politiche), le forme di agency. La riflessione, quindi, metterà in luce i modi in cui i giovani, partendo dal proprio quotidiano, affrontano oggi le grandi questioni epocali, dalla lotta alle diseguaglianze alle azioni a sostegno della dignità delle persone, dalle questioni di giustizia climatica alla lotta alla precarietà.
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9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 2: Framing visual politics in the platform society: the case of the Italian european electoral campaign Luogo, sala: Aula Calasso Chair di sessione: Edoardo Novelli Chair di sessione: Augusto Valeriani |
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Framing visual politics in the platform society: the case of the Italian european electoral campaign. 1Università degli Studi Roma Tre, Italia; 2Università La Sapienza, Italia; 3Università di Bologna, Italia Framing visual politics in the platform society: the case of the Italian European electoral campaign. Chair Edoardo Novelli, Università Roma Tre Il prevalere della componente visuale della comunicazione politica e dei formati ed i linguaggi delle piattaforme sono due fenomeni della modernità strettamente connessi. Guardando a tale ambito il panel propone un primo momento di discussione e confronto della metodologia e dei risultati di un Prin 2022 che muovendosi in un'area di convergenza tra diverse tradizioni disciplinari e tecniche di analisi della comunicazione analizza le elezioni Europee del Giugno 2024. Il campo principale è quello della comunicazione politica. Le tradizionali logiche del media system (Altheide, Snow, 1979; Mazzoleni, Schulz 1999) evolvono entro un sistema ibrido (Chadwick 2013; Gerbaudo 2019), nel quale la compresenza tra media “vecchi” e “nuovi” non riguarda solo il canale attraverso cui passano i messaggi della comunicazione politica, ma anche le logiche che li animano. L’analisi delle strategie che la politica ha utilizzato per adattare il proprio messaggio al medium televisivo (Novelli, 2016; Ruggiero, 2014) fornisce utili chiavi di lettura per verificare quanto ipotesi relative ad esempio allo spot politico (Pezzini 2001; Brader 2006; Novelli 2012) si attaglino agli spazi social che maggiormente contribuiscono all’attuale arena digitale, contraddistinte da un proficuo mix di testo e immagine (Facebook e Instagram). Un proficuo filone di ricerca in questo campo riguarda inoltre i patterns e gli effetti delle strategie di comunicazione politica fondate sulle immagini circolate via social media da attori politici (Farkas & Bene, 2021) e le analisi delle strategie di gestione dei social media di attori politici realizzate con tecniche di computer vision (Peng, 2021). Negli studi sulla cultura visuale, un ambito di ricerca utile allo sviluppo del progetto riguarda i processi di rappresentazione, auto-rappresentazione e contro-rappresentazione visuale dei leader politici, con particolare attenzione alle dinamiche di circolazione transmediale delle immagini online e al loro potenziale potere iconico. Negli studi di informatica e sulla Computer Vision (CV), una delle difficoltà maggiori degli algoritmi di Machine Learning (ML) è la gestione di dati temporali. Con l’avvento del Deep Learning (LeCun et al., 2015), è stato possibile idealizzare modelli in grado di gestire tali dati. All’attuale stato dell’arte, i modelli più utilizzati sono le Gated Recurrent Unit (GRU) (Wang e Hu,2017; Liu et al, 2020, Liu et al.,2018), utilizzate in campi molto eterogenei, tra cui il riconoscimento di testo in immagini e sentiment analysis. Considerando, invece, il task di classificazione di immagini, le Convolutional Neural Network (CNN) si sono da subito dimostrate come l’insieme di modelli ideale. Il panel propone tre contributi espressione del lavoro di ricerca teorica e pratica svolto su queste tematiche all’interno delle tre diverse unità di ricerca impegnate nel progetto di ricerca al fine di fare convergere e dialogare concetti e strumenti tipici della sociologia dei processi culturali e comunicativi con metodi di catalogazione e analisi propri delle scienze informatiche, al fine di realizzare uno studio pilota funzionale a sviluppare un modello di analisi della dimensione visuale (sotto forma di repertori di immagini e pattern visuali) della comunicazione politica veicolata tramite piattaforme di social networking. Il paper L'algoritmo e il ricercatore sociale. Opportunità e limiti della ricerca interdisciplinare, si propone di verificare opportunità e limiti di un approccio interdisciplinare tra informatica e comunicazione politica, e più nel dettaglio le possibilità di applicazione di metodi digitali e tecniche di machine learning per la classificazione semi-automatica e la categorizzazione analitica della dimensione simbolica e visuale nella narrazione politica. Il paper Visual politics e logiche di piattaforma. Una rassegna teorico-metodologica di analisi delle immagini sui social media si propone di delineare attraverso una rassegna della letteratura accademica lo stato dell’arte della ricerca relativa alla visual politics, ricostruendo l’evoluzione dei metodi di analisi dell’immagine politica. Il paper Ibridazione, complessità e risignificazione: nuove categorie di analisi per lo studio delle campagne online, offre una ricognizione teorica e metodologica della letteratura esistente degli approcci d’analisi dei contenuti social e delle esperienze di classificazione dei materiali elettorali con l’ausilio di codebook e sistemi di web scraping automatizzati. . L'algoritmo e il ricercatore sociale. Opportunità e limiti della ricerca interdisciplinare Mauro Bomba, Sapienza università di Roma
Il ruolo sempre più decisivo dei social network nel campo della comunicazione politica porta numerosi interrogativi al ricercatore sociale; tra di esse, ci sono questioni che riguardano il modo in cui lo sviluppo stesso delle piattaforme digitali influenzi i processi di content creation che in esse hanno luogo (Poell, Nieborg, Duffy, 2022), e ai quali la politica deve far fronte. Si tratta di questioni “di metodo”, che riguardano ad esempio l’interplay tra la dimensione visuale e quella testuale di un post su Facebook, Instagram, X e TikTok nel definire il messaggio complessivo (Ruggiero e Calabresi, 2023). Più in generale, la new wawe della visual politics che si sviluppa a partire dalla metà degli anni ’10 del 2000 (Dumitrescu, 2016), prendendo atto dell’acquisizione di centralità di piattaforme image e video-based come Instagram e TikTok, s’interroga sulle modalità in cui quadri teorici e strumenti di ricerca tipici delle scienze estetiche, o di quelle informatiche, possano utilmente integrarsi con quelli delle scienze sociali e della comunicazione. Da qui, filoni di che riguardano i patterns e gli effetti delle strategie fondate sulle immagini circolate via social media da attori politici (Farkas & Bene, 2021) e le analisi delle strategie di gestione dei social media di attori politici realizzate con tecniche di computer vision (Peng, 2021). Obiettivo di questo paper è verificare opportunità e limiti di un approccio interdisciplinare tra informatica e comunicazione politica, e più nel dettaglio le possibilità di applicazione di metodi digitali e tecniche di machine learning per la classificazione semi-automatica e la categorizzazione analitica della dimensione simbolica e visuale nella narrazione politica. Negli studi sulla Computer Vision, l’insieme di modelli ideali per un task di classificazione di immagini sono le Convolutional Neural Network (CNN), nate dal lavoro di LeCun et. Al. (1998). Le CNN uniscono una delle operazioni più utilizzate nell’image processing e nella computer vision, ovvero la convoluzione, ad una rete neurale avente molti livelli in “profondità” – da qui il concetto di Deep Learning. Entro il PRIN 2022 “Framing visual politics in the platform society: the case of the Italian electoral campaign”, l’Unità 2 svilupperà un modello di CNN in grado di classificare il corpus di immagini provenienti dalla campagna social di partiti e leader per le Europee 2024, da un lato attraverso un’analisi del testo contenuto nell’immagine, dall’altro attraverso un’analisi dell’immagine nella sua interezza. La sfida del progetto sarà comprendere fino a che punto tale opera di classificazione e analisi possa spingersi oltre le caratteristiche formali del prodotto (es. distinguere una webcard da un selfie, e gli elementi salienti entro la prima e il secondo) e giungere a comprendere elementi stilistico/valoriali. In altre parole: che elementi quali l’espressione seria o sorridente, o l’abbigliamento formale o informale, siano centrali nelle strategie visuali della comunicazione politica via social network è un dato assodato (Mosca e Novelli, 2010; Ceccobelli, 2017); che l’addestramento di un algoritmo al riconoscimento di elementi in grado di rilevare dimensioni sottese quali il “volto buono” della politica non possa che fermarsi a un livello di analisi per il quale solo l’occhio del ricercatore sociale può essere in grado di interpretare un dato che per una macchina non può che risultare altamente ambiguo è intuibile; a che punto debba avvenire la staffetta è ciò che la ricerca intende comprendere, e su cui questo paper intende portare alcuni primi risultati. Anche nell’ottica di mettere alla prova la capacità della politica di abitare gli ambienti di piattaforma e interfacciarsi non solo con le affordances, ma con gli stili di utilizzo che li caratterizzano; che è poi un modo per mettere alla prova il rapporto tra potere e pratiche creative. . Visual politics e logiche di piattaforma. Una rassegna teorico-metodologica di analisi delle immagini sui social media Emma Garzonio, Università di Bologna
Nel corso degli ultimi anni la ricerca sulla dimensione visuale dei processi culturali e comunicativi ha acquisito sempre maggiore rilevanza scientifica quale complesso di nozioni teoriche e strumenti metodologici trasversale a diverse tradizioni disciplinari ed epistemologiche. In particolare il campo della visual politics, e più precisamente della visual political communication research (Veneti et al., 2019; Dumitrescu 2016), si posiziona all’intersezione di diverse aree del sapere condensando concetti e metodi provenienti, tra gli altri, dagli studi di comunicazione politica, di cultura visuale, di informatica e computer vision. Nell’ecosistema mediale contemporaneo, modellato in misura evidente da processi sociali e algoritmici di piattaformizzazione dei regimi di visibilità online, la natura e vocazione multidisciplinare della ricerca sulle “immagini politiche” (Messaris, 2019) deve necessariamente affiancarsi alla comprensione e all’analisi delle logiche di piattaforma (Van Dijck et al., 2018; Schwarz, 2017). La dimensione visuale che caratterizza i social media – quindi la capacità di veicolare contenuti mediali che sostanziano la rappresentazione e costruzione simbolica di soggetti politici – rende imprescindibile una valutazione analitica che sappia tener conto tanto della forma e del contenuto dell’immagine quanto delle pratiche di produzione, diffusione e circolazione delle stesse all’interno (e all’esterno) delle piattaforme. Studiare la circolazione, la visibilità, la rilevanza, perfino il potenziale statuto iconico di un’immagine politica diffusa online significa dunque includere nel perimetro della ricerca l’analisi delle platform logics che possono contribuire a facilitare la diffusione di specifici formati visuali o singole immagini a discapito di altre. Le campagne elettorali offrono un luogo privilegiato di analisi delle narrazioni e contro-narrazioni visuali del potere politico e del ruolo delle piattaforme tramite cui la campagna ha luogo (Bossetta, 2018). All’interno di questa cornice teorica, il paper si propone di delineare attraverso una rassegna della letteratura accademica lo stato dell’arte della ricerca relativa alla visual politics, ricostruendo l’evoluzione dei metodi di analisi dell’immagine politica. Verrà posta particolare attenzione alla dimensione dei metodi digitali di tracciamento e di analisi visuale, con specifico riferimento alla circolazione delle immagini su piattaforme di social media. Delineato il framework teorico e metodologico, si applicheranno tali metodi e conoscenze a un insieme circoscritto di contenuti visuali significativi emersi dal monitoraggio della campagna elettorale europea del giugno 2024, che costituirà il case study di riferimento. Si partirà dunque dall’identificazione di un set circoscritto di immagini rappresentative di temi, dibattiti e frame dominanti della campagna elettorale europea per offrirne una analisi visuale e potenzialmente ricostruirne, anche tramite l’applicazione di metodi digitali, i percorsi di circolazione online. Il paper si pone dunque l’obiettivo di sintetizzare l’avanzamento della ricerca sull’immagine politica e, a partire dal case study, evidenziare alcune possibili applicazioni pratiche di metodi digitali di analisi delle immagini online al fine di offrire ipotesi interpretative delle relazioni tra la circolazione di determinate immagini e i processi di piattaformizzazione della comunicazione politica e dell’informazione visiva via social media. . Ibridazione, complessità e risignificazione: nuove categorie di analisi per lo studio delle campagne online Edoardo Novelli, Università Roma 3
Superando la produzione di materiali elettorali “tradizionali”, quali manifesti e spot televisivi, i contenuti pubblicati sui social media sono diventati lo strumento più usato da partiti politici e candidati per la diffusione di materiali propagandistici e per la creazione di un inedito dialogo con i cittadini-elettori. Oltre ad aver ridisegnato i rapporti all’interno dell’ecologia dei media e ad aver avviato un processo di “equalizzazione”, dando a forze politiche minori la possibilità di acquisire visibilità realizzando campagne a basso costo (Mazzoleni e Bracciale 2019), la rete ha modificato le logiche e la natura dei contenuti politico/elettorali, al punto che i soggetti politici hanno dovuto adattare, e in alcuni casi rivoluzionare, i propri linguaggi e “ruoli” ai formati, agli stili e alle dinamiche tipiche dell’ambiente mediale ibrido (Chadwick 2013; Gerbaudo 2019) e della piattaformizzazione della società (van Dijk, Poell, de Waal 2018). In questo contesto, diviene necessario individuare e comprendere i processi di produzione dei contenuti e le logiche partecipative tipiche della rete, i nuovi processi di rappresentazione, auto-rappresentazione e contro-rappresentazione della politica, lo sviluppo di prodotti “ibridi” nati dalla fusione di “vecchi” (manifesti e spot) e “nuovi” formati (webcard, meme, selfie). Le nuove forme della comunicazione politica online hanno avviato un processo di trasformazione di formati, codici estetici, patti comunicativi e vocabolari visuali che avevano caratterizzato le campagne elettorali prima dell’avvento della rete, della diffusione dei SNS e delle piattaforme. Elaborare nuovi strumenti metodologici e delineare nuove categorie di analisi capaci di cogliere gli immaginari, i processi di framing e di significazione, l’utilizzo simultaneo di forme visuali e testuali degli artefatti digitali che caratterizzano la digital campaign (Coleman 2005) e la networked politics (Cepernich 2017) diviene fondamentale per riuscire a interpretare i processi culturali e comunicativi che interessano la società e, di riflesso, la politica in epoca contemporanea. Il presente contributo si concentra sull’elaborazione di categorie di analisi capaci di rilevare le peculiarità dei contenuti social e sulla sua conseguente applicazione nell’analisi dei contenuti pubblicati da partiti politici e candidati nella campagna europea 2024, raccolti mediante un sistema di web scraping attivato nelle quattro settimane precedenti il voto. Partendo da una ricognizione teorica e metodologica della letteratura esistente sugli approcci già utilizzati per l’analisi dei contenuti social a livello internazionale e dall’osservazione dell’esperienza di classificazione dei materiali elettorali realizzata nell’ambito dell’Archivio degli Spot Politici, l’Unità 1 lavora sulla costruzione della scheda di rilevazione, volta a cogliere la complessità e le peculiarità, in termini di formati e generi, codici estetici e retorica visiva, della campagna social. In linea con gli obiettivi e la natura multidisciplinare del PRIN 2022, la definizione degli strumenti della content analysis si interfaccia con la progettazione di modelli di analisi informatizzata, ossia metodologie quanti-qualitative basate su processi di machine learning. Il contributo si concentra, pertanto, anche sulla traduzione delle categorie utilizzate per lo studio degli immaginari simbolici, dei costrutti iconografici e degli universi valoriali e di senso che definiscono la comunicazione politica online in modelli informatici, tenendo conto della difficoltà intrinseca degli automatismi nel cogliere la tematizzazione, gli impliciti e i rimandi di una unità di analisi caratterizzata tanto dall’ibridazione di forme e linguaggi quanto da processi di risignificazione e ricontestualizzazione tipiche dell’ambiente mediale digitale. Le elezioni europee 2024 rappresentano il case study per testare la validità dei metodi e degli strumenti di ricerca e per individuare le tendenze e le strategie prevalenti emerse dall’analisi dei materiali prodotti per la campagna social.
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9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 3: Capire i media e il discorso pubblico sulle migrazioni. Strumenti concettuali e metodologie di analisi Luogo, sala: Aula T01 Chair di sessione: Marco Binotto Chair di sessione: Marco Bruno |
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Capire i media e il discorso pubblico sulle migrazioni. Strumenti concettuali e metodologie di analisi 1Sapienza Università di Roma, Italia; 2Università di Padova; 3Università di Milano Bicocca; 4Università del Piemonte Orientale; 5Università di Bologna Chair: Marco Binotto, Marco Bruno - Sapienza Università di Roma Nota introduttiva L’«emergenza migratoria» è la crisi più duratura e trasversale alle opinioni pubbliche di moltissimi paesi, oltre a essere quella sottoposta forse con maggior costanza al vaglio di scienze sociali e media studies. Accanto al conflitto intorno alla definizione del discorso pubblico, una narrazione egemonica definisce da anni la questione, resistendo sia alla sfida dei cambiamenti storici sia alla capacità degli attori e delle scienze sociali di contrastarla. L’ultra trentennale storia della ricerca sociale su media e migrazioni offre un panorama nazionale e internazionale denso di ricerche con risultati ricorrenti ma spesso frammentati e disomogenei per metodi di analisi e per strumenti concettuali adottati. Il panel propone un'articolata composizione di approcci applicabili allo studio di questi fenomeni, corrispondenti ognuno a una issue ricorrente. Il paper intitolato "Il processo di formazione della narrazione nativista nelle rappresentazioni mediatiche della migrazione. Un approccio comparativo orientato ai casi e basato sui sottogeneri giornalistici" offre l’esempio di una ricerca, nata in una prospettiva comparata, sulle grandi narrazioni nei media mainstream; il focus è su "frame" e "narrazioni", due costrutti analitici largamente usati sul tema e che, in particolare dal punto di vista metodologico, qui intersecano il ruolo e l'analisi dei sottogeneri giornalistici. L’intervento dal titolo "La criminalizzazione delle ONG nel soccorso dei migranti: il contributo dei Social-Media Critical Discourse Studies nell’analisi del discorso pubblico sulle migrazioni" tratta lo studio delle conversazioni nei social media intorno a uno dei temi che con maggiore intensità ha attraversato il dibattito negli ultimi anni, la criminalizzazione delle azioni di soccorso e supporto dei migranti; il paper illustra la necessità di integrazione di tecniche quali-quantitative in grado di tenere insieme la dimensione macro, spesso analizzata con grandi quantità di dati, con il livello micro indispensabile per l'analisi critica delle strategie discorsive/argomentative. Il terzo paper - "Le lotte per l’accoglienza dei migranti e per i diritti di cittadinanza dei loro figli: gli spazi di narrazione possibili" - offre uno sguardo su attori sociali e richieste di voice delle “nuove generazioni” incentrato su interviste e sull'analisi qualitativa di campagne, nell'ottica della sfida alle narrazioni dominanti. Il contributo dal titolo "Imaginary wor(l)ds. Metodi creativi per indagare la relazione tra crisi climatica e mobility justice" si focalizza sulle migrazioni derivanti dal cambiamento climatico, una delle declinazioni più rilevanti del fenomeno, e su come queste - sempre in termini di rappresentazione mediale e di discorso - si leghino a questioni etiche e di giustizia, oltre al rilievo epistemico assunto dalle questioni ambientali nella configurazione di rapporti tra nord e sud globali; in questo senso, il paper lavora su un metodo "creativo" per ricostruire quali siano gli immaginari sociali di differenti pubblici significativi, affrontando così in termini espliciti la "strettoia" che talvolta si pone tra metodi consolidati o routinari utilizzati, invece, per l'analisi di realtà emergenti o più sfumate, e in cui è evidente il peso delle rappresentazioni, anche riflessive, dei soggetti. In sintesi, ognuna di queste prospettive, oltre a investigare su ambiti specifici, propone una diversa cassetta degli attrezzi metodologica e una riflessione epistemologica decisamente utili alla comprensione della società attraverso i media. La riflessione sui principali approcci teorici, strumenti concettuali e scelte metodologiche appare non solo utile sul piano della sistematizzazione delle conoscenze sul rapporto tra media e migrazioni, ma consente di allargare lo sguardo ad alcuni dei principali nodi critici dei media studies. Tra questi, ci limitiamo a segnalare la relazione tra regimi di rappresentazione e agency dei soggetti, l'impatto della frammentazione e polverizzazione dei contenuti digitali su forme di discorso pubblico più complessive e coerenti, il ruolo e le diverse chances di potere simbolico che i diversi attori esercitano nella costruzione di immaginari sociali. . La criminalizzazione delle ONG nel soccorso dei migranti: il contributo dei Social-Media Critical Discourse Studies nell’analisi del discorso pubblico sulle migrazioni Dario Lucchesi Nei contesti dei social media come spazi interattivi, multimodali e circularly networked (KhosraviNik, 2018), l’analisi del discorso pubblico sulle migrazioni, ha stimolato nuove riflessioni teoriche e metodologiche negli studi critici del discorso, sottolineando il ruolo delle piattaforme nel riconfigurare la relazione tra discorso e potere (Khosravinik & Unger, 2015; Khosravinik & Esposito, 2024). È acceso infatti il dibattito negli emergenti Social Media-Critical Discorse Studies nel considerare il contenuto discorsivo come non separato dalle pratiche digitali di produzione, distribuzione e consumo, tenendo conto delle affordances come like, condivisioni e hashtag (Khosravinik & Esposito, 2024). Inoltre, la comunicazione sui social media ha dato origine a una nuova dinamica di comunicazione che rende necessario riconsiderare la linearità dei flussi di contenuti e le gerarchie consolidate del potere mediale (Khosravinik & Unger, 2015). Un tema che negli ultimi anni ha evidenziato tali dinamiche all’interno del discorso pubblico sulle migrazioni, è la criminalizzazione delle Organizzazione Non Governative impegnate nel soccorso in mare dei migranti, diventata particolarmente evidente con l’inasprirsi della “crisi dei rifugiati” iniziata nel 2015 (Cerase & Lucchesi, 2022; Lucchesi & Cerase, 2023). Tale processo, se da una parte rientra nel consolidato “frame dell’emergenza” (Dal Lago, 2012; Combei & Giannetti, 2020; Binotto, 2022), esso evidenzia anche la centralità delle piattaforme come arene di discussione pubblica, di disintermediazione e ri-mediazione di pratiche comunicative (van Dijck, Poell & de Waal, 2019) che coinvolgono una pluralità di attori: politici, giornalisti, esponenti del mondo umanitario, ma soprattutto di account che si presentano come “persone comuni” che prendono posizione nel dibattito, contribuendo a favorire la normalizzazione della retorica anti-immigrazione (Krzyżanowski, 2020). Il contributo intende presentare e discutere le opportunità e i limiti di un approccio multidisciplinare quanti-qualitativo che integra alcuni aspetti dei digital methods e dell’analisi delle metriche delle piattaforme (Rogers, 2016), della linguistica del corpus e dell’analisi critica del discorso (Baker et al. 2008; Marchi & Taylor, 2018). L’utilizzo congiunto di queste tecniche è parte di una strategia di ricerca volta a estrarre e sintetizzare l’informazione rilevante partendo da grandi quantità di dati (come metriche e linguaggio utilizzato) fino ad arrivare alle strategie discorsive/argomentative a livello micro (come topoi e strategie di legittimazione). Il caso di studio ha preso in esame Twitter, sia come arena privilegiata per comprendere il dibattito pubblico e ambiente di scambio tra politici, giornalisti e “utenti comuni”, sia perché è possibile fondare le osservazioni su grandi quantità di dati utilizzando in modo coordinato e articolato quest’approccio quanti-qualitativo. Il contributo intende dunque presentare e riflettere attorno agli aspetti metodologici e concettuali a partire da un corpus di oltre 800.000 tweet postati tra il 2017 e il 2020 riguardanti il tema della criminalizzazione delle ONG. Dal punto di vista delle metriche, lo studio ha preso in considerazione i metadati della piattaforma riferiti agli attori più influenti nella costruzione del discorso (n° di mention, n° di tweet pubblicati, n° di retweet e rapporto di retweet/tweet). L’analisi del lessico si focalizza, invece, sulla distribuzione quantitativa di parole e si pone come punto di partenza per indagare la superficie linguistica del discorso e i suoi cambiamenti nel corso del tempo. Infine, l’analisi critica del discorso tende a concentrarsi sull’analisi qualitativa dei temi che hanno contribuito maggiormente al processo di criminalizzazione delle ONG utilizzando alcuni strumenti tipici del campo come i topoi (Reisigl & Wodak, 2001; Hart, 2013; Wodak, 2015) e le strategie di (de)legittimazione (van Leeuwen & Wodak, 1999) frequentemente utilizzate nel dibattito pubblico europeo sulle migrazioni. Il contributo intende dunque riflettere sulle implicazioni epistemologiche dell’integrazione dei metodi nell’ambito dei Social-Media Critical Discourse Studies e la loro applicazione all’analisi del dibattito pubblico sulle migrazioni prodotto e riprodotto contemporaneamente da istituzioni e utenti comuni all’interno delle piattaforme digitali, che si presenta come frammentario, fortemente polarizzato e politicizzato. Da un punto di vista metodologico il contributo si propone di riflettere sulle implicazioni degli approcci quanti-qualitativi volti ad estrarre e sintetizzare informazioni rilevanti da grandi quantità di dati, al fine di garantire un collegamento coerente tra premesse teoriche ed evidenze empiriche, con l’obiettivo di esplicitare in modo più efficace la relazione tra discorso, potere e ideologia, svelando e decostruendo i processi di costruzione dell’alterità (Wodak & Meyer 2001; Reisigl & Wodak 2001). . Il processo di formazione della narrazione nativista nelle rappresentazioni mediatiche della migrazione. Un approccio comparativo orientato ai casi e basato sui sottogeneri giornalistici Marcello Maneri Le rappresentazioni mediatiche delle migrazioni sono un argomento consolidato di indagine scientifica. Due costrutti analitici spesso impiegati in queste ricerche sono quello di “narrazione” e quello di “frame”. Usando il concetto di narrazione si pone lo sguardo sui personaggi, le catene di azioni e la loro agency, l’attribuzione di causalità e la relativa generazione di emozioni e giudizi morali. Con la lente del frame, invece di concentrarsi sulla mise en intrigue, si descrivono le cornici interpretative generali, le angolazioni attraverso le quali sono costruite e fruite le notizie. Nella ricerca comparativa sulle narrazioni di migrazione qui presentata, queste due categorie analitiche sono usate congiuntamente, per restituire la dimensione dinamica, qualitativa e testuale, nel caso della narrazione, consentendo allo stesso tempo un confronto transnazionale e cross-mediale, grazie alla maggiore astrazione dei frame. Questo confronto viene controllato introducendo il concetto di sotto-genere, col quale si intendono "famiglie" di notizie accomunate da argomento, fonti prevalenti, copioni tipizzati e cornici ricorrenti, che presentano diverse strutture di opportunità per vari tipi di narrazione e narratori. La comparazione tra i frame e le narrazioni caratteristici di questi sotto-generi giornalistici (nel nostro caso, arrivi di rifugiati, dibattiti sui diritti dei non-cittadini, e attacchi terroristici), tra paesi di vecchia e nuova immigrazione – ma più che altro con peculiari conversazioni pubbliche sull'identità e l'appartenenza – e tra diverse piattaforme, ovvero stampa, televisione e social media, permette di avanzare alcune generalizzazioni a partire da 17 casi di studio condotti in sei Paesi europei coinvolti nel progetto BRIDGES del programma H2020. Il boundary making operato dalle varie narrazioni, il loro framing, l'accesso alla posizione di narratore nel sistema mediatico ibrido, e le strategie utilizzate per sfruttare o contrastare gli squilibri di potere ivi presenti, mostrano declinazioni diverse al variare non solo di alcune caratteristiche nazionali e del tipo di piattaforma, ma anche del sotto-genere considerato. . Le lotte per l’accoglienza dei migranti e per i diritti di cittadinanza dei loro figli: gli spazi di narrazione possibili Andrea Pogliano Prendendo spunto da una più ampia ricerca europea sulle narrazioni delle migrazioni (progetto H2020, BRIDGES), l’intervento presenterà due campagne che hanno cercato di sfidare le narrazioni egemoniche su migrazioni e cittadinanza. La prima è Io Accolgo, fondata nel 2018 da un'ampia rete di organizzazioni per opporsi a diversi aspetti dei decreti sicurezza approvati quell'anno, in particolare a quelli che ridimensionavano il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. La seconda è "Dalla parte giusta della storia", nata nel 2020, dopo una gestazione all'interno delle reti e delle organizzazioni di figli di migranti che si battono per la riforma della legge sulla cittadinanza e per contrastare il razzismo istituzionale. Sulla base di una ricerca qualitativa condotta attraverso interviste agli attori-chiave delle campagne, analisi della comunicazione prodotta e della visibilità mediatica, si discuteranno le principali narrazioni e strategie di comunicazione, concentrandosi sulla posizionalità degli attori sociali che promuovono le campagne, sui processi di costruzione e decostruzione dell’opposizione noi-loro e sulle opportunità politiche. Le due campagne mostrano differenze strutturali significative: in termini di valori e interessi interni (omogeneità vs. eterogeneità), in termini di vicinanza al potere e alla politica (posizione non egemonica vs. parzialmente egemonica), in termini di chi parla a nome di chi (italiani bianchi che parlano a nome dei migranti vs. figli di migranti che parlano a nome di se stessi), in termini di prospettiva generazionale, etc. Queste differenze hanno avuto effetti diretti sulle strategie mediatiche e politiche, sulla sperimentazione e sull'originalità delle narrazioni e anche sui diversi modi in cui le due campagne hanno ottenuto un parziale successo mediatico. Con questo paper si intende porre l’accento sull’importanza della costruzione dal basso di altre narrazioni in un discorso pubblico in cui i media giornalistici hanno ancora un ruolo fondamentale nel dare e nel negare spazi di parola e nell’imporre i frame con i quali da troppo tempo si ragiona di migrazioni e cittadinanza. Si intende anche esplorare i concetti e i metodi per indagare questi spazi di produzione e i messaggi cui danno forma. . Imaginary wor(l)ds. Metodi creativi per indagare la relazione tra crisi climatica e mobility justice Pierluigi Musarò, Elena Giacomelli, Stefania Peca Negli ultimi decenni, le migrazioni e i cambiamenti climatici hanno acquisito sempre più importanza nei dibattiti pubblici e politici, al punto da venire considerati come due tra le più importanti questioni morali del XXI secolo. Inquadrati nei media mainstream e nel discorso politico del "Nord globale" come fenomeni di emergenza, eccezionali, straordinari, da affrontare in chiave di sicurezza e difesa, vengono sempre più riconosciuti come strettamente correlati tra loro e sempre più vicini alla nostra realtà quotidiana (Giacomelli, 2023). Che il focus sia sulla paura della siccità o dell’alluvione, o sull’invasione degli sfollati provenienti da un non meglio definito altrove, le cosiddette crisi climatiche e migratorie vengono spesso inquadrate come minacce alla sicurezza, personale o nazionale, o emergenze umanitarie che assomigliano a sintomi improvvisi di un sistema globale tutto sommato in ottima salute (Musarò, Parmiggiani, 2022). Ma è davvero così? Il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni è rilevabile esclusivamente in termini di movimenti di massa da Sud verso Nord, di "rifugiati climatici" da governare e regolamentare, di confini da rafforzare? O si tratta, piuttosto, di fenomeni che hanno cause strutturali storiche che sottostanno al modello di sviluppo capitalistico, all'appropriazione coloniale, ai processi di confinamento e alla diversa responsabilità tra chi più inquina e chi più ne soffre gli effetti? Obiettivo del nostro intervento è analizzare gli immaginari sociali collegati a questi due fenomeni, con un focus specifico su come le narrazioni, e spesso anche le percezioni, del loro nesso (non) siano inquadrate in termini di giustizia (Sheller 2018, Baldwin, 2022). Consapevoli che l'utilizzo della metodologia creativa in Italia sta assumendo sempre più rilievo (Giorgi et al. 2021, Pizzolati 2021), poichè in grado di aprire un’arena di ricerca capace di far emergere il punto di vista delle persone coinvolte, a loro volta portatrici di competenze ed esperienze che incidono sulla percezione del fenomeno osservato, abbiamo sviluppato uno strumento metodologico da noi definito “Imaginary wor(d)s”. Si tratta di una metodologia creativa da noi sviluppata all’interno dei progetti europei “Re-think the challenge” e “Panicocene. Reframing climate change-induced mobilities”, tramite cui abbiamo cercato di ricostruire e comprendere quali siano gli immaginari di tre pubblici di rilievo sul nesso tra crisi climatica e migrazioni. I tre gruppi indagati sono: accademici, giornalisti/professionisti dei media e attivisti/artivisti. Questi tre gruppi sono stati invitati a partecipare a 5 seminari sul tema, all’interno di ognuno dei quali erano previsti due o tre keynote speakers di rilevanza internazionale e, prima dei loro interventi, una sessione interattiva volta a riflettere insieme sui materiali prodotti in anticipo dagli stessi partecipanti. Affinchè potessero partecipare, è infatti stato chiesto agli stessi di condividere una breve storia (inventata o reale, scritta o visuale) capace di svelare le narrazioni che circondano la mobilità indotta dai cambiamenti climatici. Con l’obiettivo di traslare il processo dall’individuale al collettivo, le storie sono state raccolte, condivise e discusse in gruppi all’interno di ciascun seminario e, a seguire, con gli stessi keynote speakers. Attraverso i risultati emersi evidenzieremo il concetto di (in)giustizia e le proposte per sostenere una possibile etica della cura. |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 4: Influ-attivismo: nuove forme di impegno civico tra attivismo digitale e influence culture Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Marco Pedroni |
