Migrazioni e pratiche artistiche: teorie, interventi, processi
Chair: Valentina Fedele
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Introduzione
Dopo la “crisi migratoria” del 2015-2016, si sono diffuse analisi concentrate sulla relazione tra migrazioni e le pratiche artistiche, declinata sia come strumento nei processi di emersione e superamento delle esperienze traumatiche (McGregor e Ragab 2016; Rose e Bingley 2017; Kalmanowitz e Rainbow 2016), che come possibile terreno di costruzione di forme di comunicazione interculturale che sfida narrazioni egemoni (Holle, Rast e Ghorasci 2021; Catalani 2021). A partire da questi studi, il panel raccoglie tre contributi con diversi approcci disciplinari, riferiti contesti ed esperienze migratorie differenti, che sostengono, però, la riflessione sul rapporto tra migrazioni e arti/pratiche artistiche, con specifico riferimento alla possibilità che queste rappresentino un’approccio euristico utile, che, permettendo di abbracciare le molteplici dimensioni che ne attraversano gli spazi - di partenza, attraversato, di arrivo - riescono anche ad intravederne, forse anticiparne, la potenzialità trasformativa, nell’impatto sociale, identitario, culturale.
Sotto il primo profilo, elementi costitutivi dell’arte emergono come aspetti rilevanti nell’elaborazione dell’esperienza migrante. Le pratiche artistiche sono connesse alla manualità, a un coinvolgimento fisico nel processo di creazione, che materializzando l’esperienza agisce sull’abilità di regolare le emozioni. Le emozioni trasferite in un artefatto, infatti, “cominciano ad occupare uno spazio fisico fuori dall’individuo, possono essere sentiti, ci si può interagire, e, dunque, potenzialmente determinarne il cambiamento" (Kalmanowitz e Rainbow 2016: 60). La dimensione fisica della pratica artistica non esaurisce però il processo di creazione, sollecitando quella che Knill, Levine e Levine (2005: 83) chiamano la logica dell’immaginazione: in tal modo, l’arte facilita l’espressione catartica, trasformativa, che sostiene la rielaborazione di emozioni legate ai traumi e delle memorie inconsce. Tale processo di coscientizzazione è fondamentale nella costruzione di percorsi di riconoscimento e auto-riconoscimento (Honneth 2002), soprattutto quando agevola direttamente o indirettamente lo storytelling (McGregor e Ragab 2016; Holle, Rast e Ghorasci 2021), creando uno spazio in cui, richiamando Halbwachs (2007), le memorie individuali dei migranti e delle migranti contribuiscono alla sedimentazione di memorie collettive della migrazione - la possibilità, dunque, di sviluppare una comprensione e una riflessività specifica - ma anche alla rielaborazione di nuove memorie sociali.
Sotto il secondo profilo, l’arte migrante interroga direttamente la dimensione pubblica dell’arte (Adorno, 1984; 1994; Benjamin 1985; 1992), mostrando una potenzialità comunicativa non convenzionale in grado di mettere in discussione in modo non discorsivo, narrative egemoniche (Young 2001). La dialettica tra arte e società costituisce quello che O’Neill (2008) chiama uno spazio in between tra sentire soggettivo e realtà oggettiva, uno spazio potenziale di negoziazione, che nutre la percezione creativa, uno spazio liminale (Holle, Rast e Ghorasci, 2021), transizionale, di doppia assenza ma anche di doppia presenza culturale (Cava, 2014), che coinvolge tanto i paesi di origine, quanto quelli di destinazione. La dimensione pubblica dell’arte migrante costruisce di entrambi una potenziale ibridizzazione, che si nutre dei processi di comunicazione contemporanei, delle eterogenizzazioni e delle connessioni dell’immaginario. Da questo punto di vista, l’opera degli artisti e delle artiste migranti nella sua dimensione pubblica rappresenta una sfida interpretativa. Martiniello (2015: 1230) distingue a tal proposito due principali assi: l’“artistic metissage”, che si concentra su come i migranti, ma anche le minoranze etniche, ispirino le produzioni artistiche alla loro esperienza di vita; e la critica alla sfera culturale, considerata un ulteriore momento di confisca e incorporazione. è possibile, però, una terza prospettiva, che mantiene insieme l’agency dell’individuo e la capacità trasformativa dell’arte, rispetto alla globalità e multi-polarità dell’esperienza migratoria, considerando la potenzialità di cambiamento rispetto agli spazi culturali attraversati: l’ arte migrante non è, infatti, solo arte sulla migrazione, ma anche arte dalla migrazione, attraversa temi diversi - amore, bellezza, territorio - di cui propone nuove forme interpretative, rappresenta temi nuovi, che cambiano il panorama culturale dei paesi di accoglienza.
