Violenza di genere online: la responsabilità delle piattaforme digitali nello sguardo consapevole di chi la contrasta.
Francesca Belotti1, Mariacristina Sciannamblo2, Stefania Parisi2, Claudia Solinas2
1Università degli Studi dell'Aquila, Italia; 2Sapienza Università di Roma, Italia
In questo paper presentiamo i primi risultati di un progetto di ricerca che indaga criticamente il ruolo delle piattaforme nel riprodurre e/o nel contrastare le diverse forme di violenza di genere online (Segrave & Vitis, 2017), attingendo ad un quadro teorico che considera le tecnologie digitali ed il genere come “categorie intrecciate” (Lerman et al. 2003) ed in un rapporto di reciproca influenza con le strutture sociali e le pratiche culturali. Tale approccio implica una problematizzazione delle “gendered affordance” (Schwartz & Neff 2019) nonché dei meccanismi e dell’economia politica delle piattaforme digitali (Van Dijck et al. 2018), che attingono a repertori sociali e culturali di genere a disposizione di utenti e designer, favorendo così pratiche d’uso violente e misogine, ma anche risorse per la resistenza e l’autodeterminazione delle donne, delle soggettività LGBTQIA+ e di altre comunità emarginate.
Nello specifico, in questo contributo illustriamo i risultati emersi da 20 interviste in profondità svolte con portavoce dei centri antiviolenza italiani e delle reti femministe nazionali, impegnatə in iniziative e sperimentazioni di contrasto alla violenza di genere, anche attraverso l’uso di strumenti digitali. L’approccio narrativo ci ha permesso, infatti, di aggregare esperienze personali, stimolare il pensiero riflessivo e generare momenti di apprendimento (Gherardi & Poggio 2009), in una prospettiva emica che ha messo in evidenza, come dimensione analitica prevalente, la consapevolezza deə partecipanti circa le logiche di funzionamento delle piattaforme digitali e, di lì, i limiti e le potenzialità che le caratterizzano rispetto al problema specifico della violenza di genere online.
L’analisi tematica delle interviste, infatti, dimostra che la maggior parte deə partecipanti è consapevole circa i pericoli che soprattutto i meccanismi di datafication e curation, nonché le affordance di persistenza e scalabilità comportano, per lo più in termini di surveillance e disinformazione. Alcunə partecipanti rintracciano nel design stesso delle piattaforme dei veri e propri “trigger” di specifiche forme di violenza di genere online, riconoscendo in esso il precipitato “tecnologico” di norme sociali sessiste e credenze culturali misogine.
Diversə partecipanti mettono in discussione anche alcune espressioni post-femministe che circolano sui social media, identificandole come “femminismo pop” che può scollegare l’attivismo dalle mobilitazioni fisiche e dalla denuncia strutturale del patriarcato. Non sorprende, dunque, che pur riconoscendo la potenziale inclusività degli spazi digitali, soprattutto quando facilitano il superamento delle barriere fisiche per la partecipazione a momenti di protesta e (in)formazione, alcunə di loro esprimono scetticismo sul fatto di affidarsi completamente ad essi per l’attivismo, tracciando così una linea di demarcazione tra la “piazza virtuale” e i luoghi fisici dell’azione politica dal basso.
Sguardi femminili sulla società: B. Gasperini e B. Pitzorno, una narrazione del cambiamento
Federica Guida
Università degli studi di Cagliari, Italia
Domanda di ricerca
A partire da due casi studio si vuole analizzare la modalità con cui il cambiamento sociale viene raccontato e promosso. Si vogliono mettere in relazione i lavori di Brunella Gasperini e Bianca Pitzorno che si sono dedicate alla scrittura, alla traduzione, al giornalismo, rivelandosi sapienti conoscitrici degli strumenti di comunicazione per rappresentare la complessità del presente. Hanno sfidato i condizionamenti sociali, promuovendo una maggiore autoconsapevolezza femminile (Gasperini, 1978). Hanno anche affrontato tematiche che sono oggi oggetto dei dibattiti internazionali, come l’animal care (Pitzorno, 2023).