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Influ-attivismo: nuove forme di impegno civico tra attivismo digitale e influence culture 1Università degli Studi di Bergamo, Italia; 2Università di Ferrara; 3Università Cattolica del Sacro Cuore; 4Università IULM; 5Sapienza Università di Roma; 6Politecnico di Milano Chairperson: Marco Pedroni, Università di Ferrara . Nel contesto di pervasiva digitalizzazione delle relazioni sociali e politiche sta emergendo con forza la figura dell’influ-activist, soggetto che si colloca a metà strada tra l’attivismo digitale e la influence culture. Il panel si propone di esplorare questa intersezione, attraverso l’analisi di pratiche, strategie comunicative, e impatto sui pubblici di questi nuovi attori del cambiamento sociale. Il primo contributo, Gli influ-activist nell’ecosistema digitale: Pratiche, interazioni e pubblici, apre il dibattito focalizzandosi sugli influ-activist come soggetti produttori di contenuti nell’ecosistema digitale e proponendo un inquadramento disciplinare del fenomeno attraverso una mappatura delle principali sfide che questo pone alla ricerca empirica e alla riflessione teorica. A questo scopo, si propone uno schema d’analisi tripartito, che si focalizza innanzitutto sugli influ-activist come attori emergenti dell’ecosistema comunicativo digitale, indagandone tanto le strategie comunicative e di validazione, quanto le valorizzazione della propria presenza online; in secondo luogo, si indaga la dimensione ecosistemica del fenomeno, focalizzandosi sulla relazione tra influ-activist e il complesso network di attori, umani e non umani, con cui essi sono in relazione di cooperazione/competizione/scambio; infine, ci si concentra sulle loro audience interconnesse, tanto nelle attività online quanto in quelle offline. In particolare, tale schema analitico verrà utilizzato per affrontare il problema chiave del difficile equilibrio tra autopromozione e impegno civico che caratterizza l'influ-activismo contemporaneo. Il secondo paper, Influ-activist: tra digital feminism e logiche delle piattaforme, si concentra sul ruolo degli influ-activist nel contesto del digital feminism su Instagram. Attraverso l’analisi di pratiche e auto-rappresentazioni di influ-activist italiani, il contributo esplora la dialettica tra visibilità mediatica e vulnerabilità, evidenziando come le logiche delle piattaforme influenzino e, talvolta, limitino le potenzialità dell’attivismo femminista nel contesto della neoliberal visual economy. Il terzo paper, Che genere di influencer, tra femminismo e retorica, indaga l’efficacia e l’autenticità dell’attivismo femminista promosso da influencer attiviste. Attraverso una prospettiva critica, il lavoro analizza il ruolo e l’impatto di queste figure nel promuovere l’uguaglianza di genere e amplificare le voci marginalizzate, riflettendo sui limiti e sulle sfide poste dall’attivismo online nel contesto del femminismo neoliberale. Il panel si chiude con il contributo Normalizzare la resistenza alla ‘scienza’. I catalizzatori del dissenso alla prova della fase post-pandemica. Attraverso l’osservazione etnografica online, il contributo esplora il rapporto tra influ-activism e contestazione dell’autorevolezza veridittiva della scienza ufficiale. L’analisi delle strategie comunicative ed economiche di un cluster di influ-activist mostra come sia oggi in atto un processo di ‘normalizzazione’ del dissenso alla scienza, che segue la fase di ‘catalizzazione’ tipica della crisi pandemica. Questi influencer hanno agito come mediatori neutrali amplificando le voci degli esperti ‘alternativi’ e delle comunità critiche verso le politiche scientifiche istituzionali. Tali dinamiche di resistenza si inseriscono nell'ecosistema digitale, rappresentando un ulteriore esempio ibrido tra attivismo digitale e cultura dell’influenza. Complessivamente, il panel si propone di offrire una riflessione critica e articolata sul fenomeno dell’influ-attivismo, stimolando un dibattito sulla capacità degli influ-activist di agire come catalizzatori di cambiamento, sfidando o interiorizzando le strutture di potere e promuovendo nuove forme di impegno civico nell’ecosistema digitale. . Gli influ-activist nell’ecosistema digitale: Pratiche, interazioni e pubblici Maria Francesca Murru, Università di Bergamo Il contributo di apertura del panel intende mettere a fuoco il fenomeno degli influ-activist come soggetti comunicatori nell’ecosistema digitale contemporaneo, analizzando le modalità di legittimazione sociale e simbolica e l’interdipendenza con un ecosistema digitale che impone specifici regimi di visibilità e di attenzione. Obiettivo dell’analisi è comprendere come questi attori ibridi navighino tra autopromozione e impegno sociale, tra logiche della visibilità e commitment verso cause politiche e sociali. Il framework analitico proposto tiene conto di tre dimensioni principali:
La proposta mira a offrire un contributo fondativo allo studio di un fenomeno che è indagato dalla letteratura sotto una pluralità di etichette, quali networked o digital media activism, attivismo performativo, contentious publicness e altre (Land 2009, boyd 2011, Tufekci 2013, Rambukkana 2015, Papacharissi 2015, Boccia Artieri 2021; Kavada e Poell 2021, Treré & Kaun 2021; Zurovac, Brilli & Ricci forthcoming; Repo, 2020). Inoltre, intende offrire un’analisi critica di come il potere si manifesti e venga contestato negli spazi digitali. Gli influ-activist, infatti, operando all’incrocio tra comunicazione, attivismo e logiche commerciali, attivano complesse relazioni tra potere e pratiche creative. La loro capacità di usare piattaforme digitali per mobilitare l’opinione pubblica, promuovere cambiamenti sociali o politici, e allo stesso tempo sfruttare le logiche commerciali del mercato, innesca un corto-circuito tra nuove forme di politicizzazione e l’anestetizzazione del conflitto sociale all’interno della influence culture. . Influ-activist: tra digital feminism e logiche delle piattaforme Francesca Comunello (Sapienza Università di Roma) Il contributo si focalizza sulle pratiche di alcunə influ-activist italianə su Instagram, collocandosi nel filone di analisi del networked feminism (Clark-Parsons, 2022) e dell’hashtag feminism (Myles, 2018), adottando una prospettiva di mutual shaping di genere e tecnologia (digitale). Selezionata per via della sua diffusione fra i pubblici di giovani e giovani adulti e per via delle specifiche caratteristiche di un ambiente basato prevalentemente sulla comunicazione (audio-) visiva e sul ricorso agli hashtag, la piattaforma Instagram rappresenta un punto di osservazione privilegiato per analizzare la dialettica tra le logiche di visibilità tipiche dei social media (Van Dijck e Poell, 2013), in cui operano il «popular feminism» (Banet-Weiser et al., 2018) e il «neoliberal feminism» (Rottenberg, 2014), e le dinamiche di vulnerabilità cui sono espostə content creator e influencer. Analizzando le pratiche di negoziazione dellə utenti con le affordances della piattaforma e le sottese social media logics, oltre che il posizionamento dellə protagonistə nel più ampio contesto del digital feminism, la nostra riflessione osserva potenzialità e limiti di un’azione femminista che si dispiega nell’ambito della «neoliberal visual economy» di Instagram (Mahoney, 2022). Concretamente, abbiamo selezionato 11 profili Instagram di alcunə influ-activist italianə, visibili in relazione a temi e prospettive femministe e/o di genere. Facendo riferimento alla prospettiva per cui il femminismo si concentra sulle diseguaglianze di genere «all’interno di una matrice di altre forme di oppressione», che includono anche la sessualità (Gill, 2007, p.25), oltre che all’intersezionalità insita nel femminismo di quarta ondata (Pruchniewska, 2018), abbiamo inteso come femministi anche profili che si riferissero a tematiche e pratiche prevalentemente legate ai diritti LGBTQ+. Analizzando i post prodotti in un arco temporale di tre mesi, abbiamo considerato elementi quali i temi affrontati, gli hashtag utilizzati, gli stili espressivi, le forme di auto-presentazione, le reazioni degli e delle utenti. La nostra analisi mette in luce potenzialità e limiti dell’attivismo femminista e di genere su Instagram, offrendo un panorama variegato delle pratiche e auto-rappresentazioni legate all’essere influ-activist su questa piattaforma. Se, da un lato, la maggior parte dei profili si spende per la disseminazione di messaggi femministi, dall’altro è possibile evidenziare un’adesione alle logiche di piattaforma e ai meccanismi dell’attention economy. Riscontriamo, in particolare, l’assenza di esplicite forme di problematizzazione dell’utilizzo di Instagram per l’attivismo, nonché un’aderenza non necessariamente critica ai canoni auto-rappresentativi delle influencer mainstream del panorama italiano, con l’eccezione di alcuni account caratterizzati da forte componente verbale anziché visiva. Allo stesso modo, riscontriamo un’adesione a forme di rappresentazione normative della bellezza, le quali sono sovvertite solo nel caso di alcunə influ-activist LGBTQ+. In questi processi, è possibile evidenziare l’influenza esercitata dalle sensibilità del popular feminism e del neoliberal feminism suə creator individuatə. Attraverso la curatela di un profilo personale, piuttosto che di una pagina associativa, emerge necessariamente l’idea dell’influ-activist e, per estensione, del femminismo come identità da performare più che come movimento, un’identità incentrata sulla singola persona e sulle sue pratiche di self-branding, sebbene queste non siano necessariamente normative ma enfatizzino anche forme di empowerment, per quanto individuali anziché legate a dimensioni strutturali. . Che genere di influencer, tra femminismo e retorica Maria Angela Polesana, IULM Milano L’emergere del femminismo neoliberale ha suscitato dibattiti sull’efficacia e sull’autenticità dell’attivismo, specialmente negli spazi online. Questo abstract esplora il ruolo delle influ-activist nel campo del femminismo, analizzando il loro impatto, le sfide e le sfumature del loro coinvolgimento nelle questioni sociali. Partendo dalla prospettiva di genere come pratica dinamica e performativa, (ri)prodotta attraverso una serie di atti (Butler, 2020), il presente lavoro si colloca nel contesto in cui il genere è storicamente costruito, socialmente e culturalmente determinato (ibid., 1990). In questo scenario, il corpo rappresenta una delle principali ‘evidenze’, come parte visibile e oggettificata della rappresentazione di genere. Attraverso l’analisi di questi processi comunicativi entro cui il genere è collocato come risultante da processi condivisi di costruzione sociale (Connell 2002, Poggio 2006), esploreremo i casi di alcune influencers attive nel panorama femminista contemporaneo, con particolare attenzione a figure come Giulia Blasi, Irene Facheris, Giorgia Soleri e Federica Fabrizio. Esaminando criticamente il panorama in evoluzione del femminismo digitale e il ruolo di queste influencers al suo interno, si discuterà del modo in cui esse navigano la complessità dell’attivismo online nel contesto del femminismo neoliberale, affrontando interrogativi sulla autenticità, cooptazione e commercializzazione del discorso femminista. Partendo dalla teoria femminista critica e dagli studi sui media, il nostro contributo esamina come queste influencers negozino la loro presenza online per sfidare le strutture patriarcali, promuovere l’uguaglianza di genere e amplificare le voci marginalizzate. Attraverso un’analisi comparativa delle loro strategie, dei contenuti e dell’interazione con il pubblico, rifletteremo sull’efficacia e sui limiti dell’attivismo degli influencer nel promuovere agende con tematiche femministe. Presenteremo dunque alcune riflessioni a partire da una ricerca empirica, attraverso un’analisi del discorso (dei contenuti pubblicati attraverso i social media) che ha mappato e problematizzato il modo in cui queste influencer mobilitano le loro piattaforme per affrontare diverse questioni femministe (dalla critica al corpo “bello e sano”, alla discriminazione lavorativa, ai diritti LGBTQ+). A partire da alcuni esempi degli studi di caso, discuteremo le complessità dell’influ-attivismo all’interno del quadro del femminismo neoliberale, considerando importanti questioni quali autenticità, cooptazione e mercificazione del discorso femminista. . Normalizzare la resistenza alla “scienza”. I catalizzatori del dissenso alla prova della fase post-pandemica Paolo Bory, Politecnico di Milano La presentazione riprende un lavoro di ricerca etnografica online svolto tra il 2020 e il 2023 sui meccanismi e i fattori che influenzano le comunità di conoscenza rifiutata nel contesto italiano, (autore). Durante il periodo di ricerca empirica, e in particolare negli spazi di conversazione e scambio informativo tra gli utenti, è stata identificata una particolare tipologia di influencer, definita “catalyst of dissent” (catalizzatore del dissenso - CDD). Con particolare riferimento al contesto pandemico, in cui la ricerca empirica ha avuto luogo, i catalizzatori del dissenso si presentavano come testimoni imparziali che mediavano “le voci trascurate o inascoltate” degli esperti cosiddetti “alternativi” e di quelle comunità che criticavano le scelte e i metodi adottati dalle élite scientifiche per gestire la pandemia. Ancora oggi, i CDD, possono mediare non solo controversie scientifiche, ma porsi come amplificatori di una varietà di argomenti e comunità non sempre coerenti tra loro; non si concentrano quindi unicamente su un problema, un dibattito, o un’unica battaglia ideologica, ma tendono ad agire come veri e propri testimoni neutrali. Nonostante ciò, è chiaro che nel dibattito pubblico la polarizzazione tra scienza istituzionale e movimenti/attori considerati “antiscientifici” ha favorito e nutrito sia la crescita degli utenti e i contenuti e le risorse che gli stessi hanno fornito ai catalizzatori, durante e dopo la pandemia. Seppur facilmente assimilabili al fenomeno dello science-related populism (Mede & Schafer 2020; Ylä-Anttila 2018), i catalizzatori del dissenso svolgono un ruolo di mediazione complesso, intrattenendo molteplici rapporti di interesse e a volte di co-dipendenza con le comunità e gli individui che li seguono e sostengono (Tosoni 2021). I catalizzatori si differenziano inoltre da altre forme di attivismo digitale come quelle descritte per esempio da Gerbaudo (2012), ponendosi spesso al confine tra ruoli diversi, come ad esempio quello di attivista e/o giornalista imparziale. Dopo una breve introduzione al ruolo e alle caratteristiche chiave della figura del catalizzatore del dissenso, la presentazione intende ripercorrere la storia di alcuni catalizzatori che hanno svolto un ruolo chiave nel panorama mediale delle comunità di conoscenza rifiutate (per esempio, Stop-5G, comunità per la libertà di scelta vaccinale) durante la pandemia di Covid-19. Attraverso una breve re-immersione nel campo etnografico, il lavoro intende ricostruire come i diversi posizionamenti nel mercato mediale e le strategie comunicative adottate nel contesto italiano durante la pandemia abbiano portato queste figure, una volta centrali nell’ecosistema delle comunità di conoscenze rifiutate in Italia, a seguire traiettorie e parabole differenti fino ad oggi. L’analisi si concentrerà in particolare sui seguenti aspetti: come sono stati costruiti e si sono modificati nel tempo gli asset mediali e organizzativi dei catalizzatori; se e in che misura lo spostamento nel tempo verso un tema centrale o piuttosto il mantenimento di un’eterogeneità narrativa (per esempio un progressivo spostamento del focus e dell’attivismo sul tema delle vaccinazioni, o il mantenimento di una lista eterogenea di argomenti da affrontare attraverso voci più o meno esperte) abbia favorito l’ascesa dei catalyst; come le precedenti azioni hanno influenzato o sono state dettate in parte o sostanzialmente da strategie di mercato di breve-medio periodo. |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 5: Partecipazione e territori Luogo, sala: Aula Multimediale Chair di sessione: Paola Parmiggiani |
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Processi partecipativi ibridi per le persone vulnerabili nelle comunità liminali. Metodologie di analisi e di intervento Università di Roma Tor Vergata, Italia L’idea centrale del paper è quella di presentare e discutere le metodologie utilizzate per facilitare la partecipazione ibrida (on site e on line) della popolazione vulnerabile nelle comunità liminali in alcune regioni del Sud Italia e in alcuni paesi europei (Croazia, Polonia, Grecia). Nel paper adottiamo il concetto di vulnerabilità universale ovverosia l’idea che tutti gli esseri umani sono vulnerabili almeno una volta nella loro vita rispetto ad alcune sfere della vita (Karwacki, Volterrani 2024). La vulnerabilità ha due assi portanti: le varie sfere della vita (reddito, lavoro, abitazione, relazioni sociali, relazioni familiari, salute, capacità e competenze digitali, capacità e competenze culturali, livello di istruzione, relazioni con le istituzioni) e il ciclo di vita. Per ogni persona l’analisi dell’incrocio fra queste due dimensioni consente di valutare lo stato della vulnerabilità individuale. A questi aspetti vanno aggiunte altre dimensioni che intervengono sullo stato di vulnerabilità individuale quali le risorse (personali, di contesto, finanziarie), gli entanglements, le competenze e le disponibilità digitali e i possibili processi di partecipazione disponibili. Il lavoro di ricerca che presentiamo si concentra sugli "spazi liminali", definiti come spazi caratterizzati sia da (1) processi di rifigurazione (Knoublach & Low, 2017) e, in particolare connessi con i processi di mediatizzazione profonda (Hepp, 2020; 2022) sia da (2) processi di marginalizzazione e vulnerabilizzazione (Castel, 1995; Brown, Ecclestone, Emmel, 2017), a loro volta connessi anche a fenomeni come la gentrificazione (Sennet, 2018) e defamiliarizzazione (Blokland, 2017; Blokland, Kruger, Vief e Schultze, 2022). Uno "spazio liminale", trovandosi "al confine di due spazi dominanti, che non fa pienamente parte di nessuno dei due" (Dale e Burrell, 2008), non apparefacilmente definibile in termini di utilizzo. Sono spazi in transizione (Turner 1974) dove le identità individuali e collettive rimangono fluide (Melucci 1996) oppure ancorate alle specificità anche devianti dei territori di appartenenza tanto da renderle familiari e scontate nel panorama della vita quotidiana (Blockland 2017, pp. 54-60). Partiamo dal presupposto che quando le comunità abitano gli spazi liminali e li considerano vitali e significativi per la loro vita quotidiana, questi cessano di essere spazi ambigui e diventano invece luoghi di abitazione transitori, che danno senso alle attività, ai linguaggi e alle istanze che vi si sviluppano (Casey, 1993). Il lavoro di ricerca fa riferimento sia alle comunità luminali del Sud Italia incontrate tramite il percorso di formazione e di ricerca/azione attivo da 15 anni di FQTS (Formazione Quadri Dirigenti del Terzo Settore nel Sud) delle quali abbiamo selezionato quelle più significative per la riflessione che proponiamo (Gela, San Severo, Pellaro) sia quelle incontrate attraverso il progetto europeo CERV in Polonia (Elblag), Croazia (Rjieka) e Grecia (Karditsa). In ciascuna di queste comunità liminali sono presenti persone con molteplici e articolate vulnerabilità nelle varie sfere della vita (con particolare densità di quelle sociali, culturali ed economiche) e rispetto al corso di vita con le quali sono stati co-costruiti i percorsi di ricerca-azione, di partecipazione ibrida (on site e on Line) e di co-design. All’interno della ricerca-azione per rendere protagoniste e dare voce e spazi di partecipazione alle persone vulnerabili abbiamo usato un approccio per lo sviluppo sociale delle comunità che prevede un percorso di ascolto / osservazione partecipante / ricerca-azione / partecipazione ibrida / co-design progettuale, metodologie per facilitare il protagonismo e la partecipazione ibrida della popolazione vulnerabile attraverso l’uso di piattaforme di prossimità digitale (Ragnedda 2020; Antonucci, Sorice, Volterrani 2022), metodologie per facilitare il reale protagonismo nei processi decisionali inerenti le comunità liminali attraverso strumenti ibridi di democrazia deliberativa. Tra sospensione e ri-appropriazione: iniziative per la riparazione nel post-terremoto dell’Appennino centrale Università di Urbino, Italia Il terremoto che ha colpito l'Appennino centrale italiano tra il 2016 e il 2017 è uno dei disastri socio-economici più significativi accaduti in Italia negli ultimi anni. Il cratere comprende un’area estesa in quattro Regioni (Marche, Lazio, Abruzzo e Umbria) e frammentata in 140 Comuni, interessata nel suo insieme dai fenomeni di marginalizzazione politico-economica e spopolamento che caratterizzano le aree interne italiane (Barca et al. 2014). Nel quadro di un’emergenza mai davvero conclusa (a cui nel 2020 si aggiunge l’emergenza pandemica), il paesaggio quotidiano nel cratere dell’Appennino centrale è composto da Zone Rosse ancora inaccessibili, strutture emergenziali che ospitano negozi e servizi, e dalle aree SAE (Soluzioni Abitative di Emergenza), le abitazioni unifamiliari predisposte dalla Protezione Civile. La patologizzazione degli sfollati durante l’emergenza e la successiva burocratizzazione dei terremotati, si erano già dimostrate tendenze in grado di agire come spinte alienanti e individualizzanti, sfibrando i legami sociali e mettendo in crisi l’attività dei comitati (Emidio di Treviri 2018, 2021). Le mappature di ascolto della comunità evidenziano, infatti, una forte richiesta di maggiore trasparenza e condivisione dei processi decisionali, nel quadro di una tensione tra attaccamento al territorio, sfiducia e rassegnazione antisistema che richiede di essere presa in carico oltre la logica emergenziale (Boccia Artieri et al. 2018). Questo intervento prende le mosse da una ricerca etnografica prolungata sull’abitare nel post-disastro, intendendo questo focus come punto di vista peculiare sull’Appennino centrale contemporaneo: da un lato le pratiche abitative sono la manifestazione di un adattamento processuale e discontinuo all’urbanistica dell’emergenza, dall’altro l’abitare emerge come chiave di lettura dallo stesso campo discorsivo del post-disastro, sovraccarico di problemi e questioni intrecciate che riguardano il presente e il futuro della relazione tra abitanti e territori. Il crinale spaziale della riconfigurazione urbanistica post-disastro si intreccia con le temporalità dilatate e differenziali di una ricostruzione che si muove a macchia di leopardo. Ad emergere nella ricerca etnografica sono le differenti risorse e capacità del posizionamento individuale e collettivo in uno scenario futuro profondamento incerto, caratterizzato dall’ossimoro della “temporaneità permanente” (Mariani 2023). Il presente intervento si propone di analizzare esempi di iniziative situate in zone diverse del cratere, con diversi obiettivi e tempistiche, e tuttavia accomunate dal tentativo di coinvolgere abitanti e territori in percorsi di partecipazione orientati al futuro della ricostruzione (Polci 2023). Il primo riguarda la scrittura corale di una guida di Ussita, intitolata “Guida di Comunità”, la quale si confronta con le potenzialità del turismo per la ripresa nel post-terremoto, ma anche con i rischi connessi alla valorizzazione e alla “tipizzazione” (Semi 2022). Il secondo riguarda i progetti di autoricostruzione, che tra auto-organizzazione e normative stringenti propongono una concezione di ricostruzione che travalica la dimensione materiale e si specifica come “riconoscimento” pubblico e successiva “riparazione” del danno (Centemeri 2006). Il paesaggio come processo culturale. L’evoluzione del rapporto uomo-natura e la continua (ri)definizione partecipata dell’identità dei luoghii Università di Camerino, Italia La Convenzione Europea del Paesaggio considera il paesaggio come «bene», indipendentemente dal valore concretamente attribuitogli, ma come parte importante del patrimonio di una comunità. Esso è, infatti, un elemento di identità culturale, in quanto nutre il senso di appartenenza al luogo di individui e gruppi sociali, ed è al contempo un processo culturale, un intreccio storico e relazionale pressoché indissolubile di “ambiente” e “uomo”, che si esprime nella forma e nelle possibilità del “territorio”. Il paesaggio è lo spazio simbolico della comunità insediata: sono gli abitanti e gli appartenenti alla comunità locale i principali e normali produttori e conservatori della territorialità, e proprio la permanenza e la durevolezza dei caratteri identitari costituiscono l’indicatore principale della sostenibilità e il valore del luogo. Non si dà paesaggio senza trasmissione di saperi, modi e stili specifici di rapporto con il territorio, senza tradizione: si tratta di un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del patrimonio, nel mantenimento della riconoscibilità del genius loci in maniera coerente ma sempre rinnovata. Paesaggio e memoria intrattengono dunque rapporti reciprocamente costitutivi. Nella CEP, l’introduzione del «fattore percettivo» rimanda a una dimensione sociale e partecipata del paesaggio. Solo la percezione della comunità può legittimare il riconoscimento del paesaggio in quanto tale, introducendo così nuove scale di valori e valutazione. A partire da questo quadro teorico di riferimento, il presente studio si è sviluppato attorno a due domande di ricerca: quale può essere la funzione della sociologia e della ricerca sociale nel riconoscimento del senso dei luoghi e nella gestione del cambiamento continuo della relazione uomo-natura e del paesaggio, verso una continua ri(definizione) dell’identità? Quale contributo possono dare le conoscenze sociologiche e comunicative nella condivisione di responsabilità per la conservazione, la valorizzazione ma anche per la strutturazione di una narrazione storica del paesaggio, in un sistema multidimensionale e multisettoriale? I risultati di alcune ricerche e progetti a diversa scala, recenti e in corso, – Horizon Europe, Interreg, PRIN, locali[1] – sembrano ravvisare, in questo ambito, le caratteristiche di una sociologia che “si fa pubblica”, attivando sfere pubbliche dialogiche e competenti, capaci di rendersi protagoniste del processo di cambiamento-riconoscimento-identificazione-comunicazione del paesaggio. Diversi approcci sociologici, d’altra parte, risultano determinanti in diverse fasi: nelle pratiche di sensibilizzazione delle popolazioni al bene paesaggio, nel riconoscimento delle caratteristiche identitarie del genius loci, nell’innescare momenti di autoformazione degli abitanti verso uno specifico senso di appartenere a una comunità e a un luogo, che li renda più sensibili agli equilibri dell’ambiente in cui vivono, che rafforzi in loro la capacità di organizzarsi, di affermare la propria volontà di partecipare alle decisioni pubbliche sul paesaggio e di accedere alle basi del potere sociale. Anche gli strumenti comunicativi seguono sentieri multidisciplinari, dalle metodologie visuali e di design thinking alle nuove tecnologie, dai social media all’AI, ed evidenziano l’imprescindibile necessità di avvalersi delle collaborazioni e competenze multisettoriali del design, della pianificazione, dell’ecologia, della filosofia, dell’estetica, dell’etica, della storia, dell’informatica, del diritto, verso la co-creazione di paesaggi culturali. Siamo allora in presenza di una vera e propria rivoluzione concettuale con la quale viene superato l’approccio settoriale del paesaggio, in funzione di una visione integrata e trasversale, che si riflette in alcuni ambiti cruciali della contemporaneità, quali, ad esempio, quello della pianificazione territoriale, anche post-disastro e/o in territori fragili, o quello del turismo sostenibile, con mete non cristallizzate e continuamente rinegoziate, e conseguenti nuovi modi di fruizione, comunicazione e valorizzazione territoriale. [1] BETTER Life _ Bringing Excellence to Transformative Socially Engaged Research in Life Sciences through Integrated Digital Centers - Horizon Europe; BOOST5 Leveraging results of 5 IT-HR projects to boost touristic valorisation of cultural, off-road, industrial and natural heritage - Interreg Italia Croazia Migrazione e politiche di rigenerazione territoriale: un approccio win-win? Esperienze nell'Appennino italiano 1Università di Bologna, Italia; 2Università di Bologna, Italia Le aree di contrazione europee, regioni in declino demografico ed economico (ESPON, 2017), hanno rivestito nell'ultimo decennio un ruolo significativo nell'accoglienza di migranti volontari e forzati (Membretti et al., 2017; Anci e Ministero dell'Interno, 2022). Nonostante le statistiche descrivano questo fenomeno come strutturale, con effetti eterogenei tanto sui territori quanto sulle comunità abitanti (Kordel et al., 2018), nelle narrazioni mediatiche e nei discorsi politici prevale solitamente una cornice emergenziale (Musarò e Parmiggiani, 2022), alterizzante verso i migranti e improntata a inquadrare come "scarto" (cf. Lynch, 1992) le aree in contrazione (Membretti et al., 2022; Moralli et al., 2023). Contrastando sia la marginalizzazione pubblica delle pratiche che non si allineano alla narrazione dominante in tema di migrazione, sia l'assenza di sinergie tra le politiche di rigenerazione territoriale e quelle di accoglienza – aspetti che limitano fortemente sia la conoscenza reciproca e lo scambio di buone pratiche tra contesti territoriali sia la possibilità di sviluppare approcci sostenibili dell'- e all'accoglienza nei territori interni su scala nazionale – la ricerca mira a indagare da una prospettiva bottom-up il ruolo degli enti locali e delle cooperative del terzo settore nell'attivazione di progetti di accoglienza in un contesto di governance multilivello. Inoltre, indaga quali siano le codizioni attraverso cui i progetti locali contribuiscono all'accessibilità sociale, alla promozione di strategie win-win (tanto per gli abitanti di lunga data quanto per quelli di nuova e vecchia migrazione) e di empowerment individuale e collettivo. |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 6: Pratiche della cura Luogo, sala: Aula VI Chair di sessione: Lucia Boccacin |