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1. Approssimazioni di frontiera: pratiche artistiche per costruire soggettività resistenti.
Fabrizio Di Buono, FLACSO Argentina
Le migrazioni comportano un processo di approssimazione tra luoghi, culture, società e individui, tra loro distinti, che, in mancanza di un’interazione tra questi punti che si muovono con le persone, presuppongono una desoggettivazione obbligata o una soggettivazione passiva della persona migrante. Franco Cassano (1989), a tal proposito, mette al centro il verticalismo gerarchico che sorge quando una persona (o un sistema) denomina la propria alterità, vale a dire modella e immagina l’altro, senza che questi possa avere una propria soggettività: “ogni soggetto pone sé stesso come centro del mondo spingendo gli altri sullo sfondo, facendoli diventare ambiente, talvolta inquieto e pericoloso per la sua stabilità” (2023, p. VIII). Per evitare ciò, suggerisce, occorre vivere l’esperienza dell’altro: “un esercizio di decentramento, di indebolimento della nostra chiusura in noi stessi” (2023, p. VIII). L’arte ci offre un terreno di espressione e enunciazione, dove l’anthropos (l’altro) può far emergere la propria soggettività, disfarla e costruirla, compiendo una disidentificazione attraverso altre forme di abitare il proprio quotidiano. Il tessuto sociale contemporaneo, infatti, è soggetto a continue tensioni distruttive che portano alla “demolizione di un orizzonte di comprensione comune” (Steyerl, 2018, p. 33), lasciando spazio a insiemi di storie artificiali, verticistiche, ritagliate e parziali. Pertanto, diventa necessario elaborare istanze e pratiche di narrazioni collettive che mettano al centro la partecipazione e la pluralità dello spazio sociale, per far emergere quelle narrazioni soggiacenti al modello dominante, esprimendo e abitando lo spazio con significati e valori alternativi (Williams, 1977). Mouffe (2014) sostiene che “l’obiettivo delle pratiche artistiche dovrebbe essere quello di sostenere lo sviluppo di queste nuove relazioni sociali che sono possibili attraverso la trasformazione del processo di lavoro. Suo compito principale è la produzione di nuove soggettività e l’elaborazione di nuovi mondi” (2014, p. 95). Creare soggettività dall’arte permette agli individui, inseriti nel vortice di una società capitalista finanziaria, di attuare pratiche di disidentificazione (Vich, 2021), ripensando le forme nelle quali sono stati socializzati e costruiti come soggetti. Nei territori di arrivo, i migranti sono oggetto di una specifica condizione sistemico-normativa che risponde alla “gerarchizzazione razziale della società” (Quijano, 2000). Le politiche migratorie dei paesi d’accoglienza riducono il migrante in un formato preimpostato, fatto di schede da compilare e programmi da seguire per il migrante, che ne modellano l’esperienza futura e presente. In questo contesto, le pratiche artistiche possono desoggettivizzare la costruzione sociale eterodiretta e
sostenere la costruzione di nuove soggettività collettive a partire dalla propria esperienza, ma soprattutto dal loro sentire e pensare, esprimendo non solo una visione del mondo, bensì una “sensibilità del mondo” (Mignolo, 2011). Tutto ciò produce effetti collettivi sullo spazio sociale e politico abitato da supposti “noi” e “altri”, mettendo in crisi questa costruzione dicotomica della società. Concentrandosi sull’esperienza della costruzione del “mapeo coletivo” (Iconoclasistas, 2008) in Argentina, il saggio riflette sui processi di soggettivazione che si attivano attraverso le pratiche artistiche, in riferimento alle persone migranti della comunità paraguayana, e permettono l’apertura dell’individuo rispetto al processo di socializzazione iniziale, includendo l’alterità del mondo esterno. I contesti della diaspora mettono in crisi la formazione originaria del soggetto, sottoponendolo a una sfera sensoriale, sentimentale e razionale in movimento, cambiante e incerta, dove il linguaggio di destinazione e quello incorporato entrano in collisione. Così come la normativizzazione del processo d’inserimento del migrante entra in contrasto con l’esperienza del soggetto in questione, rendendolo subalterno al contesto d’arrivo. Le pratiche artistiche spingono verso il contatto con questa alterità, attraverso un processo ditraduzione che va oltre le frontiere linguistiche, bensì effettuano un processo di coscientizzazione bidirezionale che va dal contesto verso il migrante e dal migrante verso il contesto di accoglienza.