Consapevoli della necessità di promuovere modelli sociali innovativi, le loro opere riflettono una profonda comprensione delle dinamiche sociali e dei cambiamenti avvenuti in Italia dal Dopoguerra della Gasperini, alla realtà odierna di Pitzorno. Negli ultimi anni sono mutati il concetto di maternità, le famiglie, il ruolo della donna e i suoi diritti, la relazione con gli animali, i diritti degli animali.
Ad accomunarle è il ricorrere al genere letterario della biografia e a uno stesso immaginario simbolico per raccontare momenti che hanno segnato una svolta in Italia sul piano sociale (come il referendum sul divorzio). L’immaginario non verrà inteso solo come oggetto di studio, quanto come una prospettiva di analisi della realtà sociale. L’intento è sia di approfondire il potere che le simbologie hanno di influenzare le percezioni collettive, sia di interpretare questi simboli in base al significato che la società contemporanea attribuisce loro.
Il quadro metodologico
Sulla base delle letture critiche delle istanze dei movimenti femministi e ambientalisti fatte negli ultimi anni, è fondamentale tenere in considerazione la risonanza che questi hanno nelle opere letterarie. I movimenti sociali hanno avuto risvolti significativi sugli studi letterari, ma in che modo l’apporto della letteratura italiana può essere considerato fondamentale per una nuova analisi del movimento culturale? Negli ultimi decenni l’immaginario sta cambiando verso un punto di vista più paritario e inclusivo. Si vuole ripercorrere il cambiamento del significato attribuito a questi simboli per capire quali sono le attuali funzioni assegnate dalle donne. Si vuole ricorrere a un metodo induttivo: individuare nei testi letterari le funzioni simboliche, per risalire a una rappresentazione universale di esse. Si vuole dimostrare che le pratiche narrative che cambiano la rappresentazione nell’immaginario collettivo, riorientano lo sguardo di chi legge, ispirando nuove simbologie sociali.
I risultati e la pertinenza rispetto ai temi della conferenza
Queste scrittrici hanno creato un nuovo immaginario collettivo, partendo da una comprensione critica della società e contribuendo attivamente alla formazione di una moderna coscienza civile in Italia. Il lavoro di queste donne rivela una comprensione profonda di dinamiche e fenomeni sociali delicati e complessi e hanno scelto la letteratura come strumento per un “empowerment” collettivo. Dal loro lavoro emerge la necessità di una maggiore interrelazione tra sociologia e letteratura, poiché un uso perspicace degli strumenti di comunicazione può davvero innestare un profondo cambio di prospettive e idee.
Si consideri l’importanza della stampa femminile negli anni Sessanta, di cui la penna di Gasperini è tra le più note, diventata il veicolo privilegiato delle nuove idee. Nel ‘68 infatti anche nel suo “Salotto” si respirerà un’atmosfera nuova: lo scopo non sarà più quello di dare risposte taumaturgiche alle lettrici, ma di stimolare le donne a una nuova conoscenza di sé (Tommaso, 1999).
La scrittura di queste due autrici ha svolto un ruolo importante nel plasmare la narrazione sociale italiana e nel promuovere un cambiamento culturale attraverso la diffusione di nuove idee. Hanno ridisegnato un mondo femminile della comunicazione, educando in primis le donne e condizionando il modo di vedere e vivere la realtà. Le femministe italiane possono trarne ispirazione per portare avanti il cambiamento.
Dati che non comprendono: feminist data activism e violenza di genere
Emiliana De Blasio1, Donatella Selva2
1LUISS Guido Carli; 2Università di Firenze
È evidenza comune che i dati abbiano assunto un ruolo centrale nella formulazione di decisioni strategiche e di policy sia nel settore privato che in quello pubblico; quest’ultimo, in particolare, per tanto tempo ha promosso la pubblicazione di open data come principale (quando non unico) impegno nella direzione dell’open government (De Blasio, 2018).
Inoltre, il quadro che ci viene consegnato dalla letteratura sulla platform society (van Dijck, Poell, de Waal, 2018) insiste sulla pervasività del processo di datificazione, indicandolo come uno dei meccanismi di progressiva integrazione di diverse sfere della realtà sociale all’interno di infrastrutture piattaformizzate. I critical algorithm studies mettono in luce gli effetti distorsivi non solo degli algoritmi ma anche delle modalità con cui i dati sono raccolti, aggregati e utilizzati per alimentare processi di deep learning.