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Dai gruppi di auto e mutuo aiuto offline a quelli online: l'essere umano ancora al centro 1Università di Teramo, Italia; 2Università Ecampus Il contributo prende in considerazione l'evoluzione e il ruolo delle comunità di auto mutuo aiuto online, anche come uno degli ultimi terreni di sfida verso l’intelligenza artificiale. Si affrontano i passaggi dai modelli tradizionali di mutuo auto aiuto ai forum in internet e alle piattaforme social, verificando, sulla base dell’esperienza e della percezione degli utenti, se vi possano essere effetti terapeutici o comunque di cura, oltre che informativi. Un primo step sul campo, dopo lo studio della letteratura, sono una serie di interviste in profondità ai fondatori, agli amministratori e a diverse tipologie di utenti di almeno due gruppi di auto mutuo aiuto online: il primo a persone legate ad abusi subiti in relazione con persone descritte con caratteristiche riconducibili a disturbi narcisistici di personalità (nel forum, oltre alle persone che si raccontano come vittime, vi sarebbero anche psicologi e persone con questi disturbi diagnosticati) e il secondo frequentato da persone affette da pseudotumor cerebri, o comunque interessate alla malattia. Si vuole percorrere sia la storia di questi gruppi, che delle persone che li hanno frequentati e capire quali effetti positivi ne hanno tratto, di conforto, di informazione come di guida o motivazione verso la cura, ma anche i rischi connessi, come forme di dipendenza e questioni di privacy. Inoltre viene presa in considerazione la forma di organizzazione spontanea, per lo più democratica e orizzontale di queste realtà, il loro possibile percepirsi come comunità ed il senso di appartenenza (in alcuni casi "famiglia") dei membri. Infine, si ragiona se l’AI potrà colonizzare, o meno, anche questi spazi, dove l’empatia umana ed esperienze uniche e irripetibili delle persone sembrano rappresentare ancora viatici insostituibili per il confronto e il supporto umano. Media e rappresentazione del disturbo psichiatrico in adolescenza, tra cura e intrattenimento 1Sapienza Università di Roma, Italia; 2Policlinico Umberto I Roma, Reparto Emergenze Psichiatriche Adolescenti UOC Neuropsichiatria Infantile Negli ultimi 15 anni il disturbo mentale tra gli adolescenti ha presentato un tasso di crescita allarmante nel mondo e in Italia. Il fenomeno ha acquisito una certa visibilità durante la pandemia da Covid-19 quando il dato sugli accessi degli adolescenti al pronto soccorso per ideazione suicidaria, autolesionismo, depressione e disturbi alimentari è esploso, a fronte di una riduzione complessiva dovuta al confinamento a casa e alla paura del contagio. Molti sono gli elementi su cui riflettere: la complessiva invisibilità del fenomeno a livello di dibattito pubblico e interventi istituzionali, la questione dei tabù e dello stigma sociale ancora oggi esistente, la dimensione trendy del disturbo mentale che si sta diffondendo sui social media e che necessita di maggiore chiarezza e informazione; la difficoltà degli adulti, genitori e/o educatori nel comprendere la rilevanza del disturbo mentale nella esperienza quotidiana degli adolescenti e nel saperla affrontare. La “buona” notizia è che oggi, rispetto anche solo a 5-10 anni fa di disturbo mentale in adolescenza si parla di più e le rappresentazioni mediali sul tema, dal cinema alla serialità televisiva, alla musica, ai social media sono in crescita sia in termini di quantità che in termini di qualità e ricchezza della narrazione. Il gruppo di ricerca del Dipartimento SARAS di Sapienza, in collaborazione con la Neuropsichiatria infantile del Policlinico Umberto I ha avviato una serie di interventi di ricerca e di formazione sul tema. Il primo step è stato la realizzazione di una ricerca quantitativa, condotta in collaborazione con Ipsos su un campione rappresentativo di 14-19enni, sul tema dell’uso delle parole legate ai disturbi mentali come forma di stigma, hate speech o come uso distorto e alterato del significato. La ricerca ha dimostrato che l’uso disinvolto delle parole legate ai disturbi psichiatrici è molto diffuso nei contesti scolastici e familiari e che l’uso distorto è in relazione diretta con la scarsa conoscenza delle diverse patologie di disturbo mentale. A partire da questi risultati è stato realizzato un PCTO dedicato alle scuole medie superiori di Roma e provincia in cui sono stati discussi, durante focus group e visioni collettive di serie tv e film, i principali disturbi psichiatrici diffusi tra gli adolescenti. I risultati di questa fase di ricerca e formazione sono stati presentata al Giffoni Film Festival nel 2023. Un altro intervento di ricerca è stato dedicato alla serie tv Tutto chiede salvezza (Netflix, 2022 -), sulla ricezione della quale è stata condotta una ricerca qualitativa con 50 interviste in profondità a ragazzi e ragazze tra i 14 e i 24 anni di età. La ricerca ha mostrato come la serie sia stata in grado di aumentare la comprensione del disturbo psichiatrico, generando consapevolezza e prossimità emotiva tra le audience e contribuendo a ridurre lo stigma. Infine è stata condotta una ricerca netnografica sulla modalità con cui gli adolescenti mettono in scena il disturbo mentale all’interno di Tiktok, con particolare attenzione allo storytelling, ai modelli narrativi prevalenti e alla relazione con la comunità di tiktokers. Silver Awareness Sustainability: verso la costruzione di una checklist per comprendere la sostenibile in una società che invecchia Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano L'invecchiamento della popolazione pone significative sfide sociali, economiche ed ecologiche che richiedono l'identificazione di fattori capaci di migliorare il benessere dell'intera popolazione da una prospettiva di sostenibilità generazionale, ambientale e di consumo (Wilmoth et al., 2023; Dikken et al, 2023; Langley, 2012). In particolare, la trasformazione demografica richiede l'identificazione dei fattori che contribuiscono, non solo al miglioramento del benessere degli anziani, ma anche alla sostenibilità complessiva della società attraverso le generazioni. Questo comporta una comprensione sfumata di come le pratiche e le politiche sociali possano essere armonizzate per promuovere la tutela dell'ambiente e i modelli di consumo responsabili, garantendo nel contempo la distribuzione equa delle risorse e delle opportunità. In particolare, agli anziani viene chiesto di contribuire allo sviluppo sostenibile, se opportunamente informati e resi consapevoli delle pratiche di consumo considerate più sostenibili (Ministero del Lavoro, 2021). Si pone pertanto l’interrogativo su come i soggetti, in particolare anziani, possono comprendere e farsi parte attiva nella sfida posta dalla transizione verso la sostenibilità. Il presente contributo adotta quale frame di riferimento per la definizione di sostenibilità i goals posti dall'Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile Globale, un'iniziativa fondamentale che sottolinea l'interconnessione delle dimensioni sociale, economica ed ambientale per la promozione di uno sviluppo sostenibile nel tempo e tra le generazioni. All'interno di questo quadro, si pone l’importante questione delle disparità generazionali e la necessaria promozione di una solidarietà intergenerazionale per il raggiungimento di risultati sostenibili (Asvis, 2022). Aumentare la consapevolezza tra gli anziani sull'importanza delle pratiche di consumo sostenibile diventa centrale man mano che la popolazione invecchia. Nel contesto del progetto Age-it[1], che esplora le conseguenze e le sfide dell'invecchiamento, questo contributo presenta alcuni dei principali indicatori che supportano la consapevolezza della popolazione anziana sullo sviluppo sostenibile. Attraverso la formulazione di una ricerca qualitativa, basata sul consensus method, attraverso lo strumento Delphi (Barrios et al, 2021; Taylor, 2020)., sono stati formulati i principali indicatori riscontrati nella letteratura, nei policy brief e nei rapporti nazionali e internazionali volti a sostenere il benessere e la consapevolezza della popolazione anziana in relazione allo sviluppo sociale, economico ed ambientale sostenibile. Sulla base dei dati raccolti, sono stati quindi definiti i principali ambiti di interesse e i relativi indicatori per la costruzione di una checklist sullo Sviluppo Sostenibile per la popolazione anziana, denominata “Silver awareness sustainability” (SAS). Rientrano tra gli ambiti di interesse cinque dimensioni: diseguaglianze, benessere, risorse, innovazione, e partecipazione. Sia gli ambiti che gli indicatori sono stati discussi da un gruppo di 20 esperti, composto da professionisti, accademici, operatori sanitari, rappresentanti di gruppi politici, associativi e volontari. L'obiettivo era definire uno strumento che fosse: completo, includendo tutti gli aspetti rilevanti nella definizione dello sviluppo sostenibile per la popolazione anziana, chiaro nell’esplicitazione dei suoi componenti e immediatamente utilizzabile da decisori politici, analisti e gruppi di interesse per la promozione della consapevolezza sulla sostenibilità. Questo contributo mira a presentare i risultati iniziali della ricerca, illustrando gli esiti della riflessione partecipativa sulla definizione degli ambiti e degli indicatori della checklist. [1] Il contributo è stato realizzato nell’ambito del progetto finanziato dall’Unione Europea - Next Generation EU – Progetto “Age-It - Ageing well in an ageing society” (PE0000015), PNRR – PE8 - Missione 4, C2, Investimento 1.3. I punti di vista e le opinioni espresse sono tuttavia solo quelli degli autori e non riflettono necessariamente quelli dell'Unione Europea o della Commissione Europea. Né l'Unione Europea né la Commissione Europea possono essere ritenute responsabili per essi. Invecchiamento e accelerazione digitale nelle aree rurali: il caso del lodigiano Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia Questo paper ha l’obiettivo di discutere in che modo individui anziani in contesti rurali affrontano la transizione digitale delle società post-pandemiche. In molti Paesi europei, il modello di “ageing in place”, ovvero invecchiare a casa propria e nella propria comunità di vita, è largamente considerato come la strada da intraprendere a fronte delle sfide economiche e sociali della transizione demografica (Sarlo, Costa, Quattrini 2021). A tal proposito, gerontologi ed esperti delle tecnologie digitali promuovono l’utilizzo delle tecnologie di comunicazione ed informazione (ICT’s) come strumento a sostegno del modello di “ageing in place” (Arthanat 2019; Schomakers, Offerman-Van Heek, Ziefle 2018). La pandemia ha accelerato profondamente la transizione digitale dei servizi e delle attività quotidiane. Alcuni studi suggeriscono che questa accelerazione digitale rischia di ridursi a una spinta transitoria incapace di ridurre il divario digitale (Lai & Widmar, 2021). Ciò concerne anche le persone della generazione dei baby-boomers, il cui utilizzo dei servizi digitali è spesso precario, poco approfondito e dipendente dalle reti genitoriali e di amicizia (Colombo et al. 2023). Il modello “ageing in place” è da considerarsi, inoltre, un prodotto culturale, che non di rado veicola rappresentazioni stereotipate e romantiche della famiglia, dei rapporti di cura, della vita di comunità e dell’ambiente rurale (Scaglioni, Diodati 2021). Diversi studi hanno messo in luce come, rispetto ai contesti urbani, le aree rurali hanno minore capacità di adattamento alla transizione digitale a causa della presenza di infrastrutture meno sviluppate, di un livello inferiore di istruzione, e di una resistenza generale alle nuove tecnologie (Salemink, Strijker, Bosworth 2017). Pertanto, abbiamo bisogno di ulteriori studi che mettano in luce il modo in cui le vecchie generazioni vivano e percepiscano la transizione digitale e indaghino in che misura il contesto di vita può effettivamente favorire processi di inclusione sociale o se, al contrario, rappresenti una delle cause principali nei processi d’esclusione digitale e sociale (Carlo 2017). Questo contributo presenta l’analisi preliminare del gruppo di interviste semi-strutturate telematiche della quarta ondata (2023-2024) della ricerca qualitativa longitudinale” IlQA-19”, che indaga le abitudini e l’uso degli strumenti digitali di gruppo di 40 uomini e donne di età compresa tra 65 e 80 anni, residenti in dieci comuni del lodigiano (Italia) e appartenenti alla prima "Zona Rossa" COVID-19 in Europa. Nell’area di interesse della ricerca, si registra la presenza di forti obblighi familiari e generazionali. Da un lato, gli anziani senza competenze digitali possono fare affidamento su reti familiari strette, costruite da giovani generazioni che scelgono di abitare nel posto dove sono cresciuti per evitare i costi della vicina metropoli (Milano) e beneficiare del supporto dei propri genitori nella cura dei figli. Gli intervistati inquadrano tale aiuto all’interno di un modello culturale non individualista e basato su tradizionali forme di reciprocità fra le generazioni. D’altro canto, però, altri interlocutori lamentano la perdita della propria indipendenza a causa della recente digitalizzazione dei servizi. In questi casi, la dipendenza dal supporto dei figli e delle nuove generazioni è vista come un impoverimento del proprio status individuale e come una forma di controllo che limita la realizzazione personale. Al tempo stesso, notiamo come nei piccoli paesi (minori di 5000 abitanti), in cui vi è una presenza inferiore di attività commerciali, servizi, trasporti e possibilità ricreative, le giovani generazioni tendono a spostarsi nelle piccole cittadine (sui 10 000 abitanti) e non vivono in prossimità dei propri genitori. Ciò sembrerebbe avere un impatto sulle persone anziane più fragili con condizioni di salute precarie, redditi bassi e ridotte reti famigliari, rinforzando le forme di esclusione sociale a cui erano già soggette in presenza (es., la scarsità di trasporti pubblici). |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 7: Comunicazione pubblica Luogo, sala: Aula VII Chair di sessione: Laura Solito |
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Comunicare l'Europa nell'era dell'incertezza: i cambiamenti dell'opinione pubblica sulla politica comune di difesa e di sicurezza 1CNR-IRCRES; 2Università di Roma "La Sapienza" La comunicazione pubblica dell’Unione europea (UE) è un potente strumento a disposizione delle istituzioni comunitarie per informare i cittadini riguardo alla progettualità futura e creare engagement, cioè coinvolgimento e partecipazione nel dibattito pubblico, alimentando quel “forum” di discussione pubblica cui si riferisce il concetto di sfera pubblica europea. Alcune issues, come quella della difesa e della sicurezza comune, sono tuttavia rimaste al margine e l’opinione pubblica europea ha riscontrato difficoltà nel formarsi e nel posizionarvisici. A causa dell'aumento dell'instabilità geopolitica, caratterizzata dai conflitti russo-ucraino e israelo-palestinese, il dibattito sull'esercito comune è stato riportato in primo piano all’interno delle agende mediali e negli ambienti istituzionali degli stati membri, oltre che a Bruxelles, e i cittadini sono stati raggiunti da flussi informativi e comunicativi relativi alla politica di sicurezza e di difesa comune. La comunicazione pubblica dell'Europa svolge la funzione di “interprete” e di “traduttore” del linguaggio di policy, caratterizzato dall’utilizzo di tecnicismi che lo rendono poco comprensibile per i cosiddetti “non addetti ai lavori”, veicolando un’informazione “semplificata” e verificata. Questa logica si applica anche alla politica europea di sicurezza e di difesa comune (PSDC) Ciononostante, studi che abbiano indagato il posizionamento dell’opinione pubblica nei confronti di questo specifico ambito di policy, contestualizzando la riflessione nello scenario contemporaneo, sono pressoché inesistenti. Partendo da questo research gap, il presente studio si propone di approfondire il posizionamento dei cittadini europei riguardo a tale questione, focalizzandosi su due specifiche dimensioni: conoscenza e attitudini. Quale conoscenza e quali attitudini hanno i cittadini europei in materia di sicurezza e difesa comune? La issue della difesa e della sicurezza comune ha un impatto sulla sfera pubblica europea? Se sì, in che modo? Tramite queste domande di ricerca, si intende esplorare due ipotesi. Innanzitutto, che le crisi, favorendo il confronto e il dibattito su tematiche di rilevanza comune per i 27 Stati membri, agiscano come veri e propri “driver” per il consolidamento della sfera pubblica europea. La seconda ipotesi, invece, è che una maggiore comprensione e conoscenza dei meccanismi interni e degli sviluppi in seno alla PSDC possano essere collegati a determinate attitudini e percezioni dell’UE e delle sue politiche. In termini di metodologia di ricerca, è stata costruita una survey, in lingua inglese e diffusa su scala europea, orientata a raccogliere e analizzare la percezione e l’opinione di cittadini europei, ma anche di esperti di politiche ed istituzioni europee. Sulla linea delle indagini condotte sul tema della Difesa comune da parte sia di Eurobarometer che dell’European Social Survey, la survey ricostruisce il profilo demografico dei rispondenti e utilizza la tecnica delle scale Likert per registrare le attitudini e le percezioni dei rispondenti. La comunicazione pubblica degli Urp per l’empowerment dei cittadini: il caso di Roma Capitale. Sapienza Università di Roma, Italia Il contributo presentato si inserisce all’interno di un filone di ricerche, che in occasione del trentennale della primissima istituzione dell’Urp (D.LGS 29/93) ha avviato alcune riflessioni critiche sullo stato dell’arte di questa struttura professionale che ha rivestito un ruolo chiave nella comunicazione della P.A. Il decreto 29/93 rendeva questa struttura professionale un elemento chiave nella gestione della relazione tra utenti e pubblica amministrazione, mentre la successiva L.150/00 ne sanciva l’obbligatorietà, estendendo le sue funzioni, per di avvicinare ancora di più le amministrazioni al cittadino, ascoltare, rispondere ad una domanda differenziata di servizi da parte del pubblico, stabilendo così il dovere delle istituzioni di informare e comunicare, con democrazia e imparzialità (Faccioli 2000; Zémor 2008; Rovinetti 1997). Lo scenario attuale ci consegna ad oggi poche ricerche strutturali sul ruolo agito, di fatto, dagli Urp, e sulle caratteristiche che lo rendono ancora un punto di riferimento interno alle P.A. Risulterà importante, dunque, esaminare con un focus dedicato le attività degli Urp, il loro livello di istituzionalizzazione nei contesti cittadini, operare una ricostruzione dell’immagine che essi detengono sia all’interno delle pubbliche amministrazioni (con l’opinione di chi lavora negli Urp e dei vertici politici) che nella visione di autori che analizzano il più ampio campo di indagine della comunicazione pubblica. Inoltre, elementi di ricerca saranno l’uso delle piattaforme digitali e, contestualmente, la verifica delle nuove funzioni degli Urp nella comunicazione pubblica digitale. Il contesto della ricerca è quello di Roma Capitale, peculiare caso di gestione degli Urp, che per dimensioni e ramificazione rappresenta una P.A. particolarmente ampia e foriera di servizi essenziali per il cittadino. Accanto all’analisi delle funzioni istituzionali consolidate, si intende analizzare quali strumenti innovativi sono stati introdotti nella gestione dei rapporti con gli utenti, sia per processare le informazioni che per elaborare un nuovo modello di relazione, in linea con il recente approccio “multilivello” (Lovari, Ducci 2022). Allo stesso tempo, si analizzeranno anche alcuni casi di Urp municipali, per capire come il contesto locale e le sue spiccate eterogeneità influenzino l’attività degli Urp. La ricerca muove da alcune questioni essenziali, in primis la comprensione del perché queste strutture, spesso trascurate dalla comunicazione della P.A., siano ancora un elemento di sicurezza e mantenimento della fiducia delle istituzioni pubbliche verso i cittadini, elementi intangibili per una amministrazione nel rapporto con i suoi interlocutori (Canel & Luoma-Aho 2019). La pandemia (Lovari et al. 2020; ) e la platformization della società (Van Dijck et al 2018; Sorice 2020) stanno imponendo la rapida introduzione di nuovi modelli di relazione tra istituzioni e cittadini, con l’obiettivo di tenere fede ai principi guida della comunicazione pubblica (Faccioli 2000; 2002). La pluridirezionalità dei nuovi modelli di relazioni avvia così una destrutturazione e disintermediazione nel rapporto cittadini-amministrazioni, in cui la comunicazione di relazione riacquista importanza alla luce del nuovo ruolo dei cittadini (Lovari, Ducci 2022). I metodi di indagine adotteranno un approccio qualitativo, basato su due distinte fasi di ricerca: inizialmente, verranno effettuate interviste in profondità (Cardano 2003) a testimoni privilegiati (vertici delle P.A., dipendenti, collaboratori) con l’obiettivo di compiere un focus sui contesti di ricerca; successivamente, con analisi approfondite del contenuto (Faggiano 2016) dei siti web e dei canali social degli Urp con lo studio di documenti strategici e/o piani di comunicazione realizzati con la partecipazione degli Urp, con l’obiettivo di verificare la dimensione dell’empowerment per i cittadini e gli sviluppi futuri alla luce della crescente digitalizzazione (Boccia Artieri et. al 2022). Citizen engagement, quanto la PA può delegare all’intelligenza artificiale il suo rapporto con i cittadini? Università degli Studi di Ferrara, Italia La crescente esigenza di efficientamento dei servizi pubblici e l'evoluzione tecnologica nell'ambito dell'Intelligenza Artificiale (IA) pongono una questione fondamentale: quali sistemi della pubblica amministrazione possono essere automatizzati e, più specificatamente, quali servizi pubblici possono beneficiare dell'automatizzazione tramite l'uso dell'IA? Questa domanda di ricerca si colloca al centro del dibattito sulla modernizzazione della pubblica amministrazione, mirando a identificare aree potenziali per l'innovazione e l'efficienza tramite l'integrazione dell'IA. Il contesto di questa indagine si situa nell'intersezione tra l'innovazione tecnologica e la gestione pubblica, dove l'IA si propone come strumento trasformativo per migliorare la prestazione dei servizi pubblici, riducendo i tempi di attesa, ottimizzando le risorse e personalizzando l'esperienza degli utenti. La rilevanza di questa tematica è amplificata dalla pressione crescente sulle amministrazioni pubbliche per rispondere in modo efficace ed efficiente alle esigenze dei cittadini, in un contesto di risorse limitate e aspettative in continua evoluzione. Per rispondere a questa domanda di ricerca, si propone un approccio metodologico che si concentra sul caso italiano e in particolare sull’analisi dei servizi rivolti direttamente al cittadino da parte delle regioni e delle province autonome d’Italia. Attraverso una prima mappatura, si intende identificare e classificare i servizi pubblici che hanno già sperimentato forme di automatizzazione, valutandone l'efficacia e le sfide incontrate. A seguire, si procederà con una classificazione dei servizi in base alla loro complessità procedurale. Tale classificazione contribuirà a dare prime risposte al dibattito su quali tipi di servizi pubblici possono essere integrati da applicazioni di intelligenza artificiale, prendendo come base teorica la suddivisione tra azioni complesse e difficili delegabili all’IA [Floridi, 2022]. Inoltre, si intende rispondere ad una domanda strettamente collegata alla principale domanda di questa ricerca, ovvero fin dove la pubblica amministrazione si deve spingere nel delegare all’IA il suo rapporto con i cittadini? E in che misura l’IA può generare valore pubblico? [Van Noordt, 2023]. I risultati attesi includono una mappatura dettagliata dei sistemi e dei servizi della pubblica amministrazione suscettibili di automatizzazione tramite IA, unitamente a una valutazione dell'impatto potenziale in termini di efficienza, efficacia e soddisfazione degli utenti. Si prevede che i risultati contribuiranno a restituire alla sociologia un ruolo nel dibattito sull’integrazione delle nuove tecnologie, tra cui l’intelligenza artificiale, fornendo alla pubblica amministrazione dati chiave su quali servizi vale la pena automatizzare e quanto la PA debba spingersi in avanti nella delega uomo-macchina nel relazionarsi con i cittadini, e più in generale nella partecipazione e costruzione di una comunità. Con l’obiettivo di costruire un'amministrazione pubblica più efficiente, efficace e digitale, la PA rischia di perdere di vista il suo ruolo cardine di semplificazione, appartenenza e significazione della realtà. Ruolo che le viene attribuito dalle funzioni pubbliche riconosciute dall’ampia letteratura [Faccioli, 2000], [Arena, 2004], [Lovari, Ducci, 2022]. Dare significato alla realtà, inteso come identificazione valoriale, rispetto dell’Altro, significazione del contesto e territorio di riferimento, si declina spesso attraverso la comunicazione e le piattaforme digitali, con l’obiettivo di snellire e velocizzare procedure. Ma la domanda sul come si possa lavorare, attraverso le tecnologie, sull’identificazione valoriale delle comunità a cui parla la PA, è ciò che al momento riserva una più urgente risposta per trovare un equilibrio tra un approccio tecno-entusiasta e un approccio scettico-apocalittico. Realtà ibride e Pubblica Amministrazione (PA). L'impatto della trasformazione digitale sugli attori umani nella PA Università di Bologna, Italia La migrazione dei servizi pubblici sulla piattaforma digitale ha il potenziale di migliorare la vita dei cittadini offrendo servizi più rapidi, efficienti, trasparenti e partecipativi, all'interno della quale cittadini e consumatori rientrano unitariamente nella definizione di prosumer (Degli Esposti, 2015). I processi di razionalizzazione burocratica (Ritzer, 2019) e piattaformizzazione (Poell et al., 2019), così come l'implementazione di sistemi intelligenti e la convergenza tra spazio fisico e digitale, definiscono un ecosistema ibrido governato da quei rapporti di potere che regolano l'ambiente digitale (Bentivegna & Boccia Artieri, 2019). L’innovazione tecnologica diviene quindi l'elemento determinante nella generazione di una nuova complessità, la quale può essere analizzata e compresa solo attraverso le teorie e gli strumenti analitici in grado di osservare l’interazione tra attori umani e tecnologici (Kitchin, 2017; Selbst et al., 2019). Nella sfera della Pubblica Amministrazione (PA) è stato introdotto un nuovo approccio di “open government” in grado di ottimizzare l’esercizio pubblico grazie all’utilizzo di dati aperti (open data), allo scopo di incrementare la trasparenza amministrativa, migliorare i servizi al cittadino e promuovere la crescita dell’economia immateriale (De Blasio & Sorice, 2016; Broomfield & Reutter, 2022). Nel contesto italiano, l’investimento nella digitalizzazione del settore pubblico vede, tra gli altri, l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) (2021-2026) finalizzato a rafforzare le infrastrutture digitali della PA e facilitare l’accesso ai servizi per tutti i cittadini. Tuttavia, l’attuazione di un piano nazionale ha già riportato esiti di carattere eterogeneo, in cui i provvedimenti per una PA efficiente e trasparente si realizzano secondo strade disomogenee nei vari contesti territoriali (Ducci, 2017). Seguendo un approccio che osserva la PA come sistema sociotecnico, in cui attore umano e non umano interagiscono in misura sempre maggiore, il contributo prevede un focus sulla provincia di Rimini, identificata come un caso di successo nel percorso di digitalizzazione del contesto italiano e definita “città digitalmente matura". In seguito all’analisi dei dati di primo livello forniti dalla provincia di Rimini rispetto ai progetti attivi sul territorio e alla conduzione di focus group con un campione rappresentativo di attori coinvolti, la ricerca intende indagare come l'implementazione di un modello burocratico dettato dai criteri della piattaforma digitale possa garantire accessibilità, inclusione ed equità a tutti i cittadini, in un'ottica, quindi, di mitigazione del divario digitale (DiMaggio et al., 2004). |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 8: Consumo Luogo, sala: Aula VIII Chair di sessione: Roberta Paltrinieri |
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Il fenomeno del de-influencing come nuova strategia di comunicazione 1Sapienza Università di Roma, Italia; 2IULM Università di Milano A fronte dei continui cambiamenti della società contemporanea, la riflessione sociologica ambisce ad acquisire un ruolo sempre più centrale, dal momento che può offrire al dibattito pubblico chiavi di lettura attraverso le quali comprendere la complessità delle dinamiche sociali. Nella stessa prospettiva, gli studiosi che indagano i modelli e le pratiche culturali puntano a identificare i nuovi paradigmi comunicativi che popolano lo scenario mediale, così da renderne espliciti contenuti e modalità espressive. Nell’attuale platform society (Van Dijck et al. 2019), infatti, i cambiamenti che si verificano nell’ecosistema mediale modificano anche le dinamiche della socialità e i meccanismi di produzione dei contenuti, costruendo nuove abitudini e inedite prassi comunicative. In un simile contesto, anche la sfera del consumo può offrire ai ricercatori l’occasione per riflettere sulle dinamiche del cambiamento sociale, nel tentativo di comprendere il ruolo delle pratiche di fruizione nella costruzione delle identità, delle relazioni e dei nuovi stili di vita contemporanei (Bauman, 2001). L’universo che ruota intorno ai consumi chiama in causa, infatti, dimensioni culturali, sociali ed economiche, mettendo in evidenza anche il valore creativo e simbolico delle pratiche adottate dai soggetti. Un ambito specifico attraverso il quale provare a interpretare questi meccanismi comunicativi è quello legato alle strategie promozionali dei brand, con una particolare attenzione per il ruolo sempre più rilevante assunto dai digital influencer. La crescente pervasività dei social media, infatti, ha portato al centro della scena comunicativa nuove figure, capaci di catturare l'attenzione dei media per poi tradurla in opportunità commerciali, assumendo di fatto il ruolo di testimonial per prodotti e marche popolari. Il successo sempre più ampio delle piattaforme digitali ha favorito l'espansione di questa sorta di influencer culture, attribuendo ai personaggi che la incarnano lo status di vere e proprie celebrità (Brooks et al., 2021) in grado di orientare i gusti e le scelte di acquisto di segmenti consistenti di consumatori. Gli influencer utilizzano piattaforme come Instagram, YouTube, TikTok per costruirsi un seguito, creando e condividendo contenuti che suscitano l'interesse del loro pubblico, letteralmente influenzandone le opinioni e i comportamenti. Per raggiungere lo status di celebrity, essi devono puntare su un’apparente autenticità (Nunes et al., 2021) e sull’affidabilità delle loro opinioni, mirando a coltivare una connessione di tipo parasociale con i follower (Bond 2016), che dimostrano il proprio coinvolgimento attraverso commenti, like e condivisioni (Pradhan et al., 2023). Tuttavia, negli ultimi mesi, è aumentato il numero dei digital influencer che hanno cominciato a modificare il proprio stile comunicativo nella direzione di una maggiore sincerità e trasparenza, arrivando anche a segnalare agli utenti i prodotti da non acquistare, attraverso una pratica nota come "de-influencing". Il meccanismo di de-influencing comprende diverse declinazioni, che vanno dal semplice post che scoraggia l'acquisto di un determinato prodotto, alle stories in cui si suggeriscono alternative più economiche rispetto a brand famosi, fino all’invito ad abbracciare uno stile di vita minimalista (Singer et al. 2023). In base a tale prospettiva, l’intervento proposto punta a esplorare il fenomeno del de-influencing per identificarne le dimensioni più significative. In particolare, verranno indagate: a) le motivazioni alla base dei discorsi di de-influencing; b) i principali settori merceologici coinvolti; c) le strategie di comunicazione utilizzate nei messaggi pubblicati sui social media. Attraverso tale ricognizione, sarà anche possibile cominciare a riflettere sugli sviluppi dell’influencer culture, nell’ottica di comprenderne limiti e prospettive future. Tra rimediazione e trasformazione. Memorie, narrazioni e immaginari nell’era delle piattaforme Sapienza Università di Roma, Italia Il paper si propone di riflettere sul rapporto tra platformization, transmedialità e fruizione dei prodotti culturali, analizzando da una prospettiva ecologica il consumo di testi narrativi. Più specificamente, il paper si sofferma sulla crisi della capacità dei media e delle industrie culturali e creative di partecipare alla costruzione di una memoria condivisa, in chiave intragenerazionale e soprattutto intergenerazionale, alla base di un immaginario collettivo. Questa riflessione muove dall’ipotesi che le radicali evoluzioni di un sistema mediale sempre più ibrido (Chadwick 2017), che si succedono con velocità crescente nel segno della convergenza (Jenkins 2006), poi della transmedialità (Leonzi 2022), infine della piattaformizzazione (van Dijck et al. 2018), stiano progressivamente erodendo, fino a eliminare in alcuni tratti, la costruzione di una memoria e di un immaginario condivisi non solo tra gli individui e le comunità appartenenti a diversi intervalli generazionali, ma anche a quelli appartenenti alla stessa generazione. Nell’attuale ambiente mediale, infatti, specifiche narrazioni tendono a espandersi orizzontalmente attraverso dinamiche di spreadability, alimentando così la sedimentazione di contenuti e simboli che diventano punto di partenza per gli utenti per (ri)negoziare significati condivisi (Scolari 2013); al tempo stesso, questo processo sembra mancare della capacità di creare una memoria e un immaginario comune e condiviso, intaccando così uno dei fondamentali patrimoni simbolici a disposizione degli attori sociali (Leonzi, Ugolini 2023). Il paper si propone di approfondire questa possibile frattura comunicativa tanto in termini ecologici (Colombo 2020; Ciofalo, Pedroni 2022), con una riflessione sull’evoluzione delle dinamiche sociali e mediali alla luce di una possibile ridefinizione della costruzione di miti fondativi comuni; quanto in termini specifici riguardo gli effetti sulle criticità e le sfide per ricercatori e studiosi nel campo della sociologia dei media e della comunicazione. Il paper presenta i primi risultati di una ricerca volta a indagare i modi in cui specifiche narrazioni transmediali riescono a creare relazioni di significato con gli utenti anche quando questi ultimi non hanno avuto accesso diretto ai testi (come, a titolo di esempio, la capacità degli utenti di fruire e ri-negoziare i significati di un film o di una serie che non hanno visto). A tale scopo, sono state condotte una survey e alcune interviste in profondità orientate a evidenziare se e come il consumo dei media rappresenti ancora una possibilità di dialogo e di veicolazione di idee e valori all’interno dei gruppi sociali e attraverso vari modelli sociali. I primi risultati della ricerca evidenziano un approccio agli oggetti, ai prodotti e ai consumi culturali sempre più slegato alle narrazioni di origine e, come conseguenza paradossale, sempre più legato alle loro rimediazioni, private di significato. Si tratta di un modello apparentemente corrispondente alle dinamiche di “reciproca resistenza” che si attivano tra i processi di piattaformizzazione e di transmedialità (Leonzi, Marinelli 2022): le piattaforme consentono di accedere a una narrazione a prescindere dal prodotto; la transmedialità offre alle piattaforme stesse la possibilità di generare modalità di accesso e condivisione basate sulle espansioni e non sulla narrazione vera e propria. Come risultato sembra prendere forma una transizione da un immaginario di massa verso una massa di immaginari, legati tra loro in una “coda lunga” di consumi apparentemente effimeri (Anderson 2006; Tosca 2023). Appare ancora indefinita la capacità di dialogare tra loro di questi immaginari non più condivisi ma pulviscolari: tra questi emergono infatti modalità discorsive di interazione, che appaiono tuttavia vincolate all’hic et nunc di singoli utenti, e che rendono quantomeno incerta la possibilità che si strutturino in costellazioni condivise e fruibili, in grado di ricalcare il ruolo, se non l’architettura, di quello che era immaginario collettivo. In principio era il manifesto. Pubblicità e religione dalla belle époque al boom economico Università degli Studi di Milano, Italia I risultati di una ricerca condotta su un campione di pubblicità italiane contenenti riferimenti religiosi dagli anni Cinquanta del secolo scorso ai nostri giorni ha rivelato due tendenze in atto. La prima è che la frequenza con cui la simbologia religiosa è stata utilizzata per promuovere beni e servizi di consumo è tendenzialmente crescente e incline ad aumentare nel lungo periodo. La seconda tendenza riguarda l’uso di questa simbologia in connessione a un mix eterogeneo di scopi commerciali. Ciò è interpretato come indicatore del fatto che la religione è divenuta nel corso degli ultimi settant’anni una fonte creativa cui i pubblicitari possono attingere con sempre minori riserve (Nardella 2015). È ora interessante chiedersi se e come questo fenomeno possa essere ricondotto indietro nel tempo, o meglio se di esso vi siano tracce prima degli anni Cinquanta del Novecento. Per rispondere a questa nuova domanda, il paper analizza un ampio campione di manifesti pubblicitari in cui appaiono riferimenti religiosi circolati in Italia dalla belle époque al boom economico, più precisamente dagli anni Novanta dell’Ottocento all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento (cfr., su questo periodo, Arvidsson 2006; De Iulio 1996; Fasce, Bini, Gaudenzi 2016). I manifesti selezionati per l’analisi sono stati raccolti presso l’archivio della Collezione Salce – la più importante raccolta nazionale di grafica pubblicitaria – attraverso una operativizzazione di “riferimento religioso” basata su uno schema di codifica coerente con quello utilizzato per il campionamento delle pubblicità moderne (Nardella 2015). L’analisi, sviluppata a livello quantitativo e qualitativo, tiene conto di più variabili, tra cui il tipo di riferimento religioso, la categoria di prodotto e il periodo di tempo. Per ciascuna variabile sono calcolate le distribuzioni di frequenza e analizzate le relazioni reciproche tra di esse mediante tabelle di contingenza (v. Krippendorff 1983). È inoltre individuato il messaggio complessivo di ciascun manifesto e le metafore in esso contenute (v. Losito 1993). Nel presentare i principali risultati empirici di questa ricerca, il paper intende non soltanto documentare la varietà di materiali storici appartenenti a un passato lontano ma anche individuare se esista un possibile filo conduttore che colleghi quel contesto all’attuale, indicandone comparativamente, nel confronto tra ricerche, continuità e differenze che aiutino a comprendere alcune trasformazioni sopravvenute nel tempo cui assistiamo ancora oggi. Il saccheggio della moda: pratiche e narrazioni tra politica, media, lusso e consumo Università degli studi di Bari Aldo Moro, Italia Questo intervento analizza come oggi le pratiche e le narrazioni della moda si pongono quali strumenti di interpretazione sociale che coinvolgono diversi discorsi, anche distanti dai territori della moda vestimentaria in senso stretto. In un’epoca che ha attraversato quella che provocatoriamente è stata definita “la fine della moda” (Edelkoort 2011; Geczy e Karaminas 2019), proprio la moda offre allo sguardo sociologico la possibilità di esplorare aspetti complessi in forma articolata e mobile (McRobbie 1999; Kaiser e Green 2021; Calefato 2021): dalle tematiche dell’identità (Crane 2000; Karaminas et al. 2022), della performatività (Wissinger 2016) e della politica (Marchetti 2020), alle forme quotidiane di modalizzazione dei media (D’Aloia e Pedroni 2022), alle pratiche del consumo e della produzione transnazionale (Crewe 2017; Ling e Segre Reinach 2018), alle forme di creatività diffusa (McRobbie et al. 2023). Il paper prende in esame, come caso e occasione di studio, l’iniziativa del marchio di moda americano Pyer Moss di festeggiare il suo decimo anniversario invitando il pubblico a un “saccheggio” dei suoi capi (il nome dell’iniziativa è “The loot-out”) in eventi in stile flash-mob svoltisi, tra dicembre 2023 e aprile 2024, in tre città americane (New York, Atlanta e Los Angeles). Il caso, qui analizzato come evento mediatico attraverso diverse piattaforme online in cui è stato lanciato e discusso, risulta interessante in quanto non si presenta semplicemente come una campagna pubblicitaria di moda, ma convoca diversi frame che verranno presi in considerazione: 1. L’attivismo e il rapporto tra moda e politica. Il designer proprietario del marchio - Kirby Jean-Raymond – è da sempre impegnato per i diritti e l’empowerment degli afroamericani, denuncia il “saccheggio” della moda come forma di appropriazione culturale, e, nel “loot-out”, cita provocatoriamente quelli che sono stati definiti “saccheggi” in diverse occasioni di antagonismo sociale in America, sin dai riot di Los Angeles nel 1992 (Madhubuti 1993), alle manifestazioni dopo l’uragano Katrina, alle azioni di Black Lives Matter. Kamala Harris ha indossato capi Pyer Moss nella cerimonia di insediamento di Biden, il 20 gennaio 2021: un’occasione in cui venne esplicitamente rappresentato il power dressing femminile (Obama 2018), quale istituzionalizzazione e insieme citazione attiva del rapporto tra vestire, stile e pratiche di resistenza nelle autorappresentazioni diasporiche afroamericane (hooks 1990; Tulloch 2016). 2. Il saccheggio come forma di consumo, in particolare il ruolo e i significati che assume il marchio di lusso, considerato in questo caso come oggetto del desiderio e allo stesso tempo come mezzo di critica all’establishment. I diversi media coinvolti sia nella diffusione della notizia (il video di una donna creata con IA presenta l’iniziativa su Instagram e sul sito), sia nella discussione sul caso nella stampa e nelle piattaforme, nonché le forme di spettacolarizzazione dell’evento, diventano parte integrante dell’atto di consumo stesso, collocandosi a cavallo tra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale. 3. Il rapporto tra Primo e Terzo Mondo nella distribuzione, ri-creazione e appropriazione, sia fisica che semiotica, della moda e del lusso (Calefato 2018; Blaszczyk e Pouillard 2018). Il caso di Pyer Moss verrà, in questo senso, analizzato a confronto con quella che il designer sudafricano Thebe Magugu chiama, in un progetto avviato nel 2022 (https://www.thebemagugu.com/collections/ss23/), la “discard theory”, la teoria dello scarto, concernente l’uso che le giovani generazioni in Africa oggi fanno degli “scarti” della moda occidentale “saccheggiandoli” materialmente e simbolicamente nei mercati dell’usato delle città africane e rielaborandoli poi in originali pratiche di bricolage creativo. Eventi “incomprensibili” come l’istituzionalizzazione del saccheggio possono dunque essere analizzati mantenendo aperta una prospettiva che permetta di comprenderli nella loro ambivalenza. Il campo della moda offre in questo senso un fertile terreno di riflessione. |
