Costanza e creatività per accettare l’inevitabile. I content creator e l’insicurezza algoritmica
Camilla Volpe
Università degli studi di Napoli Federico II, Italia
La precarietà di cui il post-fordismo è intriso ha assuefatto i giovani adulti a un sistema di insicurezza, abituandoli a non aspettarsi stabilità dal punto di vista economico, lavorativo e sociale. Tale condizione di pervasiva provvisorietà permea vari aspetti della vita dei giovani adulti, che si trovano ad affrontare circostanze progressivamente difficili in diversi ambiti. Questi individui, socializzati all'interno di un contesto neoliberale, hanno imparato a navigare le molte sfide attraverso vari meccanismi di coping. Negano, infatti, la precarietà e accettano con rassegnazione l’ordine corrente, vivono con difficoltà il confronto sociale, cedono a lavori non retribuiti o pagati male e soffrono di disturbi psicologici.
In questo panorama di incertezza, le piattaforme digitali sono emerse come un nuovo strumento di connessione e comunicazione, e sono divenute da una parte un modo per sopperire all’insicurezza lavorativa, dall’altra ambiente fertile per una serie di attività economiche a basso capitale e alta manodopera che Arvidsson definisce “industriose” (2019). Tra le varie piattaforme utili per galleggiare la precarietà, occorre segnalare la funzione di personal branding dei social network, che offrono diverse opportunità per espandere la propria rete di relazioni e connessioni, favorendo l'accumulo di capitale sociale. I più grandi accumulatori di capitale sociale (reputazionale, per essere precisi) sui social sono, per definizione, gli influencer.
Questo lavoro parte dell’assunto che sarebbe piuttosto semplicistico limitare lo studio delle dinamiche dei social media al caso degli influencer e che, pur volendo considerare gli utenti che si fanno notare di più, questi non vogliono necessariamente diventare Chiara Ferragni o Kim Kardashian. Esiste, infatti, un nutrito sottobosco di utenti che non accumulano capitale reputazionale per ottenere entrate dirette dalle piattaforme: i micro-influencer.
L’obiettivo che questa ricerca si pone è quello di indagare la percezione che i micro-influencer hanno in merito al rapporto tra la loro produzione di contenuti e l’azione della piattaforma su cui postano. Ci si concentrerà su attori del campo del second-hand e del vintage (settore già particolarmente industrioso nella sua componente analogica) che postano su due delle più importanti piattaforme di social network dell’Occidente – Instagram e TikTok. La domanda di ricerca si basa sull'assunto che le piattaforme esercitano un'influenza assertiva unidirezionale, non soggetta a negoziazione, fornendo uno spazