Il fenomeno del de-influencing come nuova strategia di comunicazione
Geraldina Roberti1, Ariela Mortara2
1Sapienza Università di Roma, Italia; 2IULM Università di Milano
A fronte dei continui cambiamenti della società contemporanea, la riflessione sociologica ambisce ad acquisire un ruolo sempre più centrale, dal momento che può offrire al dibattito pubblico chiavi di lettura attraverso le quali comprendere la complessità delle dinamiche sociali. Nella stessa prospettiva, gli studiosi che indagano i modelli e le pratiche culturali puntano a identificare i nuovi paradigmi comunicativi che popolano lo scenario mediale, così da renderne espliciti contenuti e modalità espressive. Nell’attuale platform society (Van Dijck et al. 2019), infatti, i cambiamenti che si verificano nell’ecosistema mediale modificano anche le dinamiche della socialità e i meccanismi di produzione dei contenuti, costruendo nuove abitudini e inedite prassi comunicative.
In un simile contesto, anche la sfera del consumo può offrire ai ricercatori l’occasione per riflettere sulle dinamiche del cambiamento sociale, nel tentativo di comprendere il ruolo delle pratiche di fruizione nella costruzione delle identità, delle relazioni e dei nuovi stili di vita contemporanei (Bauman, 2001). L’universo che ruota intorno ai consumi chiama in causa, infatti, dimensioni culturali, sociali ed economiche, mettendo in evidenza anche il valore creativo e simbolico delle pratiche adottate dai soggetti.
Un ambito specifico attraverso il quale provare a interpretare questi meccanismi comunicativi è quello legato alle strategie promozionali dei brand, con una particolare attenzione per il ruolo sempre più rilevante assunto dai digital influencer. La crescente pervasività dei social media, infatti, ha portato al centro della scena comunicativa nuove figure, capaci di catturare l'attenzione dei media per poi tradurla in opportunità commerciali, assumendo di fatto il ruolo di testimonial per prodotti e marche popolari. Il successo sempre più ampio delle piattaforme digitali ha favorito l'espansione di questa sorta di influencer culture, attribuendo ai personaggi che la incarnano lo status di vere e proprie celebrità (Brooks et al., 2021) in grado di orientare i gusti e le scelte di acquisto di segmenti consistenti di consumatori. Gli influencer utilizzano piattaforme come Instagram, YouTube, TikTok per costruirsi un seguito, creando e condividendo contenuti che suscitano l'interesse del loro pubblico, letteralmente influenzandone le opinioni e i comportamenti. Per raggiungere lo status di celebrity, essi devono puntare su un’apparente autenticità (Nunes et al., 2021) e sull’affidabilità delle loro opinioni, mirando a coltivare una connessione di tipo parasociale con i follower (Bond 2016), che dimostrano il proprio coinvolgimento attraverso commenti, like e condivisioni (Pradhan et al., 2023).
Tuttavia, negli ultimi mesi, è aumentato il numero dei digital influencer che hanno cominciato a modificare il proprio stile comunicativo nella direzione di una maggiore sincerità e trasparenza, arrivando anche a segnalare agli utenti i prodotti da non acquistare, attraverso una pratica nota come "de-influencing". Il meccanismo di de-influencing comprende diverse declinazioni, che vanno dal semplice post che scoraggia l'acquisto di un determinato prodotto, alle stories in cui si suggeriscono alternative più economiche rispetto a brand famosi, fino all’invito ad abbracciare uno stile di vita minimalista (Singer et al. 2023).
In base a tale prospettiva, l’intervento proposto punta a esplorare il fenomeno del de-influencing per identificarne le dimensioni più significative. In particolare, verranno indagate: a) le motivazioni alla base dei discorsi di de-influencing; b) i principali settori merceologici coinvolti; c) le strategie di comunicazione utilizzate nei messaggi pubblicati sui social media. Attraverso tale ricognizione, sarà anche possibile cominciare a riflettere sugli sviluppi dell’influencer culture, nell’ottica di comprenderne limiti e prospettive future.
Tra rimediazione e trasformazione. Memorie, narrazioni e immaginari nell’era delle piattaforme
Silvia Leonzi, Lorenzo Ugolini, Michele Balducci
Sapienza Università di Roma, Italia
Il paper si propone di riflettere sul rapporto tra platformization, transmedialità e fruizione dei prodotti culturali, analizzando da una prospettiva ecologica il consumo di testi narrativi. Più specificamente, il paper si sofferma sulla crisi della capacità dei media e delle industrie culturali e creative di partecipare alla costruzione di una memoria condivisa, in chiave intragenerazionale e soprattutto intergenerazionale, alla base di un immaginario collettivo. Questa riflessione muove dall’ipotesi che le radicali evoluzioni di un sistema mediale sempre più ibrido (Chadwick 2017), che si succedono con velocità crescente nel segno della convergenza (Jenkins 2006), poi della transmedialità (Leonzi 2022), infine della piattaformizzazione (van Dijck et al. 2018), stiano progressivamente erodendo, fino a eliminare in alcuni tratti, la costruzione di una memoria e di un immaginario condivisi non solo tra gli individui e le comunità appartenenti a diversi intervalli generazionali, ma anche a quelli appartenenti alla stessa generazione.