9:00 - 10:30 | Sessione 4 - Panel 9: Culture visuali Luogo, sala: Aula T02 Chair di sessione: Giovanni Fiorentino |
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Immaginari generici di guerra: le immagini stock AI-generated del conflitto israelo-palestinese nel caso Adobe Università di Urbino Carlo Bo, Italia Il rapporto tra immagini fotorealistiche AI-generated e fotografiche è diventato più complesso a partire dall'estate del 2022, dopo la popolarizzazione dei generative visual media (Arielli, Manovich 2023). Il costante sviluppo e miglioramento di questi sistemi sta riconfigurando il modo in cui viene costruito il senso di autenticità delle immagini come rappresentazioni della realtà, per cui l'ambiguità percettiva tra le immagini sintetiche e quelle fotografiche è il problema centrale negli ambiti del fotogiornalismo e della fotografia documentaria (Lehmuskallio et al. 2018). L’efficienza e la facilità con cui si possono generare immagini attraverso software di AI appaiono funzionali per le logiche dei siti di stock images (Blaschke 2014), intesi come sistemi industriali per la produzione, raccolta e vendita di immagini come merce, tra cui rientra la categoria della fotografia editoriale e documentaria (Frosh 2008). Il ruolo delle piattaforme di stock images è dunque centrale nelle dinamiche della visual economy che influisce sulla strutturazione degli immaginari collettivi in relazione a notizie ed eventi (MacKanzie, Munster 2019; Aiello et al. 2023). Per osservare come cambia il rapporto tra genericità e documentalità dell’immagine con i generative visual media, il seguente paper prende in considerazione il caso paradigmatico della vendita di immagini fotorealistiche sulla guerra israelo-palestinese da parte di Adobe Stock. Dopo lo scoppio della guerra a Gaza il 7 ottobre 2023, Adobe Stock ha infatti iniziato a raccogliere immagini user AI-generated, che i clienti paganti hanno potuto scaricare e pubblicare sui media online. Si è quindi sviluppato un dibattito pubblico quando, nella diffusione da parte di news media, è mancata la contestualizzazione della loro natura AI-generated. Nella prima fase, per rintracciare attori ed elementi in gioco nel caso di Adobe, è stato raccolto un campione di 55 articoli online, pertinenti la vicenda, attraverso Google News. L’analisi del contenuto ha messo in luce il ruolo degli attori coinvolti nelle dinamiche della visual content industry (Frosh 2003), tra prosumer, stock agencies, news media online e social media. Da questa prima analisi, l’ambiguità tra immagini AI-generated fotorealistiche e fotografiche, appare giocarsi su tre elementi: l’importanza dei metadati degli oggetti visivi, l’estetica e la retorica delle rappresentazioni di guerra e le didascalie a corredo, considerate sia a titolo di indice sulle piattaforme di stock images che nell’utilizzo da parte dei news media. In secondo luogo, seguendo il modello tripartito per la Visual Methodology proposto da Rose (2016), ci siamo concentrati sul piano rappresentazionale delle immagini (site of image itself), sulla loro modalità di produzione (site of production) e sulle dinamiche di circolazione e ricezione (site of audiencing). A partire da un campione di immagini ricavato dagli articoli presi in considerazione, abbiamo condotto in prima istanza un'analisi del loro contenuto visivo, occupandoci dell’estetica composizionale, del loro significato iconografico e formale. Sul lato della produzione, sono state raccolte e analizzate frequenze e co-occorrenze delle categorie e dei tag delle immagini AI-generated sul sito Adobe Stock reperibili con keyword legate alla guerra a Gaza. Infine, nella fase di ricerca ancora in corso sull’audiencing, si combinerà l’analisi del framing nei diversi contesti di uso online trovati tramite Google Reverse Images con 10 interviste con foto-stimolo assieme a testimoni qualificati individuati tra fotogiornalisti e photo-editor. Visualising sustainability: un’analisi visuale della sostenibilità attraverso dati di marketing Università degli Studi di Milano, Italia Da quando i consumatori hanno iniziato a notare, se non a vivere in prima persona, gli effetti della crisi climatica si è notato un incremento nei cosiddetti “consumi sostenibili”. La ricerca di mercato, da sempre fondamentale per monitorare, capire, e predire, i comportamenti dei consumatori, ha quindi iniziato a prestare sempre più attenzione alla sostenibilità, ad oggi diventato tema centrale per sia per i consumatori che per i produttori. Facendo uso di dati raccolti in un più ampio progetto di ricerca sulla costruzione sociotecnica degli insights di marketing, questo articolo presenta un’analisi dei dati digitali utilizzati da una agenzia di marketing digitale per lavorare al tema della sostenibilità. La ricerca segue una concettualizzazione di agenzie di marketing come infrastrutture. In quest’ottica, le infrastrutture non sono uno sfondo neutrale, bensì detengono un predeterminato set di valori e vincoli che modellano il modo in cui si pensa e agisce all’interno dell’infrastruttura (Slota & Bowker, 2017). Inoltre, concettualizzandole come infrastrutture knowledge-based, le agenzie di marketing permettono la produzione e la circolazione di informazioni per il mercato (Araujo & Mason, 2021). In ottica infrastrutturale, le procedure di raccolta dati e di analisi, e i risultati prodotti dalle agenzie di marketing sono anch’essi condizionati dai valori e i vincoli dell’infrastruttura stessa. Durante un più ampio studio sulla costruzione sociotecnica degli insight di marketing, ho avuto accesso a un’agenzia di marketing italiana che si occupa di raccogliere dati dei consumatori e di analizzarli per grandi aziende nazionali e internazionali. L’accesso al campo mi ha consentito anche di avere accesso a una parte di dati digitali usati per creare insights sul tema della sostenibilità, argomento su cui l’azienda lavora quotidianamente per soddisfare le richieste dei clienti. Il dataset cui ho avuto accesso, contiene circa 116000 post estratti dalle piattaforme di Instagram e Twitter e pubblicati tra l’inizio del 2019 e la fine del 2022. Da questi post, ho estratto più di 25000 immagini, visualizzate usando PixPlot, che consentono di mappare l’immaginario della sostenibilità dal punto di vista del marketing. Un campione di queste immagini è stato analizzato utilizzando Google Cloud Vision API, da cui ho estratto le cosiddette “web entities”, ovvero references testuali usate per identificare immagini visivamente simili o identiche. Infine, ho analizzato una parte di queste immagini con un’analisi qualitativa visuale. Sulla base dell’analisi svolta, le immagini contenenti la keyword “sustainability” si mostrano come coerenti rispetto a un’infrastruttura di marketing che, nel rispettare le richieste dal mercato, cerca e – secondariamente – produce dati influenzati dai valori dell’infrastruttura. In questo senso, l’immaginario di sostenibilità su cui si basa la creazione degli insights di marketing è totalmente ripulito dagli elementi che possono essere disturbanti, come proteste e attivismo. La ricerca dettaglia i risultati di queste analisi per esplorare la costruzione sociotecnica del marketing e propone una riflessione su quei contenuti che vengono deliberatamente esclusi per creare insights che siano in linea con i valori di mercato. A black woman doctor with three arms: a digital methods strategy for repurposing Midjourney hallucinations 1Università degli Studi di Catania, Italia; 2Università degli Studi di Catania, Italia; 3Universita degli Studi di Bologna, Italia In the utopian imaginary of the early internet there was a diffused consensus that technology was a positive force, promoting horizontal connections, grassroots activism and creating safe spaces for marginal and oppressed identities. Now that digital platforms constitute the backbone of surveillance capitalism, we are beginning to understand how discrimination, symbolic and physical violence constitute a core tenet of our collective digital lives. Namely the issue of digital discrimination is a dual tiered dilemma: on the one hand there is the continuation of offline discriminatory practices and forms of violence, for example women and gender minorities are subjected to nonconsensual pornography, digital harassment, and discrimination in web-based subcultures. On the other hand, recommender algorithms governing digital platforms both reinforce existing biases as well as producing other, novel forms of discrimination tied to specific affordances of each platform. The advent of large-scale language models for the production of images like Midjourney or DALL-E introduces a new layer of issues, as a large mass of users is now enabled to produce seemingly real images at a fraction of the cost these practices used to have. In essence artificial intelligence becomes a tool to influence the collective imagination: it directs our choices and our tastes in the direction of the majority, also shaping our "aesthetic self" (Manovich 2018) With this contribution we want to leverage digital methods in order to investigate how the specific functioning of Midjourney may contribute to the production of gender stereotypes. At the same time, we want to repurpose Midjourney as a tool to enable a collective discussion in the role of technology in producing specific gender-biased imaginaries. As a matter of fact, Midjourney does not create art ‘ex nihilo’ but instead it relies on a wealth of training images it uses as a guideline to produce new ones. As a methodological standpoint, we follow the digital methods tenet claiming that algorithms are ‘epistemological machines’, not merely organizing information but producing new classifications according to their techno social functioning processes. Going beyond a mere methodological interest, in a context of emancipatory social research, our point is that generated images may be used to explore the collective imaginary on very specific issues and chart pre-existing stereotypes in the training set. In practical terms: we have generated Midjourney images depicting traditionally white cis male professional roles (es. surgeon, firefighter, policeman, airline pilot etc.); to each prompt describing professional roles we have then applied, iteratively, additional requests (woman surgeon, black woman surgeon, asian woman surgeon) leading to a second group of images. We have, then, presented all those images in the context of a series of informal focus group in which most participants were tech-savy young women, in that context we have asked them to outline when and how the image was the likely result of an ‘hallucination’ (a lack of source material resulting in grossly disproportionate anatomy or surreal scenarios) and a) to discuss which prompts were most likely to generate hallucinations and why b) to assess the level and kind of stereotypization produced by the LLM model. Le copertine dei fashion magazine tra produzione culturale e nuove geografie della moda: l’eredità di Vogue Italia e le narrazioni della Generazione Z 1Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 2Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 3Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 4Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia Questo articolo indaga l'eredità, in termini di narrazioni e rappresentazioni della diversità, delle copertine di Vogue Italia per la Generazione Z. Nello specifico il paper, attraverso l’analisi visuale (Rose, 2016) e testuale, confronta due diversi corpora: 754 copertine di Vogue Italia (da ottobre 1964, prima pubblicazione di Vogue Italia, a febbraio 2024), raccolte utilizzando l'Archivio Digitale di Vogue Italia; e 88 copertine di riviste di moda create da studentesse e studenti in esperienze didattiche svolte negli A.A. 2020/2021 (52) e 2023/2024 (36). La creazione delle copertine di riviste di moda è parte di una ricerca esplorativa, avente l’intenzione di verificare narrative e rappresentazioni della moda, del corpo e della relazione moda e cambiamenti socio-culturali, della Generazione Z, interrogandosi sull’influenza delle narrazioni dominanti proposte dalla comunicazione tradizionale della moda e dai fashion magazine. Infatti, le riviste di moda non sono solo prodotti editoriali (Moeran, 2006). Piuttosto, esse sono sia prodotti culturali che merci: la produzione delle riviste è caratterizzata da una proprietà di 'audience multipla', che include lettori, inserzionisti e il mondo della moda stesso. Questo consente alle riviste di collegare la produzione culturale alla ricezione della moda, da un lato contribuendo a formare un concetto collettivo di cosa sia la moda e, dall'altro, trasformando la moda come idea astratta e discorso estetico in contenuto materiale – o immateriale, se consideriamo l’influenza della comunicazione tradizionale della moda anche sulla costruzione dei discorsi legati al corpo e alla moda negli ambienti di gioco virtuale (Noia e Varini, n.d.) e da parte dell’Intelligenza Artificiale generativa visuale. Le narrazioni delle riviste di moda contribuiscono alla costruzione dell'identità individuale e collettiva, ma riflettono e interpretano anche i valori, le norme e le aspirazioni della società in un determinato momento storico (McCracken, 1993). Le copertine offrono quindi una lente attraverso cui esaminare la moda come fenomeno sociale più ampio. Il paper, attraverso il primo corpus, ricostruisce il discorso egemonico di Vogue Italia, assumendo che esprima il tipico modo italiano di creare ed esprimere la moda femminile, riflettendo le rappresentazioni della diversità che hanno caratterizzato il discorso pubblico nell'ultimo secolo. Vogue Italia mostra ancora una limitata rappresentazione delle differenze etniche, di età, e di conformità, sebbene in aumento nelle copertine dell’ultimo decennio. Tuttavia, pur riconoscendone il merito di cercare di scardinare immaginari obsoleti, non mancano contraddizioni (Carini e Mazzucotelli, 2023). Il secondo corpus rivela gli immaginari e le narrative sulla moda delle studentesse e degli studenti, evidenziando come le identità siano state plasmate nel tempo e come gli standard di femminilità, bellezza, e più in generale il discorso-moda, stiano modificandosi, aprendosi a rappresentazioni plurali e più inclusive. La comparazione tra l'apparato di Vogue Italia e le copertine prodotte dagli studenti mostra elementi di continuità nell'uso comunicativo e strumentale della moda, secondo la pratica del remix (Navas et al., 2015). In secondo luogo, dimostra che gli studenti hanno assimilato con successo i codici narrativi tipici dei tradizionali media di comunicazione della moda: infatti, le copertine di studentesse e studenti confermano questa sostanziale conformità ai codici normativi di rappresentazione del corpo. Tuttavia, reinterpretano le immagini e le rappresentazioni diffuse secondo nuove sensibilità, portando così nel discorso pubblico temi come la sostenibilità, il genere, la diversità culturale e i canoni di bellezza, la positività del corpo, gli stereotipi, ecc. (Noia et al., 2023). Anche la rappresentazione di individui razzializzati emerge in relazione a specifici temi, attraverso personaggi legati alla musica (Peggy Gou, Rosalia, Travis Scott e ASAP Rocky), alla politica (Kamala Harris), a progetti legati alla sostenibilità (Pharrell Williams), alla diversità intesa in un senso ampio di accettazione del proprio corpo e delle proprie peculiarità (Winnie Harlow). |
10:30 - 10:45 | Coffee break 2 |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 1: TikTok e culture digitali Luogo, sala: Aula Aldo Moro Chair di sessione: Francesca Comunello |
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Machine Habitus come Metodo: Oltre gli Hashtag e le Mention per lo Studio di TikTok Università degli studi di Napoli Federico II, Italia TikTok è una piattaforma di social media in cui gli utenti condividono video di breve durata. Questa piattaforma è nota per attirare un pubblico più giovane rispetto ai social media di prima generazione e la sua popolarità è cresciuta durante la pandemia di COVID-19 raggiungendo circa 1,5 miliardi di utenti attivi globalmente. La ricerca del successo su TikTok non si basa principalmente sulla cura dell’autenticità attraverso pratiche di self-branding ma si ottiene invece attraverso la replica personalizzata di un tema comune: una danza, una canzone, una posa comica. Le affordance della piattaforma che strutturano il flusso comunicativo privilegiano la ripetizione rispetto all’unicità del contenuto. Per tale caratteristica, TikTok è stata concettualizzata come ‘macchina memetica’ (Zulli & Zulli, 2022). Inoltre, l’algoritmo della piattaforma è noto per la sua notevole adattabilità alle preferenze dell’utente. A differenza delle piattaforme come Facebook e Twitter, i contenuti che gli utenti vedono su TikTok si basano principalmente sulle loro interazioni con l'app, non sul loro social network o sugli hashtag. Ciò crea un’esperienza di interazione con un algoritmo che fornisce ‘contenuti senza contesto’ (Bhandari & Bimo, 2022), piuttosto che una comunità di utenti con interessi condivisi. Gli strumenti utilizzati dai ricercatori sociali per la raccolta e analisi dei dati variano dalle estensioni per browser, agli strumenti di web-scraping fino alle official research APIs (Weimann & Masri, 2023). Tuttavia, questi strumenti faticano a mappare i grafi sociali e le mappe di significati generate degli utenti su TikTok. Infatti, le logiche di funzionamento della piattaforma e le nuove pratiche di utilizzo rendono le mention e gli hashtag ancoraggi non efficaci ai fini della ricerca sociale. Per superare questa sfida, ho sviluppato una strategia metodologica chiamata ‘Machine Habitus as Method’ nell’ambito dell’approccio dell’etnografia digitale (Caliandro, 2018). Tale approccio è nato dalla riflessione metodologica condotta in due progetti di ricerca. Il primo esplora la forma digitale degli imprenditori industriosi a Napoli, e il secondo la costruzione dell’immaginario della camorra su TikTok. Questo metodo si ispira allo studio di Airoldi (2022) sui meccanismi algoritmici. Fornendo degli input selezionati attraverso un campionamento ragionato, interagendo in una logica di feedback-looping con la piattaforma e fornendole feedback specifici, indico all'algoritmo quali contenuti sono rilevanti per gli obiettivi delle ricerche. In questo modo intendo esplorare i limiti degli approcci metodologici consolidati nello studio di TikTok e le possibili strategie alternative. Screenshot sousveillance: il complesso rapporto tra fan activism e teorie del complotto. Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia Sappiamo, dalla letteratura di riferimento legata al mondo delle fandom, che queste comunità di fan articolate tramite i social media possono essere capaci di azioni collettive con risvolti politico-sociali (Jenkins et al. 2016), che alle volte portano a veri cambiamenti (De Kosnik e Carrington 2019). In questo senso è possibile parlare di fan activism, secondo cui i fan impiegano tattiche tipiche dell’attivismo per influenzare i media circa questioni pubbliche (Hinck 2019). In questo quadro si colloca il movimento #FreeBritney. Infatti, a partire dal 2019 questo organizza proteste online e offline, spinte dalla preoccupazione per il benessere di Britney Spears, sottoposta da oltre un decennio alla conservatorship (Daros 2021). Mentre spesso si assiste celebrità che cercano di sensibilizzare i propri fan su temi sociali, il movimento #FreeBritney inverte questa dinamica: i fan si mobilitano in autonomia per supportare la celebrità, percepita come esautorata e, per estensione, supportano temi sociali più ampi legati a tale esautoramento (Riddick 2022). Come illustrato da Hopkins (2022), i fan hanno decodificato i post di Britney Spears sui social media per far luce sulle sue condizioni, ottenendo alla fine un riconoscimento dalla stessa star per la loro efficacia (Spears 2021). Diversi autori (Smith e Southerton 2022; Riddick 2022) hanno mostrato che vi siano delle assonanze tra lo sforzo investigativo del movimento #FreeBritney e le teorie del complotto, allo stesso tempo quelle che venivano etichettate come teorie cospirazioniste si sono rivelate corrette. Tuttavia, la gestione fuori fuoco dell'immagine online della Spears, non ha dissipato i dubbi dei fan sul suo benessere, portandoli alla produzione di ulteriori post allarmati (Jennings 2023). Questa ricerca si propone di analizzare qualitativamente i contenuti di queste nuove narrazioni, focalizzandosi sull’utilizzo degli screenshot in quanto strumento di cattura e condivisione di informazioni online (Zurovac 2023). Nello specifico si è voluto rispondere alle seguenti domande: DR1) quali teorie vengono presentate? DR2) che tipo di elementi vengono presentati a supporto? DR3) come vengono recepiti tali contenuti dal pubblico? Vista la natura eminentemente visuale del fenomeno, e per via della popolarità della piattaforma, come luogo di osservazione è stato scelto Tiktok, esplorando nello specifico gli hashtag #FreeBritney e #FreeBritneyMovement. In questa sede vengono presentati i risultati preliminari dell’analisi qualitativa di 100 video, comprensivi dei primi 5 commenti (n=499) (Eriksson Krutrök e Åkerlund, 2022; Boccia Artieri, Zurovac e Donato 2023) analizzati quantitativamente. I dati mostrano che tramite gli screenshot, usati come mezzo di sousveillance (Jenkins e Cramer 2022), vengano diffuse prove a sostegno circa la presenza di forme di visual media manipulation (es.: uso fazioso di immagini passate; uso di immagini costruite al computer). Da cui derivano spiegazioni legate al persistente malessere della cantante fino alle cospirazioni circa il suo essere stata sostituita (es.: da una sosia, da un alter ego virtuale), basate nella totalità dei casi sull’analisi del corpo della Spears, e di come questo performi in video. Dal punto di vista della ricezione osserviamo come la maggior parte dei commenti (45%) è in accordo con le teorie presentate (contro un 19% di commenti scettici). Si nota una importante presenza di commenti che richiedono ulteriori informazioni (24%), mentre il desiderio di agire è relegato a volumi marginali (12%). In conclusione è possibile sostenere che il dubbio cospirazionista (Sustein e Vermule 2009; Aupers 2012) precedentemente salvifico, tra i pubblici specifici di Tiktok (Zurovac, Boccia Artieri e Donato 2023) inficia la qualità del discorso depotenziando la voce del movimento e quindi della mobilitazione (Husting e Orr 2007). La ricerca fornisce utili spunti per riflettere sui confini labili tra il fan activism, teorie del complotto e i limiti dell’espressione della sorveglianza dal basso, anche secondo una prospettiva di genere. Le trasformazioni contemporanee della cultura popolare post-digitale attraverso TikTok. Pratiche di video-sharing tra creatività vernacolare, lavoro informale e istanze commerciali nel contesto trans-locale di Napoli 1Università degli Studi di Napoli Federico II; 2Università degli Studi di Napoli Federico II La straordinaria diffusione di TikTok durante la pandemia ha segnato una tappa significativa nella trasformazione della cultura popolare post-digitale, mobilitando significativi investimenti di capitale, attenzione, lavoro creativo, affettività e relazioni sociali. La piattaforma di origine cinese si è infatti affermata come una nuova stratificazione nel panorama mediatico, conquistando una posizione centrale in processi di convergenza e rimediazione osservabili sia a livello mainstream che nell’ambito delle sottoculture. La vasta portata e le innovative implicazioni del suo successo, associato in primo luogo alla generazione Z, hanno sollecitato un'attenzione critica nella ricerca sociale e culturale, stimolando studi e dibattiti. L'interazione tra il design della piattaforma e le modalità di espressione e fruizione culturale che essa stimola e accoglie ha creato un ambiente particolarmente coinvolgente e dato vita a nuove composizioni di pubblico, modulando le esperienze di utilizzo attraverso la combinazione di culture di consumo, intrattenimento, istanze promozionali, creatività vernacolare e subculturale, espressione artistica, contenuti di storytelling e pratiche di vita quotidiana. Le sinergie tra immagine pubblica, interfaccia, affordances e design algoritmico hanno attratto una vasta ed eterogenea platea di utenti, da lurkers a content creators. La capacità di TikTok di soddisfare la propensione al consumo e alla riproduzione di contenuti di intrattenimento e creatività vernacolare ha contribuito a promuoverne l'immagine di “spazio di benessere”, mentre la sua versatilità commerciale ne ha affermato la credibilità come canale di opportunità promozionale a diversi livelli, soprattutto tra attori meno consolidati, allargando la propria attrattività e rilevanza dalle catene di distribuzione internazionale verso l'economia informale locale. Tali fenomeni suggeriscono dei processi di ridefinizione delle visibilità che coinvolgono le capacità di rappresentazione di soggettività convenzionalmente sottoesposte o marginalizzate in altre piattaforme mediatiche. Questo contributo intende esplorare le possibilità di ricerca nelle culture popolari contemporanee attraverso la mediazione tecnologica di TikTok, a partire da un caso studio empirico sull’utilizzo della piattaforma nel contesto urbano napoletano, osservando i processi di adozione, adattamento, assimilazione culturale e integrazione economica di TikTok nelle attività locali, attraverso l’analisi dei contenuti e delle pratiche di utilizzo. Si considerano le modalità di uso, quotidiano o professionale, della piattaforma, dall'interazione alla creazione di contenuti; si analizzano le rappresentazioni, la riproduzione e diversificazione di stilemi culturali in rapporto al contesto sociale. Lo studio interpreta la capacità di TikTok di proporsi contemporaneamente come infrastruttura culturale – aperta a forme di creatività appartenenti a soggettività convenzionalmente sottoesposte o marginalizzate – ed economica – in grado di assorbire istanze commerciali provenienti da attività non consolidate, e molteplici figure lavorative, spesso informali, emergenti o precarie. Secondo tale inquadramento, la dimensione trans-locale del contesto trova una sua rilevanza nell’osservazione, in particolare nel caso di Napoli che si presenta come una topica polivalente della piattaforma, di particolare portata e rilevanza, ma anche di complessa lettura culturale e sociale. Combinando diversi metodi (etnografia digitale, altri metodi digitali, interviste e analisi dei contenuti) e approcci teorici (studi culturali, studi sul folklore, studi femministi sui media), si analizza la produzione culturale di contenuti mediata dalla piattaforma e incorporata nelle dinamiche sociali del contesto (nella sua dimensione trans-locale) attraverso una prospettiva situata ed auto-riflessiva. Attraverso la condivisione di premesse e intuizioni, nonché dei risultati preliminari di osservazione, questo contributo intende considerare alcuni aspetti teorici e metodologici che caratterizzano il campo d’indagine: la dimensione culturale post-digitale che include gli aspetti cross-mediali e le genealogie di rimediazione di tecniche, generi, stilemi e linguaggi, artistici e comunicativi attraverso il video-sharing, mettendo in luce le connessioni con industrie culturali consolidate; l’articolazione trans-locale delle forme espressive e delle identità culturali; l’importanza di approcci metodologici che contemplino prospettive situate, approcci critici e auto-riflessivi; la considerazione del contesto nei fenomeni di platformisation delle economie locali. IL FENOMENO DEL #BOOKTOK: UNA NUOVA OPPORTUNITÀ PER L’EDITORIA ITALIANA? STUDIO E ANALISI DEL FENOMENO E DEI NUOVI INFLUENCER DELL’EDITORIA Università degli studi di Bari "Aldo Moro", Italia Nell’ultimo decennio, lo sviluppo e la diffusione dei social network hanno portato radicali cambiamenti, introducendo nuovi modelli di comunicazione che rispondono in maniera efficiente al cambiamento generazionale e alla trasformazione della società. Una profonda rivoluzione, caratterizzata da una straordinaria integrazione con i mezzi multimediali, ha in particolare interessato il mondo dell’editoria, sia in ambito tecnologico, che in ambito commerciale e di contenuti. La rete, infatti, rende oggi possibile analizzare i trend di interesse e di guidare il mercato verso prodotti dal contenuto più appetibile. Questo ha determinato l’avvio di un processo di disintermediazione nel rapporto tra editori e lettori, non solo con l’evoluzione dei libri – che passano dall’essere dei prodotti tradizionali in formato cartaceo a e-book e audiolibri – anche il lettore con le sue abitudini si sta evolvendo. (Dardi F., 2011). È innegabile che i social network abbiano contribuito allo sviluppo e alla crescita del mondo editoriale. Nel corso del 2023 si registra un sostanziale aumento del numero di lettori italiani. Infatti, sono il 74% le persone tra i 15 e 74 anni che hanno letto almeno un libro – che sia cartaceo o in altri formati –. Si tratta di una stima di circa 33 milioni di persone (ANSA, 2023). È possibile affermare che la percentuale di lettori italiani risulta in continua crescita già a partire dal 2020, periodo che corrisponde all’inizio della pandemia da Covid-19. Parallelamente si registra, infatti, una corrispondente crescita del mercato del libro pari al 2,4%, ritenuta una delle migliori performance a livello Europeo (Il Libraio, 2021). Parte del merito della crescita del mondo editoriale lo si può attribuire al contributo dei social network e delle piattaforme. A partire dal 2020, TikTok si afferma come una tra le piattaforme social più usate dalle nuove generazioni. Contestualmente alla sua diffusione nasce e si afferma il fenomeno del BookTok: con circa 30 milioni di post su TikTok e oltre 100 miliardi di visualizzazioni, contribuisce all’avvicinamento alla lettura di nuovi utenti e alla pubblicizzazione di nuove pubblicazioni. L’industria editoriale ha colto subito le potenzialità del BookTok, tanto che esistono sezioni apposite nelle librerie e negli store online dedicate ai libri di maggior tendenza e ai consigli dei creator. Il presente lavoro delinea un’analisi del contesto italiano editoriale a partire dagli anni 2000 a oggi, mettendo in evidenza come si è evoluto in relazione alla società, soprattutto con l’introduzione dei social media. Il paper offre una panoramica sull’uso della piattaforma di TikTok tra il 2020 e il 2023 in Italia, nello specifico focalizza sul fenomeno del BookTok. Si intende analizzare come questo si è evoluto in questa fascia temporale, quale impatto ha avuto sulla società e sulla definizione delle comunità dei lettori, delineando gli aspetti positivi e negativi. Nel dettaglio, il fenomeno del BookTok si è consolidato portando alla nascita di una nuova categoria di influencer: i book creator. Grazie a questa nuova tipologia di creator nascono nuove forme di lettura: la lettura diventa un momento di condivisione, nascono gruppi di lettura a distanza, live di lettura, interviste con gli autori, brevi videorecensioni e classifiche di preferenza in grado di catturare l’attenzione dei più giovani, maggiori fruitori della piattaforma. Lo studio e la comprensione di questo processo, ancora in fase di sviluppo, è stato possibile attraverso l’utilizzo di metodologie di analisi basate sulla content analysis, e lo studio dei trend. Si è reso quindi possibile determinare quali contenuti e le ragioni per cui questi ultimi possono divenire virali, in funzione del funzionamento dell’algoritmo di TikTok, che premia i contenuti pubblicati in base a 6 metriche: video views, likes, commenti, other interactions, linee guida, watch time. |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 2: Adozione delle tecnologie Luogo, sala: Aula Calasso Chair di sessione: Alberto Marinelli |