Tuttavia, sebbene si presti molta attenzione ai dati nei processi decisionali, intere aree di conoscenza rimangono ancora scoperte: una di queste riguarda la violenza di genere e in particolare il femminicidio. Sono molte le voci che denunciano una grave mancanza di dati su questi fenomeni, tra cui le Nazioni Unite, l'OCSE, Eurostat, la Commissione Europea (si veda per es. Gerards & Xenidis, 2021) e lo European Institute for Gender Equality (EIGE), oltre a numerosi studiosi e attivisti (D’Ignazio, 2024). Questo è dovuto principalmente al fatto che molte istituzioni in Europa e nel mondo non hanno ancora adottato una definizione univoca di violenza di genere e, di conseguenza, i loro database dei reati non sono stati progettati per promuovere una copertura completa di tutti gli elementi che contribuiscono a spiegare il fenomeno e soprattutto faticano a formare il personale sul campo, quello stesso personale che "costruisce" materialmente i dati.
Adottando la prospettiva del data feminism (D’Ignazio & Klein, 2020), il nostro lavoro si concentra proprio sui molteplici tentativi di portare alla luce i gender data gaps relativi alla violenza di genere in Italia. In quest’ottica, l’intersezione tra attivismo digitale e temi di genere apre nuovi scenari di ricerca: piuttosto che focalizzarsi su come i movimenti femministi usano i media digitali per perseguire la loro lotta, puntiamo l’attenzione a come l’assenza di dati sia un nuovo campo di lotta, anch’esso caratterizzato da un forte attivismo e con una posta in gioco rilevante nel contesto della platform society e del data-driven decision-making.
Attraverso un monitoraggio di più ampio respiro, nel nostro intervento identifichiamo in particolare: (a) le cause culturali, sociali, economiche e politiche che hanno portato alla datificazione di alcuni aspetti della violenza di genere tralasciandone altri; (b) i mutevoli livelli di invisibilità raggiunti dai diversi tipi di violenza di genere, con particolare riferimento al formato dei dati e alla salienza nei media in determinati momenti della storia recente; (c) i soggetti esposti sul fronte dell’attivismo dei dati (principalmente giornalist* e ONG) che si occupano di tenere traccia delle informazioni diffuse per costruire una conoscenza più accurata, tracciandone i repertori e le interconnessioni con altre soggettività (politiche e non).
Dalla riflessione sui dati raccolti emerge la necessità di considerare il feminist data activism come un panorama complesso e molto variegato. Da una parte, in alcuni casi appare in sostanziale continuità con esperienze più consolidate, che vanno da repertori istituzionalizzati in deontologia professionale (come nel caso del giornalismo d’inchiesta e del data journalism) a una sorta di “evoluzione naturale” dell’attivismo femminista anche in relazione alle più recenti esperienze digitalizzate. Dall’altra, troviamo nuove esperienze di attivismo che si sono palesate come single-issue, concentrandosi proprio sull’emersione dei gender data gaps e sulla rielaborazione dei dati in chiave (trans-)femminista.
Contrastare l’ingiustizia epistemica sui social network: il caso dell’attivismo contro la violenza ostetrica in Italia
Elena Ceccarelli
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia
L’espressione “violenza ostetrica” indica un insieme di abusi e comportamenti irrispettosi subiti dalle donne durante il parto in struttura. Il fenomeno ha ottenuto visibilità in Italia dal 2016, grazie alla campagna Facebook #Bastatacere, promossa da Human Rights in Childbirth in Italy. La discussione sul tema è oggi alimentata soprattutto da attiviste, che sui propri profili social parlano di nascita e maternità. Per numero di follower (20K) e centralità della violenza ostetrica, risulta particolarmente rilevante la community Instagram “mammeanudo”, gestita dalla dottoressa Sasha Damiani. Confrontando questo progetto con la campagna del 2016, il presente contributo intende evidenziare vantaggi e limiti dell’attivismo digitale contro la violenza ostetrica.