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2. L’uso della Teatroterapia e dei Narrative Therapy Groups per ricucire le fratture identitarie dei minori stranieri non accompagnati.
Bonadies Simonetta; Polito Alberto, Università della Calabria
Una vasta letteratura scientifica (E. Cantor-Graee, J.P. Selten, 2005) rileva quanto l’esperienza migratoria sia correlata alla salute psicofisica. Infatti, se da un lato la migrazione può rappresentare un’evoluzione individuale e contribuisce ad ampliare le opportunità di agency del singolo, dall'altro essa espone il migrante a fattori di rischio. La separazione dal proprio contesto familiare e sociale, la perdita di sistemi di supporto, l’esistenza di barriere linguistiche e culturali, le difficili condizioni socioeconomiche, i traumi subiti prima e durante il percorso migratorio, lo stress e la sofferenza dovuta all’esilio in una terra sconosciuta e, spesso, alla presenza di condotte discriminatorie nei Paesi di destinazione, contribuiscono alla “fragilizzazione” della popolazione migrante, anche rispetto allo sviluppo di forme di disagio mentale (M. Aragona et al. 2013). Nel caso specifico dei Minori non Accompagnati questi processi incidono su specifiche fratture identitarie nella formazione stessa dei soggetti, considerata la specifica fase evolutiva. Antropologi e storici hanno dimostrato come l'esperienza e il concetto di adolescenza varino a seconda dei contesti storici e socioculturali (P. Ariès, 1968; A. Cunningham, O.P. Grell, 2017) e, pertanto, la percezione di sé stessi come adolescenti e la percezione dei compiti evolutivi da affrontare in questa fase. Questa diversità, però, non è riconducibile ad una semplice differenza fra culture: è necessario, infatti, considerare i fattori politici, sociali ed economici che producono povertà, diseguaglianza e guerre, plasmando l’esperienza dell’adolescenza. Indipendentemente dalla cultura e dalla società di origine, questa è comunque un passaggio verso il mondo degli adulti e una legittimazione alla partecipazione piena alle dinamiche societarie. Il viaggio migratorio comporta, al contempo, un cambiamento dello status socioculturale costituendosi come vero e proprio rito di passaggio. Michael White (1992) identifica tre fasi attraverso cui si sviluppano i riti di passaggio: fase di separazione, fase di margine, fase di re-incorpora- zione. Nella prima fase l'individuo viene separato dal contesto in cui si trova (contesto di origine), nella seconda attraversa un passaggio simbolico che rappresenta il culmine del rito (viaggio), nella terza viene reintegrato nella società e nella sua identità con un nuovo status sociale (nuova identità all’interno del nuovo contesto sociale).
Il contributo si concentra sull’esperienze narrative attivate in un centro di accoglienza per minori non accompagnati in Calabria attraverso la Teatroterapia e la Terapia narrativa. Queste ultime si di- mostrano strumenti psicologici trasversali a tutti i linguaggi e si costituiscono come forma espressi- va capace di rappresentare la realtà e i suoi diversi linguaggi (poetico, narrativo, musicale, pittorico, corporeo), la storia, il presente, il passato, il futuro, il sogno, la fantasia, l’immaginazione. Proprio per questo rappresentano una modalità alternativa e nuova di presa in carico dei migranti ed in par- ticolare dei minori che hanno l’opportunità di creare nuovi percorsi di sperimentazione di sé stessi e delle proprie capacità e risorse, cercando al contempo di rileggere, rinarrare e dare un significato nuovo e univoco ai molteplici cambiamenti che essi hanno vissuto durante il percorso migratorio. Il lavoro sulle proprie narrazioni, sul recupero del proprio potere personale di cambiamento e sul processo di autodeterminazione diviene in questi casi un lavoro essenziale da compiere insieme a professionisti capaci di cogliere i significati culturali divergenti portati dalle persone. L’uso della Teatroterapia e dei Narrative therapy groups è risultato particolarmente utile per migliorare la percezione del benessere psicologico dei MSNA all’interno dei centri di accoglienza, favorendo la mediazione dei conflitti e l’espressione delle proprie emozioni, la costruzione della propria identità, una maggiore consapevolezza delle proprie capacità sociali e relazionali in un contesto interculturale.