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Precocità digitale e disuguaglianza sociale. 1University of Milano-Bicocca, Italia; 2University of Brescia C'è un acceso dibattito sull'accesso precoce agli ambienti digitali da parte di bambini e pre-adolescenti: i genitori e gli educatori sembrano disorientati e si chiedono se anticipare l'accesso a Internet sia desiderabile o meno (Livingstone&Blum-Ross, 2022). Nel frattempo, l'accesso precoce a Internet è sempre più comune: ad esempio, il momento di arrivo di uno smartphone personale è costantemente anticipato tra i giovani adolescenti, e la pandemia da covid-19 ha ulteriormente accelerato questa tendenza (Mascheroni & Siibak 2021). Contemporaneamente, è stato argomentato che la capacità di limitare, selezionare - e quindi sfruttare meglio - la sovrabbondanza comunicativa digitale è correlata al vantaggio socio-economico. Ciò significa che - per alcuni aspetti - il digital divide di accesso, tipico degli anni ‘90 e in cui il maggiore uso del digitale era associato al vantaggio socio-economico, si è in qualche modo “rovesciato” (Gui e Büchi, 2021). Per quanto riguarda l’infanzia, c’è evidenza che la concessione di smartphone, console per videogiochi e altre forme di accesso autonomo a Internet vengano anticipati soprattutto tra le famiglie svantaggiate dal punto di vista socio-economico (Gui et al. 2020). La ricerca sta inoltre evidenziando che diverse forme di uso problematico dei media digitali si manifestano più frequentemente in famiglie con minore capitale culturale (Gerosa et al. 2021). Rimane meno chiaro, invece, se la precocità di frequentazione degli ambienti digitali sia di per sé causa di problemi legati al benessere dei minori a lungo termine (vedi Gerosa et al. 2024). Se così fosse, la precocità d’uso di Internet diverrebbe interpretabile come fonte aggiuntiva di disuguaglianza sociale. In particolare, il possibile impatto negativo dell'uso precoce dei media digitali sui risultati di apprendimento che sono emersi in letteratura sono spesso criticati per non essere solidi dal punto di vista metodologico, in quanto si basano su dati correlazionali o longitudinali a breve termine (Amez & Baert 2020). Pertanto, c'è un urgente bisogno di raccogliere evidenze empiriche robuste su perché e come i problemi online possano essere predetti dalle vulnerabilità dei giovani offline (Odgers & Jensen 2022), in particolare su come l'accesso precoce alla connessione permanente interagisce con la disuguaglianza sociale nella vita dei giovani. Per colmare queste lacune, miriamo a fornire la stima più rigorosa finora dell'impatto di un accesso autonomo precoce agli smartphone, ai videogiochi e ai social media sui risultati di apprendimento degli studenti delle scuole superiori, e la sua interazione con il genere, l'origine migratoria e l'istruzione dei genitori. Ciò è possibile poiché - per la prima volta da quando INVALSI (l'Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo e di Istruzione Italiano) ha iniziato a raccogliere dati sui risultati degli studenti - sono disponibili i dati dell'intera carriera scolastica degli attuali studenti del decimo e undicesimo grado. Sfruttando questa possibilità, uniamo dati di una indagine retrospettiva ad hoc sull'uso degli schermi durante l'infanzia e l'adolescenza precoce - da noi svolta nell'ambito del progetto EYES UP finanziato da Fondazione Cariplo - con i risultati di apprendimento longitudinale degli studenti ai gradi 2º, 5º, 8º e 10º. Un dataset con 6738 studenti delle scuole superiori nel nord Italia, rappresentativo per tipo di scuola, viene analizzato per rispondere alle domande sopra menzionate mediante analisi longitudinale. I risultati preliminari confermano che l'uso precoce e autonomo dei digitali è più probabile nelle famiglie svantaggiate dal punto di vista socioeconomico e che l'età di possesso dello smartphone ha un impatto negativo sui risultati di apprendimento scolastico sia nella scuola primaria che in quella secondaria per coloro con abitudini preesistenti di uso intensivo dei media durante l'infanzia. Il paper discute le implicazioni di tali risultati per la teoria della comunicazione e dell'educazione, in particolare per quanto riguarda la disuguaglianza digitale in contesti tecnologicamente maturi. Tra rotture e continuità: costruire il genere attraverso la relazione con gli smart speaker 1Università Cattolica del Sacro Cuore; 2Università di Bergamo, Italia A partire dall’analisi dei dati raccolti con una ricerca qualitativa longitudinale che ha coinvolto venti famiglie con almeno un figlio di età pari o inferiore a otto anni, il contributo mira a comprendere il ruolo degli smart speaker (come Alexa o Google Home) nella produzione di relazioni, immaginari e discorsi di genere associati sia alla genitorialità che alla tecnologia. I risultati mostrano che, nello spazio domestico, gli immaginari di genere (genitoriali) tendono a riprodurre stereotipi anche quando si tratta di smart speaker; il padre è associato alla competenza e alla padronanza tecnologica, mentre la madre alla responsabilità di richiamare l'attenzione sui possibili rischi e alle pratiche di cura volte a mitigarli. Allo stesso tempo, tuttavia, le madri sono messe in discussione in questo ruolo per il loro supposto analfabetismo digitale, sia da parte dei figli che dei partner. Un'espressione di questa struttura stereotipata è il modello di maternità che ne deriva. La presenza di smart speaker all'interno della famiglia evidenzia le tensioni e le ambiguità del modello di maternità intensiva (intensive motherhood). In effetti, si materializza un processo paradossale, in cui le madri sono messe sotto accusa da pressioni contraddittorie: da un lato, abbracciano le ultime novità tecnologiche e favoriscono l'acquisizione di competenze digitali da parte dei figli; dall'altro, vengono stigmatizzate per aver esposto bambini/e a rischi e per non essere abbastanza competenti. Allo stesso tempo, il genere è costruito, ridefinito e messo in discussione dalle pratiche di comunicazione intraprese dalle famiglie attraverso, e con, gli smart speaker. Il genere acquisisce significato nei modi in cui le famiglie lo associano agli smart speaker, ma anche nei modi in cui viene ridiscusso a partire dal ruolo ambivalente occupato da questi agenti vocali nella famiglia. Questo processo di creazione del genere, e dei suoi significati, è particolarmente visibile nel momento in cui avvengono disallineamenti e rotture di queste pratiche comunicative; rotture che producono momenti di apertura verso nuove narrazioni e discorsi (potenzialmente favorevoli a processi di soggettivazione). Queste interruzioni ridefiniscono la relazione genitore-figlio/a e moltiplicano i possibili discorsi sulla maschilità e sulla femminilità all'interno della famiglia, negoziando sia le tecnologie sia la genitorialità sul piano della vita quotidiana. Invecchiare nell'era digitale: Uno studio sulla complessa relazione tra anziani e nuove tecnologie Università degli Studi di Udine, Italia Il contributo proposto analizza l’attuale relazione tra persone anziane e nuove tecnologie, alla luce delle considerazioni più recenti presenti in letteratura. Il concetto chiave che vogliamo avanzare è quello di “dissonanza strutturale” tra come sono state concepite le moderne tecnologie digitali, in particolare gli smartphone, e la realtà quotidiana vissuta dagli anziani. Queste tecnologie, sviluppate negli anni '90 all’interno di culture dominate da comunità ipermaschili di giovani designer, sono infatti state progettate principalmente per i giovani, ovvero per una popolazione contraddistinta da curiosità, entusiasmo verso l’innovazione, propensione ad adottare nuovi dispositivi, e alto grado di flessibilità e adattabilità. Gli anziani, al contrario, costituiscono un gruppo che generalmente non accoglie con favore il cambiamento, e che magari tende a percepire l'apprendimento continuo come un peso. Durante la fase iniziale, in cui si erano mostrati lenti nell'accesso e nell'utilizzo di queste tecnologie, gli studiosi avevano attribuito questo ritardo principalmente alle caratteristiche della terza età, con l'effetto implicito che le persone più anziane sono state accusate di essere il gruppo sociale più arretrato rispetto a queste innovazioni, accolte invece con entusiasmo da tutte le altre fasce di età. I primi studi presenti in letteratura spesso hanno sottolineato i sensi di colpa e di inadeguatezza vissuti dagli anziani durante la loro prima fase di coinvolgimento nella società dell'informazione. Inoltre, quegli anziani, non avendo avuto esperienza con le tecnologie digitali né in età giovanile, né in età adulta, si ritrovavano in un certo senso costretti ad accettarle così come venivano loro proposte o a rifiutarle. Nella prospettiva di comprendere meglio il rapporto attuale tra anziani e tecnologie digitali, abbiamo coinvolto una classe di studenti del primo anno del corso di laurea in Scienze e tecnologie multimediali dell’Università degli Studi di Udine che, dopo un breve periodo di formazione, ha condotto delle interviste semi-strutturate con 344 anziani (53,6% donne; età media di 76,3 anni), selezionati principalmente tra i loro nonni, prozii, vicini di casa o amici di famiglia. Le interviste hanno esplorato diverse dimensioni - dal possesso dei singoli dispositivi alla frequenza di utilizzo, al senso di agio o disagio - e hanno sondato anche le emozioni e i significati soggettivi attribuiti dagli anziani alle nuove tecnologie, le motivazioni e i bisogni associati al loro uso, le preferenze riguardo all’adozione di ulteriori tecnologie, incluse quelle di tipo robotico, e l’eventuale desiderio di imparare ad utilizzare nuovi dispositivi o di seguire un corso di alfabetizzazione informatica. Con la prima domanda di ricerca (RQ1) abbiamo indagato se le sensazioni di disagio e di inadeguatezza precedentemente riportate in letteratura e riconducibili alla dissonanza strutturale, continuassero ad essere presenti. Inoltre, a partire soprattutto da quanto proposto da Fortunati & Edwards (2022), abbiamo analizzato se tali tecnologie continuassero a perpetuare una disparità di genere anche in questo campo (RQ2). Infine, basandoci sul modello di strutturazione demografica della terza età elaborato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e discusso da Vincent (2023), abbiamo esplorato se all'interno di questa popolazione, fosse possibile, individuare delle fasce d’età che presentassero differenti tipologie di relazione con gli smartphone e con le tecnologie digitali (RQ3). I risultati possono essere riassunti in tre punti: 1) Gli anziani continuano a percepire una dissonanza tra loro e le nuove tecnologie, sottolineando spesso anche la loro mancanza di alfabetizzazione digitale; 2) Le donne anziane sperimentano una maggiore esclusione sociale legata all’uso di queste tecnologie rispetto ai loro coetanei uomini; 3) Mentre i giovani anziani ormai interagiscono con le tecnologie digitali, dimostrando un certo grado di confidenza, i grandi anziani mostrano un coinvolgimento significativamente minore. Per una comprensione dei fenomeni di disconnessione digitale. Pratiche, strategie, motivazioni 1Università Cattolica, Milano; 2Università degli studi di Bergamo, Italia; 3Università Cattolica, Milano Il contributo proposto si colloca all’interno della riflessione teorica e della ricerca empirica che nell’ultimo decennio si sono sviluppate a partire dalla crescente visibilità dei fenomeni di Digital Disconnection (DD), intesa come un set di pratiche sociali volte alla rinuncia alla connessione a specifiche tecnologie digitali (device, piattaforme, servizi, funzioni) o a contenuti o relazioni sociali online da parte dei loro utenti; tale rinuncia può essere temporanea o definitiva, volontaria o condizionata, generalizzata o selettiva, saltuaria o periodica, per lunghi o brevi periodi, dando così vita a una pluralità di forme che difficilmente possono essere ricondotte a una medesima istanza o ad un’unica interpretazione. Lo sviluppo relativamente recente dei disconnection studies (Altmaier et al., 2024; Figueiras and Brites, 2022) dà conto del riconoscimento di questa multiforme fenomenologia e, al tempo stesso, della necessità di comprenderne il senso e la portata nell’attuale contesto di società caratterizzate dal paradigma della connessione digitale ubiqua e costante. La nozione stessa di DD ha così progressivamente perso la natura binaria di una pura e semplice opposizione alla condizione di connessione, rivelandosi piuttosto come una modulazione inevitabile di processi di selezione, di strategie di disentangling (Adams & Jansson, 2023) o di procedure di esclusione, sempre in dialettica con l’esperienza – o la possibilità – di essere connessi: dis/connection più che mera disconnection, per adottare la grafia proposta da Lim (2020). Il dibattito teorico ha efficacemente evidenziato le varie istanze che animano le pratiche di DD, riconoscendone le radici in processi socio-culturali di natura molto diversa e spesso contrapposta, soprattutto in riferimento all’adesione o – viceversa – alla resistenza rispetto alle logiche del capitalismo digitale e al potere delle piattaforme algoritmiche (Bonini e Trerè 2024). Dal canto suo, la ricerca empirica si è concentrata soprattutto sue due oggetti di studio: da una parte i discorsi sociali che accompagnano e promuovono le pratiche di DD (manuali di self-help, programmi di digital detox, raccomandazioni di esperti, articoli di giornale etc.), dall’altra l’esperienza degli utenti più o meno direttamente impegnati in percorsi di disconnessione, raccolta con diversi strumenti qualitativi (interviste, diari, self-report etc.) o quantitativi (online survey, quasi-esperimenti etc.) (Altmaier et al., 2024). Il presente contributo si colloca sul versante della ricerca empirica a carattere quantitativo e presenta i risultati di una web survey a carattere esplorativo somministrata a un campione rappresentativo della popolazione di utenti italiani di Internet. Obiettivo principale della survey è fornire una misura del fenomeno di DD nella sua accezione più ampia per poi descriverne le forme più diffuse nel nostro contesto nazionale. Le domande di ricerca che hanno guidato la costruzione del questionario e l’analisi dei dati ruotano intorno al tipo di tecnologie rispetto alle quali ci si disconnette, ai parametri spazio-temporali di questa disconnessione, alle strategie / tattiche adottate con maggiore frequenza, all’adozione di tools o di software finalizzati al controllo e alla riduzione della connessione, all’adesione a specifici programmi individuali o di gruppo; particolare attenzione è rivolta alle motivazioni che sostengono le pratiche di DD, alla percezione di eventuali effetti conseguenti, all’intenzione di avviare in futuro percorsi analoghi. Oltre alle tradizionali variabili sociodemografiche, si intende prendere in considerazione la stratificazione generazionale che articola la popolazione degli utenti italiani e che riflette differenti posizioni nel corso di vita, diverse biografie mediali e una certa varietà di percorsi di addomesticamento (e ri-addomesticamento) delle tecnologie digitali. Nel complesso, il contributo mira a restituire una prima fotografia della DD in Italia al fine di verificare la pertinenza delle diverse ipotesi interpretative che sono state proposte a livello internazionale e costituire una base di dati sulla quale sviluppare ulteriori piste di indagine, anche a carattere qualitativo. Riferimenti bibliografici Threema e le applicazioni di messaggistica sicura: le esperienze situate degli utenti attraverso la prospettiva della ‘teoria della pratica’ Università degli Studi di Padova, Italia Il contesto contemporaneo della comunicazione digitale è caratterizzato da tendenze contraddittorie e ambivalenti. Per quanto riguarda le piattaforme digitali, possiamo osservare che mentre le grandi piattaforme operano sempre di più nell’invisibilità al pari delle infrastrutture tradizionali (Plantin et al., 2018), esse sono al contempo sovraesposte nel dibattito pubblico. Le conseguenze sociali del loro crescente potere sono largamente dibattute, e spesso in una luce negativa. Ciò sarebbe anche il risultato di alcuni “shock pubblici”: eventi come le rivelazioni di Snowden o lo scandalo Cambridge Analytica hanno influenzato la percezione pubblica delle piattaforme e hanno evidenziato come esse costituiscano strumenti di sorveglianza di massa (Ananny & Gillespie, 2017). Nel campo della messaggistica istantanea, la crescente consapevolezza dei rischi relativi alla racconta dei dati personali ha già prodotto cambiamenti radicali. Tra questi, lo sviluppo di nuovi standard, come quello informale della crittografia end-to-end (Ermoshina & Musiani, 2019). Inoltre, la crescente sfiducia nei confronti di WhatsApp, l'applicazione di messaggistica egemone in Occidente e posseduta da Meta, ha contribuito alla fioritura di un’ampia varietà di applicazioni di messaggistica sicura alternative, come Signal e Telegram (Ermoshina & Musiani, 2022). Tra queste, Threema costituisce un caso di studio particolarmente significativo, sebbene largamente trascurato. Con oltre 11 milioni di utenti e 7.000 abbonati istituzionali nell'area europea di lingua tedesca, questa piattaforma Svizzera è la più diffusa app europea di messaggistica. Essa si presenta come l’alternativa a WhatsApp e punta a differenziarsi da altri servizi orientati alla privacy grazie a un'originale combinazione di crittografia, data center localizzati sul territorio svizzero e una raccolta dati minimizzata. La presentazione contribuisce al dibattito sulla sicurezza dei dati e sul ruolo delle piattaforme alternative di messaggistica istantanee concentrandosi sull’analisi delle pratiche situate e dei processi di appropriazione nell’uso della piattaforma Threema da parte degli utenti. In particolare, vengono approfonditi alcuni aspetti tra i quali: i processi attraverso i quali gli utilizzatori iniziano ad usare la piattaforma; come essi sviluppano processi di appropriazione caratteristici; come affrontano problemi e negoziano incongruenze nonché disallineamenti tra la configurazione tecnica piattaforme e l’universo quotidiano costituito da relazioni, routine e abitudini. L'analisi si basa su una serie di materiali empirici che includono, in particolare, 18 interviste qualitative semi-strutturate con utilizzatori della piattaforma Threema, realizzate tra la fine del 2023 e gli inizi del 2024 in Germania. Il design metodologico è radicato nella ‘Grounded Theory’ (Charmaz, 2006), e dunque caratterizzato da un processo iterativo e ricorsivo di raccolta, codifica e analisi dei dati, attraverso il quale sono state identificate le categorie e i concetti utilizzati nella presentazione dei dati. Dal punto di vista concettuale, lo studio si basa su almeno due prospettive di analisi tra loro interconnesse. Per un verso viene utilizzata una prospettiva di analisi tipica della ‘teoria della pratica’ (Shove et al. 2012; Couldry, 2012), con l’obiettivo di porre l’attenzione su come l’introduzione di nuovi sistemi di messaggistica si inserisce in pratiche più o meno strutturate di comunicazione interpersonale, richiedendo dunque una ristrutturazione di queste attività a partire dalle caratteristiche e vincoli delle tecnologie. Per un altro verso, la presentazione adotta concetti provenienti dagli ‘user studies’ (Oudshoorn e Pinch 2003) di matrice STS (Science & Technology Studies), con l’obiettivo di rendere evidente come le attività situate delle persone che adottano le tecnologie di messaggistica istantanea prendono forma a partire da un loro coinvolgimento attivo, guidato dalla necessità di allineare costantemente le richieste delle tecnologie con i bisogni legati al contesto sociale in cui esse sono inserite. |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 3: Media e teoria sociale Luogo, sala: Aula T01 Chair di sessione: Paolo Terenzi |
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Intelligenza Artificiale come paradigma di cambiamento: dalla relazione uomo-macchina alla crisi della teoria della soggettività Universidad de Córdoba, España - Università di Padova, Italia Il connubio tra la naturale inclinazione e l’instancabile ricerca di imitazione di ciò che gli esseri umani comprendono ha condotto alla convergenza di due grandi fenomeni: da un lato si assiste alla meccanizzazione dell’essere umano e delle sue capacità; e, dall’altro lato, ciò che è artificiale assume sempre più spesso sembianze umane, sia per quanto riguarda le funzioni sia con riferimento all’aspetto esteriore. L’intervento e l’esponenziale evoluzione dell’Intelligenza Artificiale hanno contribuito allo sviluppo di sistemi robotici tanto autonomi da poter assumere delle decisioni che, in connessione con la crescente tendenza degli studiosi ad utilizzare metafore tratte dalle attività mentali umane per descrivere i sistemi intelligenti, ha accorciato rapidamente la distanza nella nascente relazione uomo-macchina. L’intersezione tra l’evoluzione storica, culturale e scientifica di un simile fenomeno con l’assetto giuridico e sociale italiano ha condotto all’emersione di innumerevoli questioni che necessitano di un’analisi approfondita. In particolare, spicca per complessità il dilemma inerente a quale forma di riconoscimento giuridico possa essere accordata ad un sistema programmato secondo l’intelligenza artificiale. Difatti, di fronte a sistemi robotici sofisticati la teoria dell’intelligenza artificiale forte suggerirebbe un paragone con l’essere umano, giungendo a riconoscere i primi titolari di diritti e doveri, nonché autonomi centri di responsabilità. Tuttavia, al fine di garantire un riconoscimento ed una tutela giuridica ai sistemi di intelligenza artificiale, si richiederebbe l’attribuzione di valori e categorie giuridiche tipiche e costruite ad hoc per degli esseri umani, soprattutto in termini di soggettività. Ed è proprio nel percorrere tale via che si incontra il temuto confronto uomo-macchina, il quale solleva timori di aspirazione filosofica, antropologica e sociologica di dover capire cosa individui davvero l’uomo, e cosa lo distingua da un sistema di IA, e contemporaneamente evidenzia l’anomalia nell’applicazione della teoria della soggettività, influenzata da una riduzionistica concezione individualista dell’essere umano propria della modernità. In questo scenario, l’obiettivo e l’attività di partenza sono stati proprio quelli di comprendere e verificare la tenuta del concetto di soggettività umana, di intenzionalità, di coscienza e di responsabilità, quali capisaldi tramandatici dalla tradizione giusnaturalista; per passare, poi, al ripensamento di concettualizzazioni meglio adattabili alla nascente relazione uomo-macchina ed alla macchina intelligente in quanto tale nella sua singolarità, quali frutti del cambio di paradigma al quale si sta assistendo. Cogliendo gli insegnamenti epistemologici di Thomas Kuhn, si giunge infine a ravvisare la necessaria ri-emersione di un nuovo paradigma che permetta innanzitutto di affrontare criticamente lo studio di una teoria della soggettività in relazione alle numerose applicazioni dell’intelligenza artificiale, ed in secondo luogo consenta altresì l’affermazione di una relazione uomo-macchina nella quale, a fronte della sempre più preponderante capacità di autodeterminarsi del robot, si conservino le qualità distintive e caratterizzanti l’essere umano, come in primis l’ irriducibile complessità della coscienza. Big data, sfiducia democratica e crisi della riflessione sociologica Università del Salento, Italia Ogni innovazione tecnologica ha sempre determinato nella società un atteggiamento ambivalente, suscitando angosciate preoccupazioni o entusiasmanti speranze. In entrambi i casi la società si trova a sperimentare la destabilizzazione delle sue certezze e quindi la sua crisi. Anche oggi con la diffusione dei big data e dell’AI ci troviamo nuovamente di fronte a una situazione critica. L’ipotesi del saggio è che quando ci troviamo davanti a una crisi sociale non siamo davanti a un problema strutturale, endemico-ontologico, ma davanti a una crisi sociologica delle capacità di osservare e interpretare la realtà. Infatti mentre i big data, con le loro analisi predittive, hanno lo sguardo rivolto al futuro, la sociologia tende ad avere lo sguardo rivolto al passato, perché descrive la società sulla base di ciò che ha perso o che non è più: per questo siamo nella società della post-modernità, della post-democrazia o della post-verità. Oppure, nei rari casi in cui si riesce a osservare il presente con descrizioni positive, si utilizzano metafore tramite cui la società decreta la propria minorità nei confronti di fenomeni che vengono ingigantiti e quindi non compresi: come nel caso del Grande Fratello, delle Big Tech, dei Big Data o del Grande Altro. Attraverso una convergenza tra la prospettiva sistemica luhmanniana e quella post-strutturalista foucaultiana, il contributo riflette sulla relazione tra algoritmi e democrazia, analizzando come nuovi media e platform society consentano delle forme sempre più automatizzate di controllo. Simultaneamente, il contributo tematizza - e invita la riflessione sociologica ad attuare - una conversione epistemologica. DISINTERMEDIAZIONE O NUOVI GATEKEEPER? Antiche e nuove profezie sul capitale sociale Università del Molise, Italia La pandemia non ha intaccato solo i nostri corpi e le nostre menti: ha lasciato un segno profondo anche nelle nostre relazioni, provocando micro-traumi a livello di prassi comunicative, e lasciando intravedere tracce di nuove possibili configurazioni sociali. Il subbuglio intervenuto nelle interazioni quotidiane tra persone, tra sistemi e tra persone e sistemi offre l’opportunità di ipotizzare i possibili sviluppi di alcuni aspetti essenziali delle relazioni sociali (più specificatamente comunicative), su aspetti di alta criticità e incertezza quali l’autorevolezza/credibilità delle fonti informative. Se la politica in periodo pandemico si è nascosta dietro le indicazioni insindacabili della scienza per prendere decisioni impopolari, gli esperti e le istituzioni hanno mostrato il loro lato impietosamente fragile, chiedendo fiducia in nome di autorevolezze disperse, scollegate e conflittuali. La situazione che abbiamo vissuto per diversi mesi, e che sembra così lontana dal nostro attuale quotidiano, può servire a una riflessione che ci porti a rivalutare la validità o il necessario aggiornamento di teorie comunicative “classiche”, spesso accantonate senza adeguata valutazione. La Two-Step Flow of Communication Theory (anche Teoria comunicativa del “piccolo gruppo”), oltre settant’anni fa, affermava (in aperta polemica con la “teoria dominante”) che le informazioni diventano “convincenti” in forza della rete relazionale, cioè dell’ambiente “vitale” del ricevente: lo strapotere informativo della comunicazione di massa deve essere necessariamente “certificato” da intermediari credibili. Qualche decennio dopo, Berger e Luckmann coniano il termine “piccoli mondi della vita”, per definire questi ambienti vitali come cuore generativo del “senso condiviso”, mondi che garantiscono un flusso di creazione di senso non soltanto dall’alto verso il basso, ma anche, (civil society), dal basso verso l’alto. Questi mondi della vita non sono uniformi: tra gli individui che li compongono, alcuni si distinguono, se non come ruolo, certamente come capacità di “influenza”: individui che collegano all’“esterno” le reti comunicative interpersonali. Sono i “guardiani delle porte”, i gatekeeper, i leader. Ci chiediamo se il principio del “piccolo gruppo” continui a conservare oggi la sua funzione di fonte di autorevolezza dentro un contesto di tendenziale disintermediazione dei processi comunicativi: ci chiediamo, in sostanza, se, nell’epoca delle Filter bubble e delle Eco chamber, della mutazione dei gatekeeper in influencer sia possibile riutilizzare, rivedendoli (influence networks, social filtering, collaborative filtering), alcuni principi fondamentali di quelle teorie e, insieme, verificare l’esito di alcune “profezie” sociali dei decenni scorsi in merito al possibile sviluppo di questa situazione. Ci chiediamo, con Anthony Giddens, se la fiducia nei sistemi astratti possa garantire, oltre a una certa affidabilità quotidiana, anche “la reciprocità e l’intimità che offrono le relazioni di fiducia personali”. La recente distinzione tra “legami deboli” (social media) e “legami forti” (soggetti che fanno parte della vita quotidiana e affettiva), pone il problema del futuro del “capitale sociale”, che, fortemente alimentato dalle relazioni faccia a faccia, si trova a gestire la tecnologia ora come supporto ora come rischio. Ci chiediamo, infine, se queste forme di mediazione residue siano destinate a rimanere confinate, come sembra avvenga oggi, a poche funzioni relazionali (quelle cioè riguardanti l’intimità) o possano viceversa indicare nuovi sviluppi anche sul campo propriamente pubblico se non addirittura politico; se quelle forme di ‘vita in comunità’ «sono davvero qualcosa di irrevocabilmente concluso, o se invece sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del “progresso”» (Bauman 2003, ed. 2011: XIX). «Creare (o ricreare) il capitale sociale non è un compito semplice», diceva Putnam, immaginando scenari che oggi potrebbero essere verificati con più cognizione di causa: questa ripresa sarebbe facilitata «da una crisi nazionale palpabile, come la guerra o la depressione o il disastro naturale» (2000: 402). Mappe del post-utopico. Il futuro nella temporalità digitale. Università degli Studi di Bari, Italia È nota la centralità che il futuro ha assunto nella temporalità moderna: la letteratura teorico-sociale è concorde nel saldarne gli assi su un orizzonte prospettico, fatto di utopia, emancipazione e progresso (Koselleck 1985, Berman 1982). Una delle linee di riflessione più rilevanti, non a caso, nella definizione della fase successiva alla modernità insiste proprio sulla perdita di questo primato in favore del presente (Nowotny 1993, Lübbe 2009) e sul “presentismo” come regime di storicità caratterizzante delle società avanzate contemporanee (Hartog 2015). La svalutazione culturale del futuro non coincide però con la sua sparizione: prevedere, anticipare e visualizzare l’avvenire restano poste in gioco fondamentali ed è ancora valida una “sociologia delle aspettative” (Urry 2016) che indaghi il legame tra scelte biografiche e possibili scenari economico-politici. Il paper che proponiamo per il VI Convegno nazionale SISCC ha l’obiettivo di mappare le teorie sociali che hanno contribuito a riportare la questione del futuro nella discussione pubblica ed accademica. Un primo sguardo al dibattito mostra due retoriche contrapposte: da un lato, il futuro come “apocalisse” (Chomsky 2018) in cui la catastrofe è impulso ultimo alla revisione dei comportamenti (si pensi al Doom’s day clock) o causa di sospensione nella “afuturalgia”, il dolore di non avere un futuro (Chabot 2023). Dall’altro, la retorica del “vivere già nel futuro”, animata dagli operatori del progresso tecnologico digitale (Balbi 2022). Vicine a questo polo emergono prospettive teoriche che declinano in modo diverso l’intreccio tra incertezza strutturale, agency e innovazione. Il lungotermismo, ad esempio, riporta all’attenzione la prospettiva di lungo periodo dimenticata dall’acceleration society per proporre un “altruismo efficace” basato sull’aggiornamento della visione utilitarista. Nelle opere di Bostrom (2014) e MacAskill (2022), l’etica mutua l’approccio quantitativo della datificazione algoritmica per massimizzare decisioni politiche e interventi di beneficenza privata in grado di ridurre il rischio di estinzione della specie umana, anche a costo di sottovalutare contraddizioni e sofferenze nel presente. L’approccio sembra caratterizzarsi per il pragmatismo, l’affiancamento consulenziale alla Silicon Valley e per la visione della tecnologia come oggetto neutro dal punto di vista valoriale. L’accelerazionismo, d’altra parte, condivide la fiducia nel potenziale emancipativo del digitale ma ponendosi in postura radicalmente critica rispetto alla governance capitalista. La “piena automazione” (Srnicek, Williams 2015), infatti, è vista come obiettivo per la liberazione del lavoro salariato dallo sfruttamento. Accelerare i processi e anticipare il futuro dovrebbero diventare, dunque, l’imperativo di qualunque movimento post-marxista ansioso di rifondare un nuovo assetto istituzionale fondato sulla tassazione delle corporation e il reddito universale. Accettando l’aumento delle disuguaglianze animate nel presente dall’innovazione come male necessario in nome del cambio di paradigma. Tra l’apocalisse e l’anticipazione, la proposta teorica del futuro come responsabilità (Cavalli, Leccardi, Jedlowski 2023), infine, insiste nella via stretta del conciliare la postura critica con l’attenzione al legame tra azione presente e un futuro aperto. Il radicamento di questa lettura nella temporalità delle biografie, dei corpi e del quotidiano fa da antidoto alla neutralizzazione etica per favorire la richiesta di istituzioni sovranazionali in grado di interpretare il futuro come riconoscimento delle differenze. Per un’ecologia della mediatizzazione: rileggere la media ecology attraverso i concetti di campo e di figurazione. 1Sapienza Università di Roma, Italia; 2Università degli Studi di Ferrara All’interno di un sistema sociale profondamente mediatizzato (Hepp 2020) lo studio e l’interpretazione delle complesse forme di potere e di interazione tra i media, gli individui e i differenti ambienti (sociali, culturali, tecnologici, on e off-line, etc.), in cui si configurano tali dinamiche, rispondono ad una necessità sempre più impellente di capire la società in cui viviamo. A livello macrosociale, la mediatizzazione rappresenta, e contemporaneamente realizza, un processo di trasformazione in cui i media digitali e la comunicazione in generale producono e diventano l’ambiente complessivo (ecosistema) dentro cui confluiscono e coesistono tutti i campi sociali, sempre più condizionati dalla media logic (Altheide, Snow 1979). A livello microsociale, la mediatizzazione influisce sull’agency individuale, trasformando le tecnologie e gli strumenti digitali e comunicativi in una configurazione dinamica di contesti di mediazione attraverso cui pensare, agire e valutare la realtà sociale (Hjarvard 2013). A livello specificatamente mediale, la mediatizzazione sembra indurre, anche nel segno dell’ibridazione tra processi di piattaformizzazione e dinamiche transmediali (Leonzi, Marinelli 2022), alla progressiva affermazione di una condizione, paradossalmente, post-mediale, in base a cui i mezzi di comunicazione appaiono talmente rilevanti per l’ecosistema sociale da non potere essere distinti (né analizzati separatamente) da esso. La mediatizzazione, dunque, trascendendo una concezione meramente strumentale dei media, mette in risalto la nuova centralità degli ambienti (sociali/digitali, on/off line, etc.) in cui individui e società sono immersi. È proprio sulla scorta di tali considerazioni che, per comprenderne e analizzarne la portata complessiva, appare utile il tentativo di recuperare e attualizzare un approccio sistemico allo studio dei processi comunicativi e mediali come quello rappresentato dalla media ecology (Postman 1970; Strate 2004). L'ecologia dei media, infatti, si pone come un prezioso frame concettuale da cui partire per esplorare la complessità dei legami tra media, società e ambiente, ponendo l'accento sull'interdipendenza e sulla co-evoluzione di questi elementi. Tale impostazione permette di considerare i media non solo come tecnologie, device o contenuti, ma anche come componenti di un ambiente comunicativo più ampio, che include gli individui, le pratiche sociali, le istituzioni e i contesti culturali. Attraverso l'ecologia dei media, si può quindi comprendere meglio come i media modellino le percezioni, le relazioni e le azioni degli individui, influenzando i modi in cui le persone interpretano e interagiscono con il loro ambiente. Al tempo stesso, è possibile considerare le implicazioni ecologiche dei media (Colombo 2020, 2022), evidenziando come le pratiche di produzione, distribuzione e consumo mediatico producano effetti sull'ambiente naturale, sociale e tecnologico (Boccia Artieri 2022). In quest’ottica, il paper propone una concettualizzazione dinamica dello spazio mediatico come un habitat in cui la mediatizzazione diventa un principio sistemico che condiziona le pratiche sociali, evidenziando la natura trasformativa dei media e la loro capacità di modellare l’interazione sociale in ogni ambito. In continuità con un precedente lavoro di analisi e interpretazione (Ciofalo, Pedroni 2022), dunque, il contributo presenterà un avanzamento in relazione all’obiettivo di integrare il concetto di ambiente ed ecologia con altre categorie interpretative derivate da Bourdieu (l’ambiente come campo sociale) ed Elias (l’ambiente come figurazione) al fine di sviluppare un approccio ecologico alla mediatizzazione. La combinazione della prospettiva ambientale con quella di campo (Bourdieu 1980, 1992; Lindell 2015) e figurazionale (Elias 1987; Hepp, Hasebrink 2014), in particolare, punta a combinare una lettura sistemica della mediatizzazione, e dei suoi elementi processuali (piattaformizzazione, datificazione, etc.), con un’analisi contestualizzata degli spazi, delle pratiche e dei fenomeni ad essa correlati (blockchain, metaverso, intelligenza artificiale, etc.). |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 4: Spazi urbani e partecipazione civica Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Roberta Paltrinieri |