Il ricorso al concetto di ingiustizia epistemica consentirà di leggere le iniziative come tentativi volti a riabilitare l’agency epistemica delle vittime, messa in dubbio nei contesti sanitari. L’ingiustizia epistemica consiste in un torto rivolto alle capacità conoscitive di un individuo e basato su pregiudizi inerenti alla sua identità sociale. L’ingiustizia può riguardare la credibilità del soggetto in quanto testimone (ingiustizia testimoniale) o l’assenza di risorse ermeneutiche, che impedisce un’adeguata interpretazione delle proprie esperienze (ingiustizia ermeneutica) (Fricker, 2007). Il concetto è stato recentemente applicato allo studio della comunicazione in Rete. Alcune ricerche hanno dimostrato le potenzialità del Web nel fornire visibilità a soggettività epistemicamente emarginate, esaminando specifici casi studio: attivismo contro la violenza di genere (Salter, 2013; Cayli Messina, 2022; Jackson, 2018, 2023), lotta a pregiudizi e privilegi (Frost-Arnold, 2019), ricerca educativa open-access, (Quantz, Buell, 2019), iniziative di blogging e vlogging portate avanti da persone transgender e disabili (Cavar, Baril, 2021) e da donne con patologie invisibili (Groenevelt, De Boer, 2023). Altri studi hanno evidenziato come lo stesso Web possa generare nuove forme di ingiustizia e amplificare quelle già esistenti, a causa della classificazione e della targhettizzazione operate dagli algoritmi (Stewart, et al., 2022), dell’opacità del loro funzionamento e della scarsa consapevolezza della policy delle piattaforme da parte degli utenti (Origgi, Cirinna, 2017), nonché per via del design intrinsecamente discriminatorio di queste ultime (Groenevelt, De Boer, 2023). Il “collasso del contesto” (Marwick, Boyd, 2010) online incentiva poi l’appropriazione e l’uso indebito della terminologia dei gruppi marginalizzati, privandoli così di importanti strumenti interpretativi (Allen, 2023).
Nel quadro delineato, #Bastatacere e “mammeanudo” costituiscono utili casi studio per vagliare l’uso della categoria di ingiustizia epistemica in riferimento ai social media. Diversi contributi teorici hanno sottolineato il legame fra ingiustizia epistemica e violenza ostetrica (Cohen Shabot, 2019; De Barros Gabriel, Guimarães Santos, 2020; Chadwick, 2019, 2021a, 2021b), sostenendo che il personale ospedaliero mette in discussione l’attendibilità epistemica delle partorienti sulla base di un duplice pregiudizio: (1) la minor credibilità attribuita al genere femminile e (2) l’invalidazione delle affermazioni delle partorienti sul proprio corpo, in un contesto in cui domina l’autorità del sapere medico (Freeman, 2015; Cohen Shabot, 2021). Si cercherà pertanto di capire se è opportuno parlare di ingiustizia epistemica in relazione alle due iniziative, verificando in esse la presenza di riferimenti alla scarsa considerazione del parere e della volontà della partoriente, e se questa è motivata (1) dal suo genere o (2) dall’autorità del sapere medico. Si procederà quindi effettuando un’analisi qualitativa del contenuto su un campione selezionato di post e commenti tratti dalle due iniziative. La stessa metodologia sarà impiegata per capire se le strategie comunicative adottate dai casi studio selezionati sono prevalentemente orientate “all’interno” o “all’esterno”, ossia a creare solidarietà fra i membri della community o a influenzare l’agenda setting (Kaiser, Rauchfleisch, 2019). Si ipotizza che la comunicazione di #Bastatacere sia rivolta in entrambe le direzioni, mentre quella di “mammeanudo” sia sbilanciata verso l’interno, determinando una diversa capacità di questo progetto di produrre cambiamenti dell’agenda setting.
Oltre i generi: tra paradossi, rappresentazioni e singolarismi
Silvia Cervia
Università di Pisa, Italia
Riflettendo attorno alle rappresentazioni di genere il contributo intende proporre una lettura dei processi di pluralizzazione, moltiplicazione e, più recentemente, destrutturazione delle rappresentazioni di genere all’interno dei processi di singolarizzazione/singolarismo (Martuccelli 2010, Reckwitz 2020).