Nell’attuale ambiente mediale, infatti, specifiche narrazioni tendono a espandersi orizzontalmente attraverso dinamiche di spreadability, alimentando così la sedimentazione di contenuti e simboli che diventano punto di partenza per gli utenti per (ri)negoziare significati condivisi (Scolari 2013); al tempo stesso, questo processo sembra mancare della capacità di creare una memoria e un immaginario comune e condiviso, intaccando così uno dei fondamentali patrimoni simbolici a disposizione degli attori sociali (Leonzi, Ugolini 2023). Il paper si propone di approfondire questa possibile frattura comunicativa tanto in termini ecologici (Colombo 2020; Ciofalo, Pedroni 2022), con una riflessione sull’evoluzione delle dinamiche sociali e mediali alla luce di una possibile ridefinizione della costruzione di miti fondativi comuni; quanto in termini specifici riguardo gli effetti sulle criticità e le sfide per ricercatori e studiosi nel campo della sociologia dei media e della comunicazione.
Il paper presenta i primi risultati di una ricerca volta a indagare i modi in cui specifiche narrazioni transmediali riescono a creare relazioni di significato con gli utenti anche quando questi ultimi non hanno avuto accesso diretto ai testi (come, a titolo di esempio, la capacità degli utenti di fruire e ri-negoziare i significati di un film o di una serie che non hanno visto). A tale scopo, sono state condotte una survey e alcune interviste in profondità orientate a evidenziare se e come il consumo dei media rappresenti ancora una possibilità di dialogo e di veicolazione di idee e valori all’interno dei gruppi sociali e attraverso vari modelli sociali.
I primi risultati della ricerca evidenziano un approccio agli oggetti, ai prodotti e ai consumi culturali sempre più slegato alle narrazioni di origine e, come conseguenza paradossale, sempre più legato alle loro rimediazioni, private di significato. Si tratta di un modello apparentemente corrispondente alle dinamiche di “reciproca resistenza” che si attivano tra i processi di piattaformizzazione e di transmedialità (Leonzi, Marinelli 2022): le piattaforme consentono di accedere a una narrazione a prescindere dal prodotto; la transmedialità offre alle piattaforme stesse la possibilità di generare modalità di accesso e condivisione basate sulle espansioni e non sulla narrazione vera e propria.
Come risultato sembra prendere forma una transizione da un immaginario di massa verso una massa di immaginari, legati tra loro in una “coda lunga” di consumi apparentemente effimeri (Anderson 2006; Tosca 2023). Appare ancora indefinita la capacità di dialogare tra loro di questi immaginari non più condivisi ma pulviscolari: tra questi emergono infatti modalità discorsive di interazione, che appaiono tuttavia vincolate all’hic et nunc di singoli utenti, e che rendono quantomeno incerta la possibilità che si strutturino in costellazioni condivise e fruibili, in grado di ricalcare il ruolo, se non l’architettura, di quello che era immaginario collettivo.
In principio era il manifesto. Pubblicità e religione dalla belle époque al boom economico
Carlo Nardella
Università degli Studi di Milano, Italia
I risultati di una ricerca condotta su un campione di pubblicità italiane contenenti riferimenti religiosi dagli anni Cinquanta del secolo scorso ai nostri giorni ha rivelato due tendenze in atto. La prima è che la frequenza con cui la simbologia religiosa è stata utilizzata per promuovere beni e servizi di consumo è tendenzialmente crescente e incline ad aumentare nel lungo periodo. La seconda tendenza riguarda l’uso di questa simbologia in connessione a un mix eterogeneo di scopi commerciali. Ciò è interpretato come indicatore del fatto che la religione è divenuta nel corso degli ultimi settant’anni una fonte creativa cui i pubblicitari possono attingere con sempre minori riserve (Nardella 2015).
È ora interessante chiedersi se e come questo fenomeno possa essere ricondotto indietro nel tempo, o meglio se di esso vi siano tracce prima degli anni Cinquanta del Novecento. Per rispondere a questa nuova domanda, il paper analizza un ampio campione di manifesti pubblicitari in cui appaiono riferimenti religiosi circolati in Italia dalla belle époque al boom economico, più precisamente dagli anni Novanta dell’Ottocento all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento (cfr., su questo periodo, Arvidsson 2006; De Iulio 1996; Fasce, Bini, Gaudenzi 2016). I manifesti selezionati per l’analisi sono stati raccolti presso l’archivio della Collezione Salce – la più importante raccolta nazionale di grafica pubblicitaria – attraverso una operativizzazione di “riferimento religioso” basata su uno schema di codifica coerente con quello utilizzato per il campionamento delle pubblicità moderne (Nardella 2015). L’analisi, sviluppata a livello quantitativo e qualitativo, tiene conto di più variabili, tra cui il tipo di riferimento religioso, la categoria di prodotto e il periodo di tempo. Per ciascuna variabile sono calcolate le distribuzioni di frequenza e analizzate le relazioni reciproche tra di esse mediante tabelle di contingenza (v. Krippendorff 1983). È inoltre individuato il messaggio complessivo di ciascun manifesto e le metafore in esso contenute (v. Losito 1993).