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Educational commons, giovani e impegno civico in rete. Università di Palermo, Italia In questo contributo si presentano i risultati di un caso di studio incluso nel progetto Horizon 2020 SMOOTH (2021-2024). L'obiettivo principale del progetto è stato quello di esplorare e verificare empiricamente il paradigma emergente degli “educational commons” come sistema alternativo di valori e azione per la promozione del dialogo interculturale e intergenerazionale e la creazione di spazi di cittadinanza attiva (online e offline) che supportino lo sviluppo delle comunità locali. Il nostro caso di studio adotta questo paradigma innestandolo nel campo della media education e dei digital commons. Le nostre domande di ricerca erano le seguenti: Come i giovani sperimentano e costruiscono collettivamente gli educational commons? In che modo la co-creazione di un foto-blog come spazio di lavoro condiviso aiuta i giovani a scoprire e sviluppare una "intenzionalità civica" nella sfera pubblica (digitale)? (d) Quali sono gli effetti dell'applicazione della logica dei commons per affrontare le disuguaglianze e raggiungere l'inclusione sociale dei giovani provenienti da gruppi sociali vulnerabili? Il lavoro sul campo, condotto in un centro di aggregazione giovanile di Agrigento nel periodo febbraio 2022/ottobre 2023, inquadrato in un approccio etnografico e di ricerca-azione, è stato sviluppato esaminando le tre dimensioni della nozione di educational commons (i commoners, le commoning practices e la comunità). I risultati hanno mostrato come i ragazzi abbiano cominciato a sviluppare una buona capacità analitica, critica e riflessiva della loro realtà circostante, hanno tenuto conto dei diversi punti di vista e hanno stabilito una connessione tra immagini, testo e ambiente digitale utile a veicolare il messaggio che volevano trasmettere al pubblico. Hanno inoltre mostrato di aver compreso le potenzialità di impegnarsi attivamente per il raggiungimento di un obiettivo comune, per denunciare attraverso il photo-blog qualcosa che non funziona nel loro contesto di vita e per sensibilizzare rispetto a determinate tematiche. Hanno infine cominciato a sviluppare la consapevolezza che la loro piccola azione sul blog può avere un valore civico e di cittadinanza (digitale). Molto positivi i progressi tecnico realizzati dal gruppo lungo il percorso, ma anche la progressiva acquisizione di competenze espressive e comunicative rilevabili nel modo in cui traducevano un’idea in messaggi visuali, capaci di racchiudere elementi soggettivi ed oggettivi allo stesso tempo. Bologna e le sue cittadine: data feminism per costruire un’agenda politica delle donne. Università di Bologna, Italia Nell’ultimo decennio si sono consolidati studi e ricerche (Borghi, Rondinone, 2009; Seager, 2018; Perez 2019; Belingardi, Castelli, Olcuire, 2019) che hanno evidenziato come storicamente gli spazi della città e la partecipazione alla vita pubblica sono stati il centro di relazioni di potere ineguali, strutture sociali e politiche oppressive e pratiche discriminatorie. Nonostante alcuni progressi, le donne, le persone disabili, razzializzate, le minoranze sessuali e di genere sono ancora marginalizzate ed escluse dai processi decisionali e politici. Questo modello sembra essere universale e trasversale e può essere applicato a molte aree metropolitane italiane. Perfino a Bologna, che si definisce progressista, non è semplice trovare dati e studi capaci di descrivere le disuguaglianze di genere che si realizzano nelle politiche pubbliche e di supportare politiche data-driven concrete per ridurne gli impatti. Nel tentativo di colmare questa lacuna, la ricerca qui presentata intende realizzare un approfondimento sul ruolo dei dati di genere nel garantire una rappresentazione e un coinvolgimento delle donne nella definizione di una agenda politica per la città, per una maggiore possibilità di accedere a processi decisionali e di potere. L’obiettivo della ricerca è avviare una riflessione su come i dati disaggregati per genere possano rappresentare un arricchimento per costruire una cittadinanza piena ed agita, basata sul contributo diretto delle cittadine, sugli open data e sull’approccio del femminismo dei dati (D’Ignazio, Klein, 2020). Applicando l’approccio femminista ai dati quantitativi e qualitativi raccolti attraverso un’indagine svolta nell’autunno del 2020, la ricerca vuole esplorare gli immaginari presenti e futuri delle donne in merito a questioni che attengono la loro partecipazione sia alla sfera pubblica che al processo di policy making. Le dimensioni investigate nella ricerca sono due: lo spazio della vita privata e quello della vita pubblica. La prima, presenta un focus specifico su come la pandemia abbia avuto un impatto sulle attività di cura, sulla gestione del carico lavorativo e del tempo libero. La survey è stata costruita in modo da dare rilevanza all’incidenza del lavoro riproduttivo nella vita quotidiana ma liberandosi di alcuni stereotipi legati alla dicotomia “lavoro produttivo vs lavoro di cura” come uniche attività significative per le donne. La seconda dimensione si concentra su come le donne percepiscono la loro rappresentazione della cittadinanza, sulla possibilità di attraversare gli spazi sia materiali che simbolici della città, sui desideri e sui bisogni che devono trovare spazio nella esperienza urbana collettiva. I dati raccolti intendono tratteggiare le priorità di azione irrinunciabili e urgenti da intraprendere per trasformare Bologna in uno spazio di vita più inclusivo, più giusto, più accogliente eliminando le numerose discriminazioni di genere, con uno sguardo all’emergenza pandemica, ma soprattutto al futuro. Alcune delle tendenze emerse sono legate ad un’alta attenzione alla questione ambientale e climatica, alla richiesta di spazi all'aperto, verdi e gratuiti per praticare sport e altre attività sociali all'aperto; si propongono interventi negli spazi urbani percepiti come insicuri orientati a una trasformazione dei luoghi (migliore illuminazione stradale o vivacizzazione dell'area) piuttosto che a risposte securitari. L’esigenza emersa di una maggiore e più rilevante “partecipazione alla vita pubblica” avvalora la necessità di creare spazi di potere per le donne e per le minoranze di genere entro i luoghi preposti alle decisioni sul bene pubblico, immaginando metodologie, pratiche e percorsi decisionali costruiti ampliando il punto di vista e la prospettiva “a misura d’uomo” finora applicata. DEMOCRAZIA CULTURALE E SOCIETÀ: ANALISI DI DUE PRODUZIONI “PERIFERICHE” Unibo, Italia A partire dagli esempi di produzione bottom-up di Wikifavela e del Museu da Maré, due iniziative brasiliane, si riflette sui concetti di “cultura democratica” e di “democratizzazione della cultura” come praxis di comunità periferiche che sono divenute pratiche istituzionali, sfuggendo all’informalità per occupare il dovuto spazio nelle politiche culturali. La questione al centro è lo sviluppo di politiche culturali basate su un modello epistemicamente diverso da quello Occidentale, un modello autogestito di democrazia culturale di cui lo Stato è sempre interlocutore essenziale, ma non necessariamente promotore né soggetto egemonico. Gli abitanti delle comunità periferiche si sono ritrovati per molti anni senza voce, oggetto di discorsività produttrici di rappresentazioni negative o, quando molto, paternaliste. La piattaforma Wikifavelas - Dizionario delle Favelas di Marielle Franco è una piattaforma virtuale ad accesso aperto che produce e raccoglie informazioni e memorie sulle favelas e le periferie. Il dizionario si caratterizza come una piattaforma collaborativa, curata dai soggetti informativi e dai gestori del dominio, inaugurata nel 2019 con l'obiettivo di essere uno spazio per raccogliere la conoscenza e costruire il sapere sull'esperienza di coloro che vivono quotidianamente nelle favelas e per costituirne le memorie nell’ambito della città di Rio de Janeiro. Il Museu da Maré, localizzato in un complesso di 16 favelas occupato da più di 160.000 persone, è stato inaugurato nel maggio 2006, con la partecipazione di autorità legate alla politica culturale brasiliana, tra cui l’allora Ministro della Cultura Gilberto Gil. Wikifavela e Museu da Maré vengono intesi come “laboratori sociali” che possono essere definiti come una rete di persone, iniziative e infrastrutture, articolata per la produzione di beni comuni in un determinato territorio. Una rete di arte e scienza che permette di sviluppare un progetto strategico in cui i cittadini si uniscono per generare conoscenze utili, formattando un nuovo processo sociale di persuasione che rende l'innovazione bottom-up un discorso altrettanto potente di quello offerto alla società dai laboratori privati, pubblici o universitari. Il paper vuole approfondire aspetti come la costruzione della memoria collettiva della comunità da una prospettiva in grado di identificare i fattori sociali e culturali che ne influenzano la pratica, cioè da una prospettiva sociologica. All street arts lead to Rome: comunicazione ibrida, partecipazione e pratiche creative nei quartieri della Città Eterna Sapienza Università di Roma, Italia Il paper si propone di riflettere su come l’immaginario della città di Roma sia in grado di configurarsi come specchio e al tempo stesso come attivatore di un legame implicito eppure forte tra periferie e centro. Il lavoro presenta i risultati di una ricerca finalizzata allo studio della street art come strumento in grado di sfruttare e risemantizzare i luoghi delle periferie. A tale scopo, la dimensione della media ecology (Ciofalo, Pedroni 2022) appare essere in grado di restituire la complessità del fenomeno; in questa prospettiva, per le finalità della ricerca, viene applicato un approccio transmediale (Leonzi 2022), che consente di riflettere su un processo di worldbuilding condiviso, coerente e partecipativo. La nostra indagine, quindi, si propone di analizzare alcune opere di street art, significative per la collocazione, e la loro rappresentazione in chiave tecnologica e culturale e come connettore di pratiche mediali urbane (Tosini, Ridell 2016). L’analisi si focalizza su alcuni specifici quartieri di Roma, caratterizzate da una trama culturale, comunicativa e simbolica particolarmente ricca. Quartieri periferici o semiperiferici dove si intensificano movimenti contrapposti tra gentrificazione indotta e resistenza dal basso, attivata da pratiche creative e partecipative (Cellamare 2019; Marinelli, Parisi 2019; Ciampi 2022). A partire da queste considerazioni sono state formulate due ipotesi di ricerca, la prima si fonda sul presupposto che la street art costituisca la rappresentazione di un immaginario in grado di andare oltre il semplice significato della singola opera, generando un racconto condiviso del e nel quartiere, anche attraverso le narrazioni espanse sulle piattaforme digitali. La seconda ipotesi si basa sul significato sociale e culturale assunto dalla street art, nella prospettiva di un processo di cooperazione interpretativa (Eco 1979) che si stabilisce tra creatori e fruitori, prevalentemente inclusiva nelle periferie e oppositiva nel centro cittadino. Ai fini dell’indagine sono state analizzate le relazioni tra street art, fruitori (cittadino utente) e dimensione dello spazio pubblico. La ricerca è fondata su un approccio etnografico, anche digitale (Pink et al. 2016), e si compone di due fasi. Nella prima sono state analizzate le opere scelte in un’ottica transmediale, nello spazio fisico (street art) e in quello mediatizzato (rappresentazioni su piattaforme digitali), con l’obiettivo di indagare la presenza delle figure archetipali dell’immaginario di Roma. Una seconda fase ha previsto una serie di interviste a osservatori privilegiati, selezionati tra street artist, attivisti, rappresentanti delle associazioni e digital content creator, volte a indagare le pratiche creative, comunicative e sociali attivate. Le prime evidenze fanno emergere la capacità della street art di costituire un’interfaccia dell’immaginario di Roma nel tessuto urbano. Infatti, La fruizione dal basso di percorsi di visione delle opere, anche tramite le piattaforme web, riesce a creare connessioni tra quartiere e città attraverso la condivisione di immagini e figure simboliche attinenti alla storia dei luoghi. Dall’indagine è stato possibile osservare un rapporto problematico, a tratti conflittuale, tra le opere della street art e i residenti sulla base di una possibile gentrificazione indotta, nel caso in cui si trattasse di opere commissionate dall’alto. D’altra parte, si è potuto rilevare che quando la street art è fondata sull’immaginario del quartiere, contribuendo al racconto della sua identità, è in grado di attivare pratiche sociali e partecipative e di co-narrare la storia del quartiere. Città e piattaforme digitali: economie, culture, estetiche. Uno studio su tre quartieri romani Sapienza Università di Roma, Italia Studiare la città vuol dire osservare un ecosistema complesso, innervato in modo più significativo oggi che in passato da infrastrutture tecnologiche e mediali che determinano un modo nuovo di abitarne lo spazio. L’osservazione dell’interplay tra dinamiche urbane e piattaforme digitali – anch’esse ambienti abitati da un numero crescente di popolazione globale – rappresenta l’occasione per esercitare una capacità di comprensione sociologica orientata alla conoscenza e analisi critica del nostro habitat, evidenziando, nel caso specifico, una tensione tra la comunicazione e il consumo dei luoghi in quanto motore delle economie locali e, al contempo, fattore in grado di produrre e riprodurre squilibri, asimmetrie, nuove spatial injustice. A partire da queste premesse, il contributo propone una osservazione delle trasformazioni socioeconomiche e culturali urbane contemporanee nel punto in cui esse incontrano gli interessi e le logiche di attori intrinsecamente politici come le piattaforme digitali (van Doorn 2020). In questo quadro, le piattaforme esercitano un doppio ruolo: consentono la rappresentazione e circolazione di contenuti relativi ai luoghi, modellandole sulla base di affordance e specifici vernacoli (Gibbs et al. 2015) – su tutte, Instagram (cfr. Manovich 2017; Boy, Uitermark 2023); forniscono la possibilità di “mettere in vendita” città, quartieri, alloggi, ristoranti e, con essi, le culture locali che ne incrementano il valore (Stors, N., Baltes, S. 2018). La riflessione attinge da ricerche precedenti ed altre in corso dell’autrice (Author 2018; Author et al. 2019; Author 2022), e si concentra su alcune dimensioni in cui il «nuovo desiderio di urbanità» (Annunziata 2008) produce i suoi effetti: - modificazioni nella consistenza e qualità dei flussi umani che attraversano e abitano lo spazio delle città (turisti, residenti, city users, pendolari, abitanti per brevi periodi, ecc.); - evoluzione delle dinamiche di gentrification sotto la spinta dei processi di turistificazione (Sequera, Nofre 2018), foodification (Loda et al. 2020), studentification (Smith 2005), ecc.; - estrazione di valore dalle culture e del patrimonio immateriale dei luoghi; - modellamento dell’esperienza e del consumo dei luoghi sulle pratiche legate alle piattaforme digitali, con particolare riferimento a una mediazione che anticipa (scelta della meta, prenotazione dell’alloggio e di altri servizi), accompagna (selezione, anche sostenuta da logiche algoritmiche, dei luoghi e dei punti di interesse) e segue (es. recensioni, pubblicazione di racconti e immagini via social media) la presenza degli individui nei luoghi di interesse. Il perimetro spaziale dell’analisi proposta coincide con tre quartieri romani – Pigneto, San Lorenzo, Esquilino – relativamente decentrati rispetto all’impatto dei flussi turistici della capitale, che tuttavia hanno conosciuto negli ultimi decenni un progresso di significativa trasformazione della propria identità – anche narrata – e, con essa, della composizione sociale e delle economie locali (Ocejo 2017), in particolare a causa dell’attrazione che essi esercitano su specifici gruppi di visitatori e utenti. A differenza dei luoghi di interesse turistico consolidato, queste aree urbane non ospitano siti artistici iconici; piuttosto, addensano significati ed estetiche che rispondono a criteri di desiderabilità sociale (come nel caso del new urban tourism; cfr. Roche 1992; Füller, Michel 2014, Ba et al. 2021). Ad orientare le preferenze verso queste porzioni di città sono l’autenticità, comunicata, percepita e ricercata, anche in funzione della costruzione e rinforzo di identità (Henke 2013); la possibilità di esperire i luoghi secondo le abitudini dei locali, rispetto ai centri storici interessati dai fenomeni di overtourism (Celata, Romano 2022) anonimo e distratto; la ricerca di vivacità culturale e di un atteggiamento tollerante e vagamente progressista; un immaginario che tiene insieme memoria storica, creatività, “coolness”, enogastronomia, arte e più in generale lifestyle (Currid-Halkett 2017), in una sensibile ridefinizione dell’idea di consumo dei luoghi che risulta non meno ambigua delle tradizionali forme di consumo turistico di massa e non meno carica di conseguenze per la vita dei quartieri in questione. |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 5: Media education Luogo, sala: Aula Multimediale Chair di sessione: Maddalena Colombo |
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Il doppio volto della digitalizzazione: le tecnologie digitali nel contrasto alla povertà educativa, un caso studio il Punto luce di Casal di Principe. Federico II di Napoli, Italia Questo contributo si colloca all'interno della spinosa questione delle tecnologie digitali nella lotta alla povertà educativa (Ball, S. J., & Grimaldi, E. 2022) e all'interno della controversia che ancora attraversa il dibattito delle scienze sociali sulle nuove tecnologie (Arvidsson, A, Delfanti, A 2016) animato in Italia dall'opera seminale di Umberto Eco (Eco, 1997). Il lavoro problematizza il doppio volto della digitalizzazione, le tecnologie digitali rappresentano un'enorme opportunità (Aroldi, P. 2013) ma anche una causa di esclusione sociale (Bentivenga, R 2022). In una società sempre più digitalizzata (Srnicek, N.2016), a preoccupare è il digital divide non tanto per la sfera materiale, quanto per la mancanza di competenze adeguate e l'uso non sicuro delle tecnologie. Inoltre, la pandemia Covid-19 ha evidenziato la mancanza di opportunità educative legate alle difficoltà dell'apprendimento a distanza, che ha ampliato le disuguaglianze aggravando il livello di esclusione sociale e di povertà (Nussbaum, 2001). Questo contributo tenta di mettere in luce l'altro volto della digitalizzazione, concepita come una miniera di opportunità per tutti, in grado di contrastare la povertà educativa e portare a una migliore qualità della vita (Brown, 1996). Il Lavoro analizza l'efficacia delle strategie messe in atto dal servizio educativo il “Punto luce di Casal di Principe” che è stato attivato da Save the Children nella campagna “Illuminiamo il Futuro”, una strategia di contrasto alla povertà educativa mirata a spezzare il circolo vizioso della disuguaglianza. Tra le varie attività, L’ONG ha ideato il progetto USB, che ha l'obiettivo di supportare i beneficiari nello sviluppo di competenze digitali e umane attraverso laboratori pratici che li avvicinino al mondo delle STEM e promuovano un uso consapevole e positivo dei nuovi media. L’impianto metodologico adotta la “teoria del cambiamento” (Lumino, 2013), orientata a monitorare longitudinalmente il campione di beneficiari, analizza la situazione di partenza dei minori, la condizione di marginalità e precarietà, per poi controllare le eventuali evoluzioni dei parametri di osservazione in diverse fasi di implementazione del servizio. Per la selezione delle unità statistiche di rilevazione è stato adottato un campione rappresentativo, un campione (per quote) omogenee per genere ed età in un range dai 6 ai 17 anni, facendo attenzione ad includere anche beneficiari che, oltre a vivere in una condizione di precarietà diffusa, presentano anche altri elementi di esclusione sociale (disabilità, background migratorio, appartenenza ad un nucleo familiare multiproblematico). L’indagine è stata condotta nel seguente modo: Analisi banca dati: (Istat), rapporto Svimez, INPS. l’IPE, l’analisi del contesto e sono state condotte parallelamente due metodologie di indagine per osservare le variazioni sia dei parametri più facilmente misurabili, sia di quelli più articolati e più difficilmente operativizzabili ed osservabili. In sintesi: è stato somministrato questionario al campione rappresentativo dei beneficiari/e in tre diversi momenti di osservazione e nello stesso arco temporale sono state condotte interviste semi-strutturate agli operatori e alle operatrici dei servizi. (Corbetta,1999). Le tecniche scalari adottate nella formulazione delle opzioni di risposta alle domande sono, le scale di Lickert e le scale auto-ancoranti. L'analisi si è concentrata sugli effetti di costruzione delle competenze umane e digitali promossi dall'uso creativo delle tecnologie digitali, dal gioco educativo e dall'apprendimento esperienziale. Nello specifico i risultati rilevati nel rapporto analitico di ricerca hanno documentato i processi di cambiamento sul campione di beneficiari. Il progetto USB e le attività laboratoriali svolte all’interno del servizio hanno aiutato a sviluppare l’auto- consapevolezza dei beneficiari a rafforzare l’autocoscienza positiva, l’ espressione di sé e la consapevolezza emotiva. I beneficiari hanno dovuto imparare a gestirsi, per lavorare in gruppo e relazionarsi con la società. Le attività di gruppo si sono basate sul rafforzamento dell’empatia, della connessione umana, nel rispetto delle diversità, e nell’ inclusione. P.O.V. @School. Lo sguardo degli adolescenti sui rischi e le opportunità dell’informazione online Università di Firenze, Italia L'acronimo P.O.V. Point of View, utilizzato dai giovani nei video social per identificare il punto di vista dal quale raccontano una storia, ci offre l'ispirazione per indagare il rapporto tra giovani e informazione online, e i rischi e le opportunità educative legate a un’integrazione delle pratiche produttive digitali all’interno delle aule scolastiche. La dimensione online (Floridi, 2018) e il rapporto di continuità tra fisico e digitale, il phygital (Andreula, 2020), caratterizza i processi comunicativi e informativi della Generazione Z - gli iperconnessi (Twenge, 2018) o Digitarian (Apuzzo, 2015) - in modo ancor più significativo dopo la pandemia (Ferrazzoli, Maga 2021). Oltre al riproporsi del dibattito generazionale in cui pesa il differente approccio nell’utilizzo della Rete dei Millennials e della Generazione X rispetto alla GenZ, è interessante analizzare il livello di consapevolezza della GenZ sul proprio universo informativo, sui processi comunicativi e informativi che governano la propria socializzazione e sulle problematiche collegate alle caratteristiche della platform society (Van Dijck, Poell, De Waal 2019). Sullo sfondo della cornice teorica dell’ecologia dei media che, da suoi esordi a oggi, si propone di studiare l’influenza dell’ambiente informativo sulle percezioni delle persone (Postman, 1995, Colombo 2020) e propone, congiuntamente agli approcci di media education (Buckingham, 2019) e media literacy (Livingstone 2016, 2019), l’idea dei media come ambienti educativi (Tirocchi 2023) e della scuola come “termoregolatore” delle esperienze mediali dei giovani, esaminiamo i risultati di 2 progetti di digital media literacy (uno su disordine informativo e fake news e l’altro sull’approccio critico e creativo all’utilizzo del digitale) svolti nelle scuole di Firenze. La ricerca Nel quadriennio 2020-24, 2 progetti hanno coinvolto 60 classi di 12 scuole secondarie di 2 grado, in un percorso di acquisizione di competenze digitali e comunicative strutturato in 3 fasi con l’obiettivo di realizzare elaborati multimediali e pillole video per raccontare il rapporto tra giovani, media e digitale (Bisacca, Cerulo 2019). Le domande di ricerca La domanda di ricerca generale è: 1) se gli adolescenti reputino i media ambienti informativi e educativi. Altre domande ad essa collegate sono: 2) se i giovani attivano punti di vista selettivi nei confronti dei rischi o delle opportunità del digitale che scuola, famiglia, gruppo dei pari portano alla loro attenzione o, viceversa, strutturino una visione condivisa tra pari, una percezione “generazionale” del rapporto con il digitale. Metodologia Il nostro contributo analizza il contenuto dei 250 video realizzati da un campione di 700 adolescenti dai 14 ai 18 anni, per studiare il loro universo informativo e il loro atteggiamento verso il disordine informativo, gli abusi e le opportunità di guadagno in rete. Lo studio è condotto con metodologia quali-quantitativa e ha seguito le fasi di evoluzione del progetto: -fase ex ante, somministrazione di un questionario ai partecipanti; -la fase in itinere: raccolta di note di osservazioni partecipata durante le attività del progetto; -la fase ex post: analisi del contenuto dei video realizzati dagli studenti. I 4 anni di ricerca ci offrono la possibilità di osservare cambiamenti nel tempo, a partire dall’accelerazione digitale operata dalla pandemia, fino ad oggi, quando il tema dell’intelligenza artificiale si è posto al centro delle riflessioni di alcuni studenti. La lettura trasversale e comparata dei dati operata nella ricerca, ci mostra 2 macro-tendenze: da una parte gli adolescenti rivelano punti di vista netti sulle loro fonti, dall’altra difficilmente riescono ad attivare una visione d'insieme sui processi che governano la costruzione del proprio universo conoscitivo e informativo. I risultati ci forniscono, inoltre, numerose informazioni circa le pratiche quotidiane di informazione e comunicazione online, in relazione alle differenze dei contesti sociali e scolastici di appartenenza che configurano specifici processi soggettivizzazione e, talvolta, di resistenza. Identità e reputazione nell’era delle Platform societies. Strumenti e strategie per la Media Education 1Università Niccolò Cusano, Italia; 2Università di Teramo, Italia Di recente l’interesse delle scienze sociali, inizialmente centrato sulla reputazione (Mutti 2007) come categoria interpretativa spendibile nell’ambito economico e del marketing, si è spostato progressivamente verso i processi di costruzione dell’identità digitale, mediante la gestione della privacy e delle relazioni online, tanto da alimentare lo spazio della discussione nella cornice teorica della digital risk society (Loon 2002, 2014; Lupton 2016) e della Platform society (van Dijck 2005, 2013), dove si mette in luce come le variabili tecnologiche, culturali e sociali interferiscono, direttamente e indirettamente, sui processi di autorealizzazione del sé, inteso come bene relazionale, a sua volta associato al capitale sociale. In questo, giocano un ruolo di primo piano i dispositivi digitali che, attraverso la digitalizzazione dei segnali analogici, si impongono come nuova dotazione strumentale in grado di coadiuvare i soggetti nella diffusione dei contenuti, con possibili ripercussioni, positive o negative, sull’immagine e sull’opinione che gli altri si fanno di loro (Donatiello 2015). Attraverso lo storytelling (Camozzi 2008; Pizzorno 2007), viene a delinearsi il profilo reputazionale di una persona, di un servizio, di un evento, di un prodotto e di un brand, ovvero il credito sociale e la considerazione che si ha degli interessati, in seguito alle attività di raccolta e monitoraggio dei contenuti pubblicati e diffusi tramite il web, volutamente o a insaputa dei soggetti coinvolti (Cavazza 2012). Le ricerche che indagano il tema in relazione ai comportamenti delle nuove generazioni (Baroni, Greco, Lazzari 2019; Lazzari 2016a, 2016b) vanno in questa direzione, sia in riferimento ai processi di costruzione della popolarità e del personal branding (Polesana, Vagni 2021), sia al disagio psicologico e sociale causato dai fenomeni di cyberbullismo, del sexting e del revenge porn, con particolare riferimento ai casi di flaming, harrasment, denigration, impersonation, outing e trickery, di cui spesso sono vittime soprattutto i soggetti esposti al rischio di marginalizzazione digitale. C’è da considerare, su questo, che, con ogni nuova tecnologia dominante, si riorganizza pure il sistema di potere interno alla società: la disintermediazione del web, la sua struttura reticolare tradotta in viralità, come il libero accesso, non solo rendono possibile la fama globale attraverso l’autopromozione, ma anche la possibilità di gettare discredito a livello planetario, condensando attacchi, malcontento, lamentele, e aumentando o causando danni enormi alla reputazione di un individuo, con esiti a volte drammatici (Conte, Paolucci 2002). Sulla base di tali premesse, il paper intende rispondere ad alcuni obiettivi in particolare, ossia se esiste una consapevolezza della reputazione digitale e quali caratteristiche nuove presenta rispetto a quella tradizionale. Il contributo, inoltre, vuole ampliare l’analisi degli impatti delle nuove tecnologie sulla costruzione sociale dell’identità, con un’enfasi sui risultati emersi dal confronto multidisciplinare avuto con 24 esperti, tra studiosi e professionisti, sulla società reputazionale nell’era digitale: focus del percorso l’individuazione delle strategie di resilienza digitale che individui e comunità possono adottare nel complesso intreccio della reputazione online, nell’epoca delle interconnessioni, dove difficilmente si distingue tra online e offline. Le declinazioni dello stesso concetto nei diversi ambiti dovrebbero fare emergere l’importanza di un approccio che tenga conto delle sfide etiche e sociali emergenti, nel tentativo di riflettere su come le pratiche digitali influenzano la percezione del sé e degli altri in uno spazio che, seppure attraverso aspetti di continuità con l’universo antecedente al web, mostra caratteristiche inedite, spesso all’origine di attacchi e fallimenti autogenerati, che sottopongono sempre più gli individui ai rischi di una sovraesposizione dell’identità, in modo esteso, con riferimento sia al pubblico sia a un arco temporale potenzialmente illimitato. Le distorsioni comunicative e il cambiamento del contesto formativo nella comunicazione multimediale Università degli Studi di Bari, Italia Questo intervento si concentra su alcuni aspetti delle pratiche socio-educative contemporanee analizzando in particolare i processi di adattamento degli insegnanti, o attori formativi (Ribolzi L., 2020), ai cambiamenti della loro relazione educativa e alla risignificazione della loro figura nell’attuale contesto digitalizzato, che è in continua evoluzione. Il lavoro viene esaminato attraverso l'ottica interazionista-simbolica, con particolare attenzione alle teorie fenomenologiche di Alfred Schütz, George Herbert Mead, Herbert Blumer, Edmund Husserl e all'approccio etno-metodologico di Harold Garfinkel (Besozzi E., 2017). Concentrandosi sulle relazioni interpersonali e interattive che caratterizzano l'azione formativa e prendendo in considerazione l'impatto dei media digitali e della comunicazione mediata all’interno dello scenario dei saperi, il paper individua alcuni processi di distorsione, di difficoltà di lettura delle posizioni in campo e di assottigliamento degli spazi di confronto nella trasmissione delle informazioni di sapere in una realtà educativa che si manifesta come strutturalmente tecnologica e multimediale. La sfida del digitale (Morin E., 2020) mostra delle criticità, dei deficit, delle mancanze e discontinuità relativi alla decisa accelerazione dell’innovazione, che è stata particolarmente evidente nella situazione emergenziale pandemica (Balbi G., 2022). Le tecnologie digitali sembrerebbero allora, allo stesso tempo, supportare e scontrarsi con il contesto formativo. La metodologia di ricerca si avvale dell'osservazione partecipata ed etno-metodologica (Cardano 2023) e si sviluppa sulla base di un materiale empirico ottenuto tramite interazioni, focus group e raccolta dei dati, al fine di rilevare le distorsioni comunicative e relazionali nel sistema formativo attuale. Nello specifico, si farà riferimento alle pratiche socio-educative e alla trasformazione dei saperi a partire dall'esperienza di alcuni docenti di scuola primaria e secondaria all'interno di un corso di formazione universitario loro dedicato , aprendo così alcuni scenari di riflessione su una nuova declinazione del senso della formazione, rivoluzionata dal fenomeno della didattica a distanza (DAD) o ibrida (DID), con la conseguente predisposizione ad abbracciare nuove tecniche di insegnamento. L’obiettivo è quello di osservare e problematizzare, in prospettiva sociologica, i fenomeni legati al cambiamento della percezione dello spazio e del tempo nella relazione educativo-formativa (De Mita G., Modugno A., d’Elia G., Guaragno S., Valenti S., 2023). In quale misura il contesto spazio-temporale all'interno dell'ambito educativo e formativo può essere depauperato dall'assenza dell'esperienza personale e comunitaria della relazione e della corporeità (Merleau Ponty M., 2014)? Come possiamo ridefinire la relazione educativa in un contesto simile? Quali sono le conseguenze di questa trasformazione sociale in termini di virtualizzazione e ribaltamento della spazio-temporalità? Il paper propone alcune linee di previsione dell’evoluzione dei processi formativi e delle conseguenti sfide che i docenti si trovano ad affrontare nel contesto attuale, allo scopo di ridefinire, anche con l’ausilio di strumenti pratici e metodologie innovativo-digitali (Caliandro A., Gandini A., 2019), l'azione formativa e creare un piano educativo personalizzato che tenga conto dei cambiamenti in atto. In conclusione, il paper offre una prospettiva critica e riflessiva sulle trasformazioni del sistema educativo alla luce della contaminazione digitale, proponendo alcune strategie centrate soprattutto sulla dimensione spazio-temporale. Strategie di New Media Education: una ricerca-azione tra Burundi e Ruanda Pontificia Università Gregoriana (Roma), Italia Obiettivo dell'indagine Sensibilizzare i docenti delle scuole post-fondamentali burundesi/ruandesi affinché comprendano ed esperiscano (attraverso l'attivazione di specifici corsi e laboratori) il ruolo strategico dei nuovi mezzi di comunicazione nei processi educativi. Domande di ricerca Nonostante i due paesi abbiano caratteristiche simili (demografiche, territoriali, economiche), perché il Burundi – dove Internet è presente solo nel 19% delle scuole di Gitega – fatica a riconoscere l’importanza dei nuovi media quali efficaci strumenti di insegnamento, mentre in Ruanda (dove tutte le scuole di Kigali hanno sia computer sia connessione alla rete) tale consapevolezza è molto più diffusa? Quali sono le strategie pratiche da adottare per far sì che le cose cambino da un lato e vengano ulteriormente implementate dall’altro?