Nel tematizzare la riflessione il contributo considera come il genere sia entrato prepotentemente all’interno del discorso pubblico divenendo, nel nuovo millennio, uno dei contested-concept attorno ai quali si concentrano dispute anche molto accese.
L’assunto originariamente acquisito come un dato, ovvero l’articolazione binaria uomo-donna, è stato progressivamente problematizzato, rivelando i limiti sia della semplificazione di una costruzione che assume a proprio fondamento l’esistenza di due categorie dotate di relativa omogeneità interna sia del binarismo in sé, favorendo lo sviluppo di approcci intersezionali e consentendo l’emersione di generi multipli e fluidi.
L’istanza del superamento delle diseguaglianze di genere si è così tradotta, alle nostre latitudini, in discorsi permeati dal paradigma del degendering che trova nella degenderizzazione linguistica – con la promozione del ricorso a pronomi neutri, l’introduzione di segni grafici in sostituzione delle desinenze maschili o femminili (cfr. *, ǝ, pl. ɜ) o di bagni gender-neutral – la principale arma per ridurre i pregiudizi di genere e le distinzioni binarie (Liu et al 2018). In breve, si assume che se non è possibile distinguere le persone in categorie fondate sul genere, diventa difficile trattarle in modo diverso. Una prospettiva che alimenta una dialettica accesa tanto nel dibattito scientifico che in quello pubblico.
Se nell’ambito del dibattito scientifico tali posizioni possono essere ricondotte al femminismo post-strutturalista, che sostiene la necessità di superare l’identità di genere tout court promuovendo politiche capaci di sovvertirne la sostantività (Butler 2013 [1990]), non mancano voci critiche che evidenziano come le pratiche di decostruzione delle narrazioni (ancorché naturalizzanti) rischino di oscurare, rafforzandoli e alimentandoli, i processi di diseguaglianze sociali (c.d. regendering) finendo per invisibilizzare sia la(e) storia(e) delle donne sia le dinamiche di esclusione e marginalizzazione sociale specificamente legate al genere (Lorber [2021] 2022).
Nell’ambito del dibattito pubblico le istanze di degendering si intersecano con la politica delle identità, offrendole nuovo alimento (Moran 2020); un’intersezione che è stata utilizzata per attualizzare il c.d. paradosso di genere (Lorber 1995 [1994]) che rileva il persistere delle diseguaglianze di genere a fronte di una crescente messa in discussione del binarismo di genere (Lorber 2022 [2021]). Un paradosso che affonderebbe le proprie radici nel “ribellismo individualistico” della molteplicità delle emergenti identità multiple e non binarie, incapaci di riconoscersi come alleate per dar vita ad “un terzo genere” (Ivi, p.153).
Ma perché le identità multiple e non binarie sono “incapaci di riconoscersi come alleate” (Ibidem)? Perché i processi di mobilitazione attorno al genere non convergono attorno alla costituzione di un “terzo genere” quale “casa comune” di riconoscimento? E questa connotazione è compatibile, ed eventualmente come, con le istanze che “vogliono bandire le identità di genere per intero” (Lorber 2022 [2021], p.153)?
Il contributo intende tematizzare queste domande leggendo i processi performativi delle identità multiple e non binarie alla luce dell’affermarsi della logica del particolare come logica sociale delle società tardo moderne. Una logica che emerge in tutte le sfere sociali (dalla produzione al consumo, dalle istituzioni ai legami sociali) coinvolgendo il processo di significazione del sé e del legame sociale. Confrontando due diverse letture dell’emergere delle singolarità, la singolarizzazione di Martuccelli (2010) e il singolarismo di Rekwitz (2020), il contributo propone di considerare le performance multiple e non binarie come espressione della prima tendenza e, al contempo, recupera la lettura culturalista di Reckwitz per interpretare le dinamiche radicalizzazione e polarizzazione all’interno del dibattito pubblico, in cui le performance fluide alimentano la frattura tra ipercultura ed essenzialismo culturale.
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