Nel presentare i principali risultati empirici di questa ricerca, il paper intende non soltanto documentare la varietà di materiali storici appartenenti a un passato lontano ma anche individuare se esista un possibile filo conduttore che colleghi quel contesto all’attuale, indicandone comparativamente, nel confronto tra ricerche, continuità e differenze che aiutino a comprendere alcune trasformazioni sopravvenute nel tempo cui assistiamo ancora oggi.
Il saccheggio della moda: pratiche e narrazioni tra politica, media, lusso e consumo
Patrizia Calefato
Università degli studi di Bari Aldo Moro, Italia
Questo intervento analizza come oggi le pratiche e le narrazioni della moda si pongono quali strumenti di interpretazione sociale che coinvolgono diversi discorsi, anche distanti dai territori della moda vestimentaria in senso stretto. In un’epoca che ha attraversato quella che provocatoriamente è stata definita “la fine della moda” (Edelkoort 2011; Geczy e Karaminas 2019), proprio la moda offre allo sguardo sociologico la possibilità di esplorare aspetti complessi in forma articolata e mobile (McRobbie 1999; Kaiser e Green 2021; Calefato 2021): dalle tematiche dell’identità (Crane 2000; Karaminas et al. 2022), della performatività (Wissinger 2016) e della politica (Marchetti 2020), alle forme quotidiane di modalizzazione dei media (D’Aloia e Pedroni 2022), alle pratiche del consumo e della produzione transnazionale (Crewe 2017; Ling e Segre Reinach 2018), alle forme di creatività diffusa (McRobbie et al. 2023).
Il paper prende in esame, come caso e occasione di studio, l’iniziativa del marchio di moda americano Pyer Moss di festeggiare il suo decimo anniversario invitando il pubblico a un “saccheggio” dei suoi capi (il nome dell’iniziativa è “The loot-out”) in eventi in stile flash-mob svoltisi, tra dicembre 2023 e aprile 2024, in tre città americane (New York, Atlanta e Los Angeles). Il caso, qui analizzato come evento mediatico attraverso diverse piattaforme online in cui è stato lanciato e discusso, risulta interessante in quanto non si presenta semplicemente come una campagna pubblicitaria di moda, ma convoca diversi frame che verranno presi in considerazione:
1. L’attivismo e il rapporto tra moda e politica. Il designer proprietario del marchio - Kirby Jean-Raymond – è da sempre impegnato per i diritti e l’empowerment degli afroamericani, denuncia il “saccheggio” della moda come forma di appropriazione culturale, e, nel “loot-out”, cita provocatoriamente quelli che sono stati definiti “saccheggi” in diverse occasioni di antagonismo sociale in America, sin dai riot di Los Angeles nel 1992 (Madhubuti 1993), alle manifestazioni dopo l’uragano Katrina, alle azioni di Black Lives Matter. Kamala Harris ha indossato capi Pyer Moss nella cerimonia di insediamento di Biden, il 20 gennaio 2021: un’occasione in cui venne esplicitamente rappresentato il power dressing femminile (Obama 2018), quale istituzionalizzazione e insieme citazione attiva del rapporto tra vestire, stile e pratiche di resistenza nelle autorappresentazioni diasporiche afroamericane (hooks 1990; Tulloch 2016).
2. Il saccheggio come forma di consumo, in particolare il ruolo e i significati che assume il marchio di lusso, considerato in questo caso come oggetto del desiderio e allo stesso tempo come mezzo di critica all’establishment. I diversi media coinvolti sia nella diffusione della notizia (il video di una donna creata con IA presenta l’iniziativa su Instagram e sul sito), sia nella discussione sul caso nella stampa e nelle piattaforme, nonché le forme di spettacolarizzazione dell’evento, diventano parte integrante dell’atto di consumo stesso, collocandosi a cavallo tra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale.
3. Il rapporto tra Primo e Terzo Mondo nella distribuzione, ri-creazione e appropriazione, sia fisica che semiotica, della moda e del lusso (Calefato 2018; Blaszczyk e Pouillard 2018). Il caso di Pyer Moss verrà, in questo senso, analizzato a confronto con quella che il designer sudafricano Thebe Magugu chiama, in un progetto avviato nel 2022 (https://www.thebemagugu.com/collections/ss23/), la “discard theory”, la teoria dello scarto, concernente l’uso che le giovani generazioni in Africa oggi fanno degli “scarti” della moda occidentale “saccheggiandoli” materialmente e simbolicamente nei mercati dell’usato delle città africane e rielaborandoli poi in originali pratiche di bricolage creativo.
Eventi “incomprensibili” come l’istituzionalizzazione del saccheggio possono dunque essere analizzati mantenendo aperta una prospettiva che permetta di comprenderli nella loro ambivalenza. Il campo della moda offre in questo senso un fertile terreno di riflessione.
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