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3. Pratiche estetiche di resistenza
Gabriele Leone, Gratz Universitat
Il contributo riflette sulle pratiche artistiche collegate alla diaspora curda in relazione a varie espe- rienze di resistenza politica (Eccarius-Kelly, 2020; Toivanen, 2021; Hussain, 2022) a partire dall’analisi di alcune espressioni grafiche del “Kurdistan diasporico”, selezionate in Austria nelle città di Innsbruck e Graz. La diaspora curda ha spesso espresso la propria identità culturale e politica tramite la creazione di murales o arte di strada. I murales sono una forma di espressione popolare per molte comunità della diaspora, utilizzati per affermare la propria identità e presenza negli spazi pubblici superando i filtri comunicativi classici imposti dalle normali agenzie informative. Nel contesto della diaspora curda, i murales spesso raffigurano immagini legate alla cultura, alla storia e alla lotta politica curda (Eliassi, 2016), con l’obiettivo anche di sensibilizzare l'opinione pubblica sulla causa curda e a sfidare le narrazioni e le rappresentazioni dominanti del popolo curdo, che risentono di una lettura occidentalo-centrica della “questione curda” (Meiselas, 2008; Galip, 2015; Mohammadpour & Soleimani, 2019). Questa ha spesso prevalso incidendo, in particolare, sulla frammentazione dei curdi, un elemento sfruttato in accezione coloniale anche dagli stati ospitanti imponendo ad essi una valutazione riduttiva. Questa valutazione operata attraverso l’ottica coloniale è stata pienamente accolta dai neonati stati nazionali dell’area mediorientale che in nome della difesa dell’unità della patria hanno applicato contro le tribù e il tribalismo un emergente discorso
di biopolitica razziale, in virtù della quale si individua la resistenza etnica come affermazione di
tribalismo e di premodernità: “da ciò deriva la lotta tra lo Stato, rappresentante della modernità secola- re, e l’identità curda, somma di tribalismo e banditismo.” (Mohammadpour & Soleimani, 2019:134). La valutazione della “questione curda” secondo l’ottica etno-nazionalista tende ad indi- viduare ogni richiesta di riconoscimento culturale come reazionario e dannoso per l’unità del popo- lo (Mohammadpour & Soleimani, 2019). Nonostante la nuova ottica della teoria sociale post-colo- niale che non vede nel termine tribù e tribale un’accezione negativa, l’utilizzo del lemma impone una tendenza alla marginalizzazione e alla costruzione di categorie come razza, nazione, etnia e cit- tadino.
Da questo punto di vista le pratiche artistiche nella diaspora, nello specifico la street-art possono rappresentare una contro-rappresentazione e narrazione pubblica della questione curda, anche al di là di espressioni legate a gruppi politici limitati o di celebrazioni folkloristica di momenti rievocati- vi come il Newroz. Tale rappresentazione può passare anche attraverso sporadiche e individuali forme iconiche che vengono consegnate come messaggi grafici sui bordi delle strade da ignoti wri- ters. Esse recano spesso simboli e richiami ad una esortazione di lotta il cui significato politico si condensa in una immagine che tanto più è efficace tanto più è cruda.
Le pratiche estetiche di resistenza pur nella loro saltuarietà e particolarità riescono ad avere un rit- mo che valica il transitorio e si pone come protagonista di una iterazione rivoluzionaria. Il graffito, il canto, la pittura assumono un valore che, superando la fugacità e la caducità dell’effimero, si pro- pongono come atto che, pur individuale, diviene poiesis collettiva (Butler, 2023). Queste considera- zioni richiamano il concetto di “spazio di apparenza” (Arendt 2017) che non coincide né con un luogo né con una infrastruttura, in cui si genera qualcosa di nuovo per esercitate una poiesis collet- tiva. Questo “spazio di apparenza” esprime un potere creativo che nasce dallo scarto delle differen- ze e si impone come potere di libertà, come espressione di un momento estetico in cui le varie istanze acquisiscono tangibilità (Butler, 2023). Le “pratiche estetiche di resistenza” della comunità diasporica curda svolgono un ruolo importante anche nelle relazioni madre patria-diaspora (Délano & Gamlen, 2014), mostrando un impatto significativo sulle strategie e sulle tattiche utilizzate dalla popolazione curda nella lotta per l'autonomia o l'indipendenza (Schiller, 2005).