Itinerario metodologico (approccio misto, indagine quanto-qualitativa):
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10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 6: Sfera pubblica in mutamento Luogo, sala: Aula VI Chair di sessione: Michele Sorice |
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Contentious Politics in pandemic times. Il caso italiano durante il primo anno di emergenza pandemica. Luiss Guido Carli, Italia In seguito alla dichiarazione di emergenza pandemica da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del marzo 2020 abbiamo assistito ad un evento critico di portata globale. I governi di tutto il mondo, nel tentativo di gestire un’emergenza sanitaria senza precedenti nella storia recente, hanno adottato misure di forte limitazione delle libertà individuali. Limitazioni dell’accesso fisico allo spazio pubblico e all’espatrio, lockdown, quarantene e divieti della vita associata al di fuori del nucleo familiare sono state esperienze collettive che hanno contraddistinto la vita di centinaia di milioni di persone. Viste le limitazioni senza precedenti all’accesso fisico allo spazio pubblico e i numerosi divieti di assembramento, ci si sarebbe potuti aspettare un momento di stasi delle pratiche riconducibili alla dimensione della cosiddetta Contentious Politics. Al contrario, stando ai primi studi pubblicati (Della Porta, 2022), si è trattato di un periodo estremamente denso di contestazioni, proteste e rivendicazioni. Una tensione generale, talvolta accompagnata da una sfiducia nelle istituzioni sanitarie, che si è contraddistinta per il ricorso a pratiche alternative, soprattutto sotto il profilo della comunicazione e della presenza all’interno degli ecosistemi comunicativi digitali. Questo articolo presenta e analizza le pratiche di contestazione contro le misure di emergenza adottate dalle autorità italiane in risposta ai picchi di contagio nel primo anno dell'emergenza pandemica, il 2020. Considerate le misure restrittive di accesso fisico allo spazio pubblico che hanno caratterizzato il periodo in esame, particolare attenzione è dedicata all'analisi delle tattiche e delle strategie comunicative di protesta analizzate attraverso attraverso la lente di alcuni dei principali quotidiani nazionali e all'interno degli ecosistemi comunicativi digitali. Understanding Exposure to and Engagement with Political News on Facebook During the 2018 and 2022 Italian Elections 1Università di Urbino Carlo Bo, Italia; 2IT University of Copenhagen The advent of social media, notably platforms like Facebook, has transformed the consumption of news, marked by the spread of misinformation and polarizing content, especially after the 2016 US elections. This shift has led to the adoption of computational methods, such as machine learning, to analyze political narratives on social media. This research delves into these dynamics within the Italian political media landscape, focusing on the interaction between exposure to and engagement with political news stories on Facebook before the two latest Italian general elections. The study addresses significant challenges: the scarce availability of exposure data from social media platforms for external research and the difficulties in aggregating news stories on specific topics, particularly in non-English contexts. Utilizing data from Meta and employing Large Language Models (LLMs), this research unveils new possibilities of social media data, showing how LLMs can facilitate the analysis of online political discourse. To overcome the limitations of traditional human-coder approaches for large datasets, computational topic modeling techniques have become essential alternatives for content analysis. The effectiveness of transformer models like BERT and RoBERTa in detecting topics, emotions, and identifying clickbait headlines is well documented. Yet, these models, primarily trained in English, face challenges with low-resource languages like Italian. Scholars have turned to language-specific, fine-tuned models, such as AlBERTo for Italian social media. These models, however, are hard to maintain and often need additional tuning for reliable results in specific domains. Recent benchmarks have shown that LLM-based text embedding outperforms BERT in standardized tasks. The research methodology adopted a comprehensive approach using LLMs to explore political discourse dynamics during the 2018 and 2022 Italian elections on Facebook. The process started with identifying political links by fine-tuning OpenAI's Ada model with a dataset of URLs shared on Facebook during the election periods. A team of Italian scholars manually classified a sample of these URLs into political and non-political categories, creating a highly accurate binary classifier. The study then used the OpenAI embeddings API to acquire text-embedding-3-large for all identified political URLs, followed by a k-means cluster analysis to group the URLs. This step involved testing various embeddings and optimizing the cluster numbers for effective analysis. The clusters were automatically labeled using the GPT-4 model, with human coders evaluating the label quality. Meta's URL Shares Dataset was instrumental in analyzing public engagement with political narratives, showing high views on topics like vaccination, immigration, and the education system during the election periods. This dataset enabled the quantification of narrative engagement, revealing the size, reach, and interaction patterns over time and among different user cohorts. The interaction analysis shed light on how the spread of narratives and stories related to specific events was influenced by user activity. The study highlights AI and LLMs' transformative potential in media studies, serving as a foundation for future research. It emphasizes the need for a collaborative approach, where media scholars, data scientists, and AI experts work together to understand these technologies' complexities. The findings have significant implications for academia, media practices, and policy-making, addressing challenges like ensuring the representativeness of the Ada model for political link identification, determining the optimal cluster number, ensuring content labeling accuracy, and addressing Meta's privacy-preserving techniques in the URL Shares Dataset. Le affordances del potere. TikTok e la piattaformizzazione della sfera pubblica. University of Urbino, Italia La concezione dello stato moderno si basa sull'esistenza di una sfera pubblica in cui i cittadini si informano e dibattono dei problemi in uno spazio autonomo di comunicazione e mediazione tra lo stato e la società civile (Habermas, 1991). Seppur considerando le critiche alla teoria habermasiana, vale la pena considerare come questa rimanga una prospettiva interessante da cui partire per riflettere sul problema democratico nella contemporaneità (Calhoun, 1992). Benché la letteratura si sia concentrata nell’affermare come il processo di cittadinanza sopravviva solo in un regime di comunicazione libera e di possibilità d’accesso e di scelta tra informazioni diverse, il ruolo pervasivo dei media digitali sembra averne cambiato i connotati. Il cittadino è oggi costantemente informato, pluralmente ed immediatamente cosciente di fatti e opinioni negoziati, però, non più solo dall’economia politica dei media quanto piuttosto dalla loro struttura tecnico-algoritmica. Infatti, la rete e le sue parcellizzazioni – id est le piattaforme – contribuiscono a rendere l'infrastruttura materiale e informativa della sfera pubblica sempre più complessa, ubiqua benché più centralizzata. In particolare, negli ultimi anni le piattaforme hanno acquisito un significativo predominio, riuscendo a garantirsi il controllo sui prodotti culturali così come su quelli politici; financo a dettare le comunicazioni e proposte stesse degli attori politici (Poell et al., 2019). In tal senso, la piattaformizzazione è riuscita a promuovere una riorganizzazione delle pratiche e degli immaginari riuscendo a impattare e plasmare il modo in cui i pubblici vengono informati e le modalità attraverso cui si organizza la produzione e la diffusione dei contenuti. Le piattaforme digitali costituiscono quindi vaste arene in cui si materializza la gerarchizzazione e l'incorniciamento dei fatti, sociali e politici, e in cui si forma la rappresentazione del mondo e le questioni che lo attraversano (Fuchs, 2015). Pertanto, investigarne le specificità sociotecniche può aiutare a risolvere le difficoltà di comprensione e partecipazione alla sfera pubblica già da tempo documentate (Latour, 2011). In tal senso, un modo efficace per risolvere tali complessità può risiedere nello studio delle affordances di piattaforma. Le affordances dei social media, infatti, se da un lato sono state ampiamente descritte come semplificatrici dell'interattività e della partecipazione (Jenkins, 2006); dall’altro lato, vanno lette come strumenti di determinazione e cocreazione della sfera pubblica (Bruns & Highfield, 2015). A tal proposito, Theocharis e colleghi (2023) hanno investigato come le affordances di Twitter e Facebook possano impattare nella scelta e partecipazione politica, sottolineando come come l'architettura tecnica e pratica delle piattaforme contribuisca a determinare delle differenze nel comportamento sociale e politico dei cittadini. Inesplorato, invece, pare ancora il caso di TikTok, piattaforma le cui innovazioni strutturali hanno contribuito alla nascita di nuove forme di interazione sociale, culturale e politica (Boccia Artieri, Donato, 2024). Il presente lavoro, dunque, si propone di investigare l’impatto che le peculiari caratteristiche tecniche di TikTok hanno avuto e hanno sulla formazione della sfera pubblica. Se, infatti, il potere si costruisce anche attraverso il racconto che se ne fa (Castells 2009), allora chiedersi se e come le affordances di TikTok contribuiscano a determinare nuove caratteristiche della sfera pubblica sembra dirsi un elemento necessario per comprendere tanto il potere delle piattaforme che la malleabilità del rapporto tra tecnologia e potere, identitario e politico, dello stato. Per fare questo, si è dunque operato un’etnografia di piattaforma e un’etnografia delle affordances (Hine, 2017; Costa, 2018) di TikTok così da capire a) che impatto queste determinino nella costruzione della sfera pubblica di TikTok, b) quanto questa corroda e/o corrobori gli aspetti tradizionali della tradizionale sfera pubblica e, più in generale c) come lo studio delle affordances di piattaforma possa contribuire a disvelare le trasformazioni strutturali già in corso della sfera pubblica. Il ruolo dei media nel processo di costruzione sociale della corruzione 1Università degli Studi di Perugia, Italia; 2Sapienza Università di Roma, Italia Che cosa è la corruzione? La risposta a questa domanda è da diverso tempo oggetto di dibattito tra esperti e studiosi, con numerosi tentativi di delineazione che emergono da diverse discipline come il diritto, l'economia e la scienza politica, evidenziando una notevole varietà di interpretazioni (Gardiner 2001; Mungiu-Pippidi e Fazekas 2020). Nonostante questo ampio ventaglio di approcci, fino ad ora soltanto pochi studi hanno analizzato la corruzione come un fenomeno socialmente costruito (Wickberg, 2021), ovvero un problema di costruzione sociale della realtà all'interno di un dato contesto sociale (Berger & Luckmann 1966). L’obiettivo del nostro lavoro è quello di approfondire questo approccio, proponendo una riflessione che connetta tra di loro i tentativi di fornire una definizione di corruzione condotti fino ad ora con una letteratura di matrice sociologica e massmediologica sul ruolo dei media nei processi di costruzione sociale. Il nostro punto di partenza è che la corruzione non sia un fenomeno oggettivamente definito, quanto un'idea che viene declinata e ri-definita continuamente all'interno di diversi contesti sociali e culturali. Le pratiche corruttive non sono 'naturali', ma coinvolgono processi di definizione collettiva e devono essere rivendicate e percepite come devianti in un determinato contesto sociale per diventare o meno un punto di discussione nell'arena pubblica (Katzarova 2019). In altre parole, la corruzione è un fenomeno socialmente costruito, percepito come tale all'interno di un contesto sociale specifico (Granovetter 2007). La percezione, le norme e i valori riguardanti la corruzione sono influenzati e modellati dalle interazioni umane, dalle istituzioni e soprattutto dai media. Proprio i media infatti saranno il nostro punto di osservazione privilegiato per l’analisi della costruzione sociale della corruzione. I mezzi di comunicazione non solo riflettono ma costruiscono attivamente la realtà sociale, incidendo sulle percezioni individuali e collettive e sulle strutture sociali (Couldry & Hepp 2017). I cittadini sono sempre più immersi in un ecosistema mediale in cui si intrecciano forme di comunicazione interpersonali e di massa all'interno del quale acquisiscono gli elementi necessari per interpretare il mondo in cui vivono. I media modellano non solo l'informazione ma anche le norme e i valori sociali, influenzando così la comprensione pubblica di cosa sia considerato corrotto o eticamente discutibile. Il coverage mediale della corruzione gioca quindi un ruolo cruciale nel suo processo di costruzione sociale, così come i contenuti prodotti da una pluralità di attori diversi all’interno delle piattaforme di social media. Tuttavia un’ampia letteratura (Mancini et al. 2017; Berti et al. 2020) dimostra che la narrazione mediale è profondamente influenzata da variabili esogene, tra cui diverse forme di influenze politiche oppure logiche di commercializzazione, legate alla competizione per l'attenzione del pubblico. Questi fattori possono introdurre distorsioni nella rappresentazione della corruzione, compromettendo l'integrità del processo di costruzione sociale e, di conseguenza, la percezione pubblica e le risposte alla corruzione stessa. Attraverso il nostro lavoro, puntiamo a offrire nuove prospettive sulla comprensione e sul trattamento della corruzione, evidenziando il ruolo centrale dei media nel modellare le dinamiche sociali attorno a questo fenomeno. |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 7: Newsmaking in trasformazione Luogo, sala: Aula VII Chair di sessione: Carlo Sorrentino |
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Narrazioni giornalistiche e pratiche culturali dall’Europa dei limini: la guerra russo-ucraina su Google News Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia L’Europa in quanto comunità culturale (Prutsch 2017) ha storicamente definito se stessa tramite l’Alterità. Da prospettiva eurocentrica, l’alterità è divenuta dispositivo discorsivo di controllo in quanto impiegata in opposizioni dicotomiche e binarie (Bhambra 2023; Buchowski 2006; Foucault 1996). Le opposizioni dicotomiche e binarie proprie delle prospettive eurocentriche possono accrescere il rischio di “riduzionismo e ultra-semplificazione” (Hall 1997: 235). A partire da queste considerazioni, lo studio investiga alcune società sulle soglie delle identità/alterità, le cui forme culturali e pratiche mediali non sono definibili del tutto europee, risultando, però, non-definitive nella loro alterità rispetto all’Europa stessa. Realtà liminali (Turner 1967: Thomassen 2014), facenti parte del ‘constitutive outside’ dello spazio sociale europeo (Balibar 2002; Butler 1993; Hall 2003), che potrebbero arricchire la comprensione di ciò che abbiamo in comune come membri di più ampie comunità culturali, in termini di narrazioni e significati condivisi o divergenti. Attraverso un’interpretazione critica delle società e della storia culturale e identitaria dell’Europa, nel tentativo di far emergere le potenziali manifestazioni di potere simbolico nelle codifiche e narrazioni giornalistiche sulla guerra russo-ucraina, lo studio risponde alle domande: - Quali forme cross-culturali, condivise e/o divergenti, emergono dalle narrazioni giornalistiche aggregate da Google News nei paesi analizzati? - Che ruolo svolge l’aggregatore di notizie abitato, nella selezione e costruzione delle diete mediali dei diversi Paesi? I flussi giornalistici aggregati da Google News fanno riferimento ai seguenti contesti nazionali: Georgia, Polonia, Serbia, Turchia e Italia, come caso di controllo dell’Europa occidentale. Dal punto di vista metodologico, lo studio ha raccolto i primi cinque link indicizzati da Google News (Pan et al. 2007) in ciascun paese, in due intervalli di tempo significativi della durata di due settimane. Un primo intervallo dal giorno dell’invasione (24 febbraio 2022) e un secondo, a sei mesi dallo scoppio del conflitto. Applicando un short burst model adatto ad eventi sensazionali e coniugandolo con una prospettiva longitudinale a breve termine (Brügger 2011; Hannak et al. 2013). In totale sono stati raccolti 4.620 link di notizie online, con una media di circa 462 notizie per Paese per lasso di tempo, da cui sono stati estrapolati titoli e sottotitoli (Van Dijk 1983). I fattori endogeni che possono influire sulla personalizzazione dei risultati, e che è possibile tenere sotto controllo – quali impostazione linguistica, geolocalizzazione, cronologia e selezione del browser – sono stati ridotti al minimo (Rogers 2014; Ørmen 2016). Per gestire l’overload informativo tipico dell’Information Warfare (Ventre 2016) i corpora testuali sono stati aggregati in data-driven topic, con il software gratuito di topic modelling offerto da Open Framing.org (Jiang et al. 2017; Guo et al. 2022). Successivamente, consapevoli dei limiti della natura non supervisionata del topic modelling computazionale, e delle possibili distorsioni che ne possono conseguire (Eshima, Imai & Sasaki 2020), ogni topic è stata analizzato e modificato attraverso un’analisi del contenuto manuale (Vogler & Meissner 2022) per validare i frame e dare senso ai dataset. I corpora sono stati raggruppati induttivamente in: topic principali, issue-specific frame e framing delle fonti giornalistiche (Tankard 2001; de Vreese 2005; Linstrom, Marais 2012). I risultati mostrano punti di contatto e divergenza delle narrazioni socioculturali sulla guerra russo-ucraina dai paesi in esame. La ricerca tenta di portare alla luce in che misura la narratività in periodi di sconvolgimento e crisi sia intrecciata con le prospettive storiche, memoriali, e le politiche identitarie. Lo studio presenta infine notazioni qualitative esplorative sulle affordances di Google News, rilevando tendenze divergenti nella costruzione delle diete mediali nei diversi paesi, con potenziali ricadute sul dibattito pubblico digitale (Bentivegna, Boccia Artieri 2021), oltre che sui processi democratici. Le rappresentazioni dell’IA nei quotidiani Italiani: l’impatto di ChatGPT 1Università di Bologna; 2Università degli Studi di Ferrara I recenti sviluppi della cosiddetta "intelligenza artificiale" (IA) sembrano riproporre una nuova “primavera” per tale tecnologia, accompagnata da un rinnovato interesse del dibattito pubblico e politico intorno ad essa. In particolare, l'introduzione di innovativi sistemi di IA "generativa" verso il largo pubblico quali, ad esempio, il lancio da parte di OpenAI di Chat-GPT, ha rianimato il dibattito anche non specialistico in merito alle conseguenze della diffusione di questi strumenti nelle attuali società digitali. Tale dibattito, in passato, si è spesso polarizzato prospettando, da un lato futuri di ulteriore sviluppo e benessere, dall’altro crescenti rischi, tal volta esasperati in termini sensazionalistici o riferiti a scenari e immaginari fantascientifici che poco hanno a che fare con la realtà del fenomeno. Alla luce di ciò, il presente contributo intende indagare proprio gli immaginari, i frame e le narrazioni legate all’IA generativa utilizzati dall'informazione giornalistica in Italia. Per farlo saranno analizzati e confrontati due campioni di articoli provenienti dai principali quotidiani italiani, l'uno precedente il lancio di Chat-GPT, avvenuto in Italia il 30 novembre 2022, e l'altro posteriore a tale data. Attraverso l’analisi comparata del contenuto dei due campioni si intende verificare: 1) il modo in cui l’informazione mainstream in Italia ha rappresentato il fenomeno dell’IA e 2) l'impatto specifico di ChatGPT all’interno del dibattito pubblico italiano. Situare il giornalismo locale. Ruoli del giornalismo tra genere, prossimità e innovazioni digitali Università di Milano - Bicocca, Italia Topic: Questa ricerca si propone di esplorare i ruoli e le dinamiche che animano il lavoro giornalistico da una prospettiva di genere nel contesto geografico dell'Italia nord-occidentale. Il problema di ricerca che si intende affrontare riguarda il ruolo che il giornalismo locale può avere in relazione alle questioni di genere, considerando la sua peculiare vicinanza alle comunità di cui narra, all'interno di un ambiente networked digitale ed ibrido. Rationale: Numerosi studi che hanno studiato il giornalismo in prospettiva di genere - sia a livello internazionale che nazionale - hanno evidenziato significative disuguaglianze in termini di opportunità di accesso e partecipazione, discriminazione nel coverage, linguaggi e perpetuazione di stereotipi sia all'interno delle redazioni sia nei prodotti giornalistici. Questo progetto di ricerca esplorativo mira ad ampliare e integrare i risultati degli studi precedenti, concentrandosi sul processo di produzione delle notizie e sulle dinamiche quotidiane di lavoro nelle redazioni locali. Approccio teorico: Data questa enfasi, si ritiene fondamentale considerare le notizie come un prodotto della produzione delle stesse. Il giornalismo è quindi compreso in una prospettiva istituzionalista, in quanto è dato dalle pratiche routinizzate, regole esplicite e implicite e convinzioni che influenzano il lavoro giornalistico. La teoria istituzionalista è preziosa non solo per analizzare le pratiche e le dinamiche giornalistiche, ma anche per comprendere la loro adattabilità nel contesto della digitalizzazione. Applicazione empirica: Questa ricerca vuole indagare come la prossimità influisca sul ruolo dei giornalisti nel riportare notizie di genere, come la composizione di genere delle redazioni abbia un impatto sulla produzione e come la trasformazione digitale e ibrida incida sulle pratiche e sulle routine delle redazioni locali. Per rispondere a queste domande, la ricerca è mixed-methods. Osservazioni partecipanti in due testate locali si associano ad un'analisi quantitativa dei contenuti delle notizie pubblicate sui loro siti web nei periodi in cui sono state condotte le osservazioni etnografiche (che coprono anche novembre 2023 e marzo 2024, come periodi importanti per le questioni di genere). Questa prospettiva metodologica consente di esaminare in modo completo l'informazione locale nel suo intero ciclo di vita, dalle sue origini - compresi i processi di discussione, selezione e redazione - al suo output finale, la notizia stessa, come prodotto del processo di produzione. AI e newsmaking: una prima indagine esplorativa nelle redazioni italiane 1Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia; 2Università degli studi di Bergamo, Italia Secondo il rapporto dell’Osservatorio italiano sul Giornalismo Digitale, il 2023 è stato l’anno della sperimentazione dell’Intelligenza Artificiale (AI) nelle redazioni giornalistiche. I primi e timidi utilizzi dell’AI nei processi di newsmaking registrati dal rapporto riguardano prevalentemente l’adozione di algoritmi per cavalcare i trend e decidere gli argomenti da trattare, di sistemi di machine learning che automatizzano la pubblicazione delle notizie e di CMS intelligenti a supporto dei giornalisti e di strategie di personalizzazione dei contenuti attraverso l’analisi dei dati. L'ascesa dell'AI può dunque potenzialmente esercitare un profondo impatto sulle industrie dei media, compreso il giornalismo, con una riconfigurazione del processo di produzione delle notizie e a un ripensamento del ruolo (pubblico) dei giornalisti. A partire dalle prime esperienze all’interno delle redazioni, la letteratura sta riflettendo sul ruolo che l'AI svolgerà nella ridefinizione delle routine di produzione dell'informazione e nella riconfigurazione delle competenze professionali, dell'autorevolezza e dei ruoli all’interno delle redazioni (Fink & Anderson, 2014);(Hamilton & Turner, 2009);(Howard, 2014); . In alcuni casi, la ricerca si è concentrata principalmente sull'AI come risorsa di potenziamento del data/computational journalism per migliorare i dati (Coddington, 2015), mentre in altri l'attenzione si è rivolta verso lo studio delle diverse forme di ibridazione tra sistemi informatici e professionisti all'interno del workflow giornalistico (Diakopoulos, 2019). Su questo secondo fronte, resta ancora da esplorare nel dettaglio come l'AI possa integrarsi, potenziare ed eventualmente riscrivere le routine giornalistiche, e in che misura la sua adozione possa ridefinire le condizioni di autonomia e di agency dei professionisti dell'informazione. Il presente contributo intende affrontare questi aspetti a partire da un'indagine esplorativa delle pratiche emergenti di ibridazione giornalistica con i diversi sistemi di machine learning attualmente disponibili. A tal fine, la ricerca si avvarrà dell'analisi di una serie di interviste a giornalisti, direttori delle risorse umane e membri delle redazioni responsabili della gestione e dell'implementazione dei sistemi informatici delle newsroom, che lavorano per le maggiori media company italiane e per alcune testate locali. Con l'obiettivo di superare l'uso dell'IA come parola d'ordine inflazionata e ambigua, l'analisi offrirà innanzitutto una mappatura dei principali software di automazione adottati nelle redazioni italiane, chiarendo quali funzioni di newsmaking vengono automatizzate e se vengono concretamente adottati sistemi di machine learning. In secondo luogo, l'attenzione sarà rivolta alle dinamiche concrete che hanno accompagnato l'integrazione degli strumenti di AI nelle nuove routine di produzione, la relativa riconfigurazione del flusso di lavoro giornalistico, guidata sia dalla libera iniziativa di singoli giornalisti che utilizzano l’AI per semplificare e velocizzare parte del loro lavoro, sia dall'adozione istituzionalizzata imposta alle redazioni dai gruppi editoriali. Infine, il punto di vista degli intervistati a cui è stato chiesto di ipotizzare come l'AI plasmerà il loro lavoro nei prossimi decenni ci permetterà di mappare le aspettative e gli immaginari su come l'AI si intersecherà con le questioni dell'indipendenza del giornalismo dal potere economico e politico, della sostenibilità economica delle imprese giornalistiche e dell'adempimento della loro missione civica di aiutare a far capire la società. Per una analisi della soggettività giornalistica sulla dis/abilità. Il professionista tra esperienza e riflessività Sapienza Università di Roma, Italia Il presente lavoro indaga il ruolo del giornalismo sulla dis/abilità all’intersezione tra esperienza e riflessività nel contesto italiano. In particolare, la proposta assume la soggettività come risorsa epistemica per il giornalista che si occupa principalmente di dis/abilità. Questa è tra gli argomenti più scarsamente studiati nell'insieme della diversità contemporanea (Woldring, Nguyen, 2023), pur al centro di una crescente sensibilità dovuta all'emergere dell'intersezionalità come strumento analitico per comprendere i problemi sociali e la complessità delle identità sociali (Hill Collins, Bilge, 2020). Seguendo Steensen (2017, p. 28), la soggettività va intesa come la somma di tutte le identità che coesistono nell'individuo (genere, orientamento sessuale, classe, etnia) e l'atto riflessivo della coscienza di sé (sempre incompleta). Pertanto, la soggettività diventa terreno primario di confronto e negoziazione della conoscenza dell'altro e della narrazione costruita a partire da quest'ultimo. In questo senso, la soggettività del giornalista - che abbia o meno una o più disabilità - trova ancoraggio nel riconoscimento epistemico di molteplici punti di vista. Come suggerisce Hill Collins (1990), tale prospettiva implica la capacità di ruotare il proprio centro di ascolto e osservazione della realtà, riconoscendo l'esperienza come epistemica. Storicamente legata ai media minoritari o alternativi (Husband, 1998), l'espressione della soggettività trova continuità nel giornalismo volto a perseguire la giustizia sociale, sempre più invocata nell'attuale società complessa, diseguale e frammentata (Parks, 2020; Varma, 2022; Zelizer et al. 2022; Schmidt, 2023). In questo scenario, la rappresentazione della diversità può finire per essere un disclaimer strategico fine a se stesso (Kosterich, Ziek, 2023), tuttavia, nella capacità di ruotare il proprio punto di vista, il giornalista può eticamente ascoltare l'altro (Goggin, 2009; Wasserman, 2013) e discostarsi dalle narrazioni editoriali consolidate (Scheufele, 1999; D'Angelo, Shaw, 2018). Nel contesto italiano l'attenzione giornalistica al tema della disabilità è sempre stata stentata (Bomprezzi, 2005), pertanto il contributo si pone la seguente domanda di ricerca: come interviene la soggettività del professionista che si occupa di dis/abilità nelle sue pratiche di coverage del tema e, più in generale, nella sua definizione di agente di cambiamento sociale? Metodologicamente, sono state condotte interviste semi-strutturate su un campione mirato (Ritchie et al., 2003) di 24 professionisti dell'informazione, specializzati sul tema della disabilità (freelance, collaboratori esterni o dipendenti di redazioni italiane nazionali e regionali). Il campione è stato individuato dopo una prima mappatura dei palinsesti televisivi del Servizio Pubblico e delle riviste e rubriche tematiche presenti nelle edizioni cartacee e digitali dei media tradizionali. L'insieme dei professionisti individuati è stato confermato e ampliato attraverso le reti del Forum Nazionale Terzo Settore (Peruzzi, 2011; Peruzzi, Volterrani, 2016). L'analisi delle trascrizioni si è ispirata alla grounded theory costruzionista (Charmaz, 2006; 2014; 2021). Le prime evidenze emerse dalle interviste rivelano tra le dimensioni più rilevanti quelle che abbiamo definito: 1. Esperienza, in ambito professionale e di vita; 2. Riconoscimento, beat-non beat e riserve indiane; 3. Nuovi sguardi sulle narrazioni; 4. Difesa e negoziazione di spazi e visibilità; 5. Azioni per il cambiamento. A partire da queste, si configura un giornalista del "margine", riprendendo il concetto di hooks (2018), mai centrale nelle redazioni e negli spazi di pubblicazione, ma apertamente dedito a ingaggiare una battaglia creativa per costruire un cambiamento sociale nel modo in cui la cultura pubblica della dis/abilità è intesa in Italia. Questo esercita la loro soggettività proponendo nuove narrazioni, che riformulano i valori-notizia e ruotano il centro di osservazione dei lettori. La soggettività permette così di perseguire un giornalismo risonante (Ettema, 2005; Rosa, 2022), curioso (Harcup, 2021) e attento al pubblico, esso stesso alla ricerca di storie da cui imparare cose nuove e che ha bisogno di essere riconosciuto dalla società e di comprenderla (Costera Meijer, 2022). |
10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 8: Celebrity, media e trasformazioni culturali Luogo, sala: Aula VIII Chair di sessione: Antonella Mascio Chair di sessione: Mario Tirino |
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Celebrity, media e trasformazioni culturali 1Università di Salerno, Italia; 2Università di Bologna, Italia; 3Università LINK, Italia; 4Università della Repubblica di San Marino, San Marino; 5Università di Torino, Italia Chair: Antonella Mascio (“Alma Mater Studiorum” Università degli Studi di Bologna), Mario Tirino (Università degli Studi di Salerno) . Lo studio della celebrità costituisce una risorsa preziosa per comprendere in che modo le icone dello star system (audiovisivo e sportivo) siano connesse ad ampie trasformazioni culturali della società digitale. La sociologia dei processi culturali e i Media Studies dispongono di strumenti e concetti funzionali a interrogare processi, attori e dinamiche della celebrification. In quanto figure pubbliche, le celebrità possono essere concepite come centri generativi che spiegano il funzionamento del mondo sociale e i suoi valori (Couldry 2009). Lo studio delle celebrità permette di interpretare un’ampia serie di fenomeni sociali. Secondo Marshall (2006), nessuno è al riparo dalla logica culturale ed economica della celebrità. Turner (2004), inoltre, contempla la celebrità come genere mediatico, come effetto discorsivo e come merce, con molteplici influenze e diversi risultati. Secondo Rojek (2001), possiamo considerare le celebrità come figure pubbliche che rivelano pubblicamente la propria sfera privata e la propria vita quotidiana, creando di conseguenza maggiori opportunità di coinvolgimento del pubblico. Tra le altre trasformazioni culturali di cui le celebrità si fanno interpreti, occupano un ruolo centrale le nuove sensibilità sociali rispetto all’ageing. Le celebrità che invecchiano contribuiscono a sviluppare un discorso pubblico sulle difficoltà dell'invecchiamento e, allo stesso tempo, si sono trasformate in esempi di nuovi modelli di ageing, connessi a valori come desiderabilità, auto-realizzazione, potere e successo. Inoltre, grazie all’uso dei social media, le celebrità attivano forme di relazione diretta con il loro fandom. In questo quadro di profonde trasformazioni culturali di cui la celebrità si fa incarnazione e dispositivo, il contributo di Mario Tirino e Simona Castellano esplora il caso di Francesco Totti. L’analisi delle forme di auto-narrazione e auto-rappresentazione sui social del calciatore italiano, nella delicata fase della rinegoziazione della propria celebrity durante il post-carriera, permette di evidenziare anche le differenti modalità di riconoscimento da parte del pubblico, attraverso processi di identificazione, interazione e imitazione. I social media diventano spazi cruciali in cui celebrity cresciute in altri ambiti culturali rinegoziano il proprio celebrity capital, attraverso molteplici forme di connessione con i pubblici e i fan. È il caso anche delle celebrity teen che emergono dallo stardom delle serie tv. Spalletta, D’Amelio e De Rosa si focalizzano sulla serie tv Mare fuori, per far emergere le dinamiche che legano costruzione della leadership on screen e processi di celebritization beyond-the-screen. Lo studio evidenzia le differenti variabili (età, genere, classe, ecc.) che incidono sulla rappresentazione della leadership on screen, contribuendo, contestualmente, a far emergere lo statuto ibrido della celebrity contemporanea, che espande il proprio potere dai media audiovisivi ad altri spazi (moda, lifestyle, ecc.). Sempre più celebrity pop rivendicano il proprio ruolo nello spazio pubblico, spesso esprimendo forme di attivismo civico, sociale e culturale. Il paper di Simona Tirocchi, adottando concetti e strumenti propri di Gender Studies e Media Studies, restituisce l’effervescenza, l’eterogeneità e anche la contradditorietà dei processi attraverso cui alcune celebrità pop contemporanee esprimono le diverse posizioni culturali del femminismo contemporaneo. Anche i tradizionali media audiovisivi, come il cinema e le serie tv, svolgono una funzione fondamentale nella creazione di mitografie di star contemporanee. In questo senso, la proposta di Roy Menarini utilizza il caso delle rappresentazioni mediali di John McEnroe, per investigare sia la cruciale funzione delle diverse autorialità coinvolte nel costruire la retorica del campione, che attraversa tanto prodotti di fiction, quanto documentari e show televisivi, in cui il campione rinegozia il suo celebrity capital. Attraverso differenti prospettive ed oggetti di ricerca, il panel valorizza il dispositivo culturale della celebrity, valorizzandone la capacità di farsi fattore di attrazione e rimediazione di molteplici processi culturali mediante l’interazione di differenti attori e forze sociali all’interno di vari contesti mediali, spesso variamente intrecciati. . Match Point. Routine e pratiche di rappresentazione mediale del campione tennistico al cinema: il caso McEnroe Roy Menarini (“Alma Mater Studiorum” Università degli Studi di Bologna) L’intervento mira a ricostruire la retorica del campione (celebrità) tennistica all’interno della rappresentazione cinematografica e audiovisiva, lavorando principalmente sulla star della racchetta e su come viene raccontata. In particolare, il focus sarà su McEnroe e sui film in cui compare come guest star (da L’ultimo gioco, 1979 a Wimbledon, 2004), come oggetto documentaristico (John McEnroe – L’impero della perfezione, 2018), o interpretato da altri (come nel caso di Borg McEnroe, 2017), senza dimenticare di riflettere sulla sua persona pubblica nella fase post-carriera (le esibizioni, il circuito senior, il ruolo di commentatore televisivo e altro).
* Costruzione della leadership on-screen e processi di celebritization beyond-the-screen. Prospettive di aging e gender in Mare fuori Marica Spalletta (Università degli Studi LINK) Elena D’Amelio (Università degli Studi di San Marino) Paola De Rosa (Università degli Studi LINK)
Nell’era della transmedialità e della convergenza (Jenkins 2006, 2011; Scolari 2019), le serie televisive tendono ad assumere i contorni di ecosistemi narrativi complessi (Boccia Artieri & Gemini 2016; Pescatore 2018), all’interno dei quali la rappresentazione di interazioni e dinamiche sociali si discosta dalla dimensione spaziale dello schermo, per divenire espressione di una cultura partecipativa (Mascio 2014; Mittel 2015; Mikos 2016) che abbatte le distanze con gli spettatori, innescando processi di contaminazione e influenza multi-direzionali tra on-screen e beyond-the-screen. Tale trasformazione assume contorni ancora più evidenti nell’universo dei teen drama, tanto in ragione delle rappresentazioni offerte (Forni 2020; Del Guercio 2022), quanto con riferimento al costante tentativo di attivare un dialogo tra personaggi e pubblici, che si costruisce attraverso lo schermo per poi consolidarsi e declinarsi in diverse forme su piattaforme narrative parallele o alternative allo stesso (Mascio 2023). In particolare, la celebrità teen contemporanea, che nasce e si sviluppa nei serial drama, copta forme di auto-rappresentazione e self branding tipiche della content creator culture (Poell et al. 2022), in una costante interazione con fan/followers. All’interno di tale scenario, la rappresentazione dei ruoli sociali e delle dinamiche di costruzione della leadership assume un ruolo centrale, riflettendo, da un lato, la complessità delle relazioni di potere all’interno della realtà sociale (Smith et al. 2012; Larson et al. 2019), dall’altro esplorando, da una prospettiva intersezionale, le interconnessioni più o meno dirette con età, identità di genere, orientamento sessuale, classe sociale, razza, etnia, attraverso un processo di costruzione e negoziazione di significati e valori che si estende ben oltre l’esperienza di fruizione. Queste dinamiche vanno altresì inquadrate nell’ampio processo di celebritization, che investe i mutamenti a livello sociale e culturale innescati dalla celebrità come prodotto mediale (Driessens 2013). Se la celebrification coinvolge la personalità individuale, e cioè la trasformazione da persona ordinaria in celebrità, la celebritization è un meta-processo che influenza la progressiva celebrificazione dei comportamenti sociali, in termini di ascesa, democratizzazione e trasmigrazione delle celebrità su media diversi. Alla luce di tali premesse, il paper adotta un approccio di analisi qualitativa (media content analysis) per esplorare le complesse dinamiche che, nei serial drama, prendono forma tra costruzione della leadership on-screen e processi di celebritization beyond-the-screen, attraverso una prospettiva intersezionale che guarda precipuamente alle variabili di età e genere. A tal fine, esso si focalizza su quel paradigmatico caso di studio rappresentato da Mare fuori, con l’obiettivo di testare le seguenti ipotesi: a) la costruzione della leadership si sviluppa a partire dall’intersezione di due diverse variabili, relative rispettivamente all’origine della leadership (“ereditata” vs. “conquistata”) e all’esercizio della stessa (“rivendicata” vs. “rifiutata”), e assume forme diverse a seconda del character, della competence, del contest e della communication cui ciascun personaggio fa ricorso (Eklund et al. 2017); b) l’analisi della celebrità televisiva contemporanea si configura come spazio intermedio non solo tra divismo cinematografico e television personalities (Bennett 2010), ma anche tra attorialità tradizionale (cinema e TV) e modalità di self-branding e mantenimento della fama tipiche della influencer culture. Dalla ricerca emerge una significativa rilevanza delle variabili di genere e di età nella costruzione della leadership, che tende a delinearsi, nella prospettiva on-screen, come un fenomeno al contempo principalmente maschile e fortemente stereotipato, laddove la leadership femminile, anch’essa non immune da stereotipi, appare particolarmente influenzata dalla variabile di età. Nell’ambito della celebritization in epoca digitale, gli spazi di autopromozione individuale e collettiva aperti dai social media individuano una nuova figura di performer: l’attore/attrice-influencer, che usa lo star-power di matrice cinematografica-televisiva per colonizzare altri spazi mediali, fortemente genderizzati e legati alla variabile aging, come fashion e lifestyle, in un continuo rimando tra personaggi on-screen e personalità beyond-the-screen.
* Un capitano. Il post carriera delle celebrity calcistiche tra rappresentazioni mediali e auto-narrazione social: il caso Francesco Totti Mario Tirino (Università degli Studi di Salerno) Simona Castellano (Università degli Studi di Salerno)
Il paper si propone di indagare le forme contemporanee di auto-rappresentazione e auto-narrazione delle (ex) celebrità del calcio attraverso i profili Instagram e la loro presenza sui media tradizionali. Tra i social media, Instagram ha consolidato modelli estetici e culturali (Manovich 2017) e favorito l’emergere di pratiche legate alla costruzione dell’identità e alla performatività del sé. All’interno dei social media, gli individui danno vita a fenomeni di auto-narrazione e auto-promozione, attraverso le immagini, legati a valori sociali, culturali ed estetici (Caldeira et al. 2018; Caliandro & Graham 2020). Le celebrità del calcio sono una categoria sociologica che comprende individui che si distinguono per notorietà, eco mediatica (Rojek 2004), atletismo e risultati sportivi eccezionali. Questa categoria costruisce la propria identità sui social media diffondendo contenuti coerenti con la narrazione di sé che intende trasmettere a un pubblico reale o "immaginario" (Marwick & boyd 2010). Instagram rappresenta l’ambiente mediatico ideale per l’auto-rappresentazione. L’auto-rappresentazione e l’auto-narrazione consentono alle celebrità del calcio di dare origine a significati rilevanti per il pubblico, intensificando le relazioni para-sociali (Bifulco & Tirino 2019). Questi concetti si applicano anche agli ex calciatori. Si tratta infatti di individui che affrontano la fine della loro carriera sportiva - vivendo talvolta momenti di crisi -, ma spesso anche l’inizio di nuove attività, all’interno dei media tradizionali, realizzando spot televisivi o apparizioni in serie, show tv o film. Partendo da episodi di crisi, queste nuove attività permettono loro di rinegoziare il capitale sociale e lo status di celebrità. Le modalità narrative dei media possono avere un impatto sul percorso di transizione dalla vita agonistica e professionale al pensionamento (Tinley 2012). Per questi motivi, all’interno del quadro teorico della mediatizzazione dello sport (Frandsen 2020), ci concentriamo sui processi e sui contenuti dei media mainstream relativi alle ex celebrità del calcio. Il paper si concentrerà sull’analisi del caso di Francesco Totti. Abbiamo deciso di utilizzare la media content analysis (Macnamara 2005; Schreier 2012) per analizzare i suoi contenuti su Instagram e l’analisi narrativa dei prodotti audiovisivi di finzione. Vogliamo indagare: a) le pratiche di auto-rappresentazione e auto-narrazione, concentrandoci sulle strategie simboliche e comunicative di negoziazione del capitale di celebrità; b) le modalità di riconoscimento da parte del pubblico, attraverso processi di identificazione (Wann et al. 2001), interazione (Wheeler 2014) e imitazione (Rojek 2001); c) i processi e le pratiche alla base della costruzione dell’immagine mediatizzata degli ex calciatori, anche attraverso la commistione tra diversi sistemi di intrattenimento (sport, gossip, cinema e serie TV).
* Glossy empowerment? Soggettività femminili e cultura pop Simona Tirocchi (Università degli Studi di Torino)
Il tema della presenza e della rappresentazione della donna nei media (tradizionali e digitali) si inserisce nel solco dei Gender Media Studies e dei Feminist Media Studies e soprattutto a partire dagli anni Novanta, si è intrecciato con l’evoluzione dei femminismi, in particolare con la progressiva affermazione del postfemminismo e della sua nuova sensibilità culturale. Sin dall’inizio il postfemminismo ha manifestato la sua ambivalenza e ricchezza di significati, anche in relazione al rapporto con la cultura pop, che è diventata spazio di diffusione delle nuove prerogative femminili legate al nuovo empowerment e all’individualizzazione. La cultura pop instaura un rapporto dialettico con le donne, ponendosi non soltanto come ambiente di oggettivazione/oggettificazione del corpo femminile, ma anche come opportunità di soggettivazione e potenziamento individuale. Nel quadro di effervescenza e di recente diffusione dei movimenti culturali che nella loro fluidità esprimono numerose istanze del femminismo contemporaneo (dal femminismo intersezionale, all’anarcafemminismo, al naked feminism), si affermano sulla scena sociale quelli che potremmodefinire “femminismi pop”, che recuperano il retaggio del già affermato “popular feminism”, popolare soprattutto perché si manifesta nei discorsi e nelle pratiche dei media (comprese le piattaforme che dominano il nuovo ecosistema mediale), a partire dalle celebrity e dal caso della rivista femminile “Elle UK” che nel dicembre del 2014 propone Emma Watson in copertina titolando “The fresh face of feminism”. Il contributo ha l’obiettivo di esaminare case studies legati ad alcune celebrity (da Beyoncé a Chiara Ferragni, a Ilary Blasi) tentando di identificarne modelli e valori che caratterizzano i loro messaggi, tra self agency e tendenze tradizionaliste. Si tratta di istanze femministe o di un femminismo patinato? Quale impatto potrebbe esercitare sulla società?
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10:45 - 12:30 | Sessione 5 - Panel 9: Nuovi modelli di educazione critica per fronteggiare le sfide del terzo millennio Luogo, sala: Aula T02 Chair di sessione: Emiliana Mangone Chair di sessione: Alfonso Amendola |
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Nuovi modelli di educazione critica per fronteggiare le sfide del terzo millennio 1IRPPS-CNR di Roma; 2Universidad Católica de Colombia, Colombia; 3Università “G. Fortunato” di Benevento; 4Università del Molise; 5Università degli Studi di Salerno Chair: Emiliana Mangone - Università degli Studi di Salerno Se una cosa ci ha insegnato la pandemia da SARS-CoV-2 è che le ferite collettive richiedono strategie collettive per uscire dalla condizione di crisi o di emergenza. Ma per ferite collettive non si possono considerare sono quelle dovute a pandemie o disastri (emergenze) ma anche tutte quelle che si registrano con l’ampliamento del divario delle disuguaglianze che porta sempre più parti di popolazioni, in gran parte del mondo, al di sotto della cosiddetta soglia di povertà. Assegnare un ruolo centrale alla partecipazione, alla mobilitazione e all’empowerment della comunità (con tutte le sue componenti), fare ricorso a risorse “compatibili” culturalmente reperite nei luoghi in cui questi fenomeni si verificano significa agire a livello individuale, familiare, e sociale. Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da democrazie ‘minime’ e procedimentali dominate da un modello socioeconomico capitalista e da una cultura neo materialista, indifferenti ai principi di redistribuzione della ricchezza e di equilibrio tra le relazioni sociali, i modelli di sviluppo, la giustizia ambientale e alimentare. Questo modello ha ridotto alcune problematiche sociali (per esempio, giustizia sociale, sostenibilità, disuguaglianze, etc.) a una questione puramente teorica o a una dimensione semplicemente istituzionale, evidenziando l’incapacità dei sistemi politici di fornire risposte efficaci alle pressanti rivendicazioni sociali, di servire il bene comune e di rivestire di una dimensione etica l’attività democratica. Il risultato ottenuto, è stato la produzione di effetti strutturali sempre meno governabili. Una necessaria e sempre più pressante urgenza di riprogettazione della governance non è possibile senza un radicale cambiamento culturale e collettivo della percezione dei problemi e, a tal fine, è necessaria una rilettura dei principi della teoria sociale critica per l’elaborazione di quadri analitici utili per sensibilizzare e guidare decisioni e politiche di sviluppo. La sfida che i sociologi e scienziati sociali sono quindi chiamati ad affrontare sarà quello di ridisegnare un nuovo sistema dei bisogni tale che non si debba più scegliere tra rilanciare l’economia e salvare vite umane (si vedano gli effetti della pandemia). Ciò richiede un cambio di paradigma della lettura dei mutamenti della società che deve essere attuato, e in questo la chiave di lettura dell’educazione e in particolare dell’educazione critica è appropriata in quanto spinge verso il riconoscimento dell’altro e dei suoi bisogni in una logica di tutela del bene comune. Probabilmente non è un caso che alcuni movimenti e associazioni si siano mobilitate per cercare di costruire una “società della cura” dove il riferimento alla cura non è solo legato alle condizioni di salute ma al benessere generalizzato dell’individuo come membro di una comunità. La presente proposta di panel ha, dunque, come obiettivo quello di sottolineare la necessità di un rinnovamento e/o di una attualizzazione di modelli educativi, in quanto l’educazione è lo strumento principe attraverso cui costruire proposte per rielaborare teorie e pratiche al fine di ricostruire componenti strutturali della società contemporanea e di governance per ridurre le disuguaglianze e orientarsi verso la giustizia sociale che costituisce anche la base per un mondo pacificato. Questi elementi rappresentano il filo conduttore di questo panel si ritrovano − in maniera più o meno esplicita – negli interventi che si fondano su un approccio intersettoriale (tra le varie aree della sociologia) e interdisciplinare e seguono una logica a “imbuto”, dal più generale ai casi specifici così come si evidenzia dagli abstract che seguono. . Verso un nuovo modello di educazione critica: la social justice education tra Europa e America Latina Francesca Cubeddu, IRPPS-CNR di Roma Lucia Picarella, Universidad Católica de Colombia L’educazione ha un ruolo importante nella formazione delle persone e nella costituzione della società. Attraverso i processi educativi, infatti, ogni persona esprime sé stessa e mette a frutto le sue capacità, e allo stesso tempo le costruisce e le raffina permettendo così sia la trasmissione della cultura sia la riproduzione sociale. L’educazione non ha niente di neutrale poiché essa si trasforma in azione e, quindi, in azione politica che mira alla riduzione dell’oppressione. Per Freire l’educazione è politica. L’intento di quest’ultimo nella seconda metà del secolo scorso era quello di costruire una pratica educativa (praxis) che permettesse alle popolazioni oppresse dell’America Latina di raggiungere la libertà superando ciò che rendeva stagnante uno status quo di forte diseguaglianza tra le classi. L’educazione è, dunque, un bene che deve essere anch’esso sottoposto alla redistribuzione come tutte le altre risorse e allo stesso tempo è un processo che rende il soggetto libero di potersi esprimere con le capacità sviluppate. Un processo che avviene attraverso il riconoscimento delle capacità di ogni soggetto abbattendo così all’interno delle istituzioni educative ogni forma di diseguaglianza. Generando benessere per l’individuo attraverso la concessione delle stesse opportunità a chi non avrebbe la possibilità di poter accedere a determinati beni e servizi (pari opportunità per tutti gli individui). Dinamiche insite nei processi di giustizia sociale e che contraddistinguono anche il cosiddetto social justice education approach. Il riconoscimento dell’identità dei soggetti e l’espressione di manifestazione delle proprie capabilities sono per i processi educativi la raffigurazione delle dinamiche di giustizia sociale. Si può anche affermare che la social justice education sia contemporaneamente un approccio sociale, pedagogico e politico di una nazione. L’educazione può essere, quindi, osservata come manifestazione politica di un paese basata sul riconoscimento dei diritti. Le istituzioni educative possono essere un grande motore per lo sviluppo sociale poiché possono comportare una giusta equità, tesa non solo a una distribuzione sociale della conoscenza ma anche alla crescita di quest’ultima come non unica (la conoscenza è multipla) e, soprattutto, come crescita del capitale culturale e sociale di una comunità. Partendo dall’analisi di alcuni aspetti della pedagogia critica di Paulo Freire, che può essere considerato il precursore della social justice education, si andrà ad osservare se sia possibile affermare che la social justice education sia contemporaneamente un approccio sociale, educativo e politico di un paese e se le dinamiche insite nei processi di giustizia sociale contraddistinguono anche il cosiddetto social justice education approach. Questo lavoro si propone, dunque, di esaminare l’importanza dell’applicazione dell’approccio della social justice education nella società contemporanea e per raggiungere questo obiettivo il punto di partenza sarà l’inquadramento teorico del rapporto tra giustizia sociale e pratica educativa (praxis), evidenziando la necessità di porre al centro dei processi educativi l’essere umano e la sua dimensione culturale, per andare poi a esaminare alcuni casi di applicazione dell’approccio di social justice education – sul modello educativo proposto da Freire – all’interno del sistema educativo in Europa e in America Latina. . Il ruolo della digital literacy tra sostenibilità e disuguaglianze Elvira Martini, Università “G. Fortunato” La catena di crisi degli ultimi decenni ha dimostrato che la vulnerabilità è in aumento a causa delle trasformazioni sia socioculturali sia naturali, non ultima la pandemia dovuta alla diffusione del virus SARS-CoV-2 vissuta a livello planetario. Questo accade non solo per quelle fasce di popolazione che tradizionalmente erano considerate vulnerabili (poveri, disabili, immigrati, bambini, anziani e giovani) ma anche per altre fasce di popolazione che non rientrano in nessuna di queste categorie. Ciò rende necessario fornire azioni di risposta alle condizioni di crisi a livello locale, nazionale e internazionale che promuovano la resilienza delle comunità proprio delle fasce di popolazione che, a causa di fenomeni di differente natura (economica, politica, sanitaria, etc.), risultano più vulnerabili di altre. Gli effetti delle crisi, infatti, non sono identici per tutti gli individui e i gruppi, e ciò non solo per il livello di coinvolgimento (diretto o indiretto) ma anche per la capacità dell’individuo e della società di resistere ai loro effetti negativi (vulnerabilità sociale). In queste sfide, la tecnologia digitale assume un posto di assoluta centralità sotto un duplice aspetto: alleata preziosa e motore di cambiamento, ma anche creatrice di nuovi divari di disuguaglianza. La pervasività delle tecnologie, la loro capacità di farsi addomesticare e integrare, l’ottimizzazione e la semplificazione rispetto all’accesso a informazioni, conoscenza e servizi, rappresentano lo snodo più rilevante attraverso cui le sfide dello sviluppo sostenibile possono transitare e trasformarsi in prassi comportamentali. Si intuisce, quindi, che il percorso per ridurre la vulnerabilità e i conseguenti aspetti di disuguaglianza sociale, nonché favorire uno sviluppo sostenibile non può prescindere dal ruolo svolto dalla trasformazione digitale riducendo al minimo i gap e valorizzando l’innovazione. Gli strumenti digitali, infatti, offrono molte possibilità per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 in quanto posseggono un grande potenziale trasformativo. Ma l’attuazione di un vero cambiamento di paradigma pone necessariamente una priorità: l’inclusione digitale. È assolutamente necessario non trascurare le implicazioni socioculturali determinate dall’integrazione del digitale nel tessuto sociale contemporaneo come, per esempio, le disuguaglianze generate dalla capacità di accesso ai suoi strumenti. Chiunque è escluso dai benefici delle innovazioni subisce un danno che attiene tanto alla dimensione macro quanto a quella micro sociale. Sulla base di queste premesse, il presente lavoro intende indagare il rapporto tra sostenibilità digitale e forme di diseguaglianza, considerando che i repentini cambiamenti ambientali, culturali ed economici obbligano il mondo della ricerca e della tecnologia a rispondere in modo proattivo per la gestione della complessità e delle disuguaglianze sociali, non solo attraverso l’utilizzo delle tecnologie (nuove e già esistenti) ma anche tramite approcci di previsione sociale - come il technology foresight - al fine di abilitare la digitalizzazione in un’ottica di maggiore inclusione e scongiurare che il divario digitale possa diventare un altro aspetto (pericoloso) del progresso tecnologico. . L’educazione critica come strumento di emancipazione degli studenti transgender Marianna Coppola, Università del Molise L’educazione critica del modello della liberazione, dunque, potrebbe rappresentare una possibile cornice teorica e pratica di riferimento per creare un clima di consapevolezza attiva e di democratizzazione di una categoria particolarmente oppressa come gli studenti con problematiche legate all’identità di genere. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo assistito a un incremento del numero di adolescenti e giovani adulti che si definiscono transgender o non binary e che sperimentano una condizione di incongruenza tra sesso biologico e identità di genere esperita, condizione che espone gli stessi a diverse problematiche di natura psicologica e di integrazione sociale, ivi compresi difficoltà nelle performance scolastiche e universitarie, e in generale per la loro condizione di benessere. È possibile considerare il modello dell’educazione critica in quanto il suo principale obiettivo è quello di costruire una società democratica, giusta e inclusiva per i membri che la compongono attraverso la consapevolezza della propria condizione e in questa processualità il ruolo dell’educatore (anche nella sua qualità di insegnante) si pone in una logica “circolare” (abbandonando l’idea di un’“asimmetria di sapere”) in cui è possibile incoraggiare e stimolare i discenti a individuare, argomentare ed esplicitare le problematiche e le disuguaglianze sociali esistenti nella società, sviluppando, in tal modo, un modello educativo per la “liberazione” dalle condizioni di oppressione e di disuguaglianza attraverso il processo di “conscientização” [conscientizzzazione]. Su queste basi si fonda l’esperienza che si presenta di un percorso di consapevolezza e di formazione/informazione attuata in un Istituto Comprensivo della città di Roma e finalizzato all’educazione e alla socializzazione alle tematiche di genere di tutti gli attori coinvolti direttamente o indirettamente nel processo educativo (dagli alunni al personale docente, dai genitori al personale ATA, ecc.), rappresentando una best practices di democratizzazione sociale e nell’affrontare le problematiche legate all’identità di genere all’interno del contesto scolastico nazionale. . L’educazione videoludica come strumento di sensibilizzazione verso problematiche sociali Annachiara Guerra, Martina Masullo, Università degli Studi di Salerno Durante e dopo la pandemia da covid-19, la Generazione Z, che comprende i nati dopo il 1995 – chiamati anche post Millennials – si è trovata ad affrontare un momento delicato della propria vita. Processi come quelli della costruzione identitaria, della conoscenza di sé in relazione con gli altri, della scoperta dei propri obiettivi di vita e delle prime esperienze fondamentali per la crescita individuale sono stati esperiti in una condizione sociale fortemente complessa e sconosciuta. In questo contesto i social network e i videogiochi hanno assunto un ruolo fondamentale per la crescita dei giovani e giovanissimi e le ricadute sul sistema educativo sono state notevoli. Negli ultimi anni, si è dato molto più spazio al ruolo dell’edutainment, della Media Education e dell’e-learning. I videogiochi hanno aperto vasti scenari e offerto nuove opportunità per un "apprendimento divertente". Ciò è dovuto alle caratteristiche intrinseche del medium videoludico: interattività, multimedialità, plurisensorialità e problem solving. Inoltre, da tempo, il videogioco si fa carico di ospitare e veicolare tematiche sociali importanti. Giovanni Boccia Artieri, infatti, parla di videogiochi come videomondi, ovvero luoghi in cui poter osservare la società e la trasformazione delle relazioni sociali e della comunicazione. Pertanto, l’obiettivo di questo contributo è analizzare, attraverso alcuni casi di studio, il videogioco tramite un approccio critico che lo ponga in una posizione centrale all’interno di quella che si potrebbe definire una comunicazione educativa che può abbracciare contenuti e contesti diversi. “Fammi vedere la luna”, realizzato a partire da un progetto teatrale all’interno delle carceri di Airola (BN) e Sant’Angelo dei Lombardi (AV), si inserisce all’interno del contesto di rieducazione e sensibilizzazione sulla tematica della criminalità giovanile; “Bluethroot”, progetto vincitore del Bando Europeo 2020, promosso dall' Associazione S. Benedetto di Foggia, nato per contrastare la povertà educativa nelle regioni del Mezzogiorno, pone l’attenzione sulle fragilità della Generazione Z; “Green Home”, “Il Puliziotto e “Alba: a Wildlife Adventure” trattano la tematica della sostenibilità ambientale e ne esplorano specifiche sfaccettature. Rispettivamente, il primo è promosso da P&G in collaborazione con WWF Italia, il secondo è realizzato dalla Fondazione Franchi, impegnata in attività e progetti di formazione digitale a supporto del mondo scolastico, il terzo narra le avventure di una bambina e il suo impegno per salvaguardare una riserva naturale e bloccare la costruzione di un mega hotel. Attraverso questi videogiochi, è possibile dimostrare come il medium videoludico sia oggi tra i principali mezzi utilizzati per la trasmissione di messaggi e contenuti relativi alle tematiche sociali, in grado di rivolgersi soprattutto alle nuove generazioni. |
12:30 - 14:00 | Pausa pranzo 2 |
14:00 - 15:30 | Keynote 2: "La speranza come problema sociologico: ragioni e passioni del possibile" Guido Gili, Università del Molise e Università Gregoriana Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Sara Bentivegna Discussants: Carlo Sorrentino - Università di Firenze |
15:30 - 16:30 | Assemblea generale aperta e presentazione della carta dei valori dell'associazione Luogo, sala: Aula Falcone e Borsellino Chair di sessione: Sara Bentivegna Chair di sessione: Giovanni Boccia Artieri Direttivo SISCC e Comitato Etico SISCC: Piermarco Aroldi, Università Cattolica Milano; Donatella Bramanti, Università Cattolica Milano; Patrizia Calefato, Università di Bari; Vanni Codeluppi, Università di Modena e Reggio Emilia; Fabio Ferrucci, Università del Molise; Andrea Maccarini, Università di Padova; Roberta Paltrinieri, Università di Bologna; Riccardo Prandini, Università di Bologna; Francesca Pasquali, Università di Bergamo; Roberto Serpieri, Università Federico II Napol; Paola Rebughini, Università di Milano; Michele Sorice, Sapienza Università di Roma; Carlo Sorrentino, Università di Firenze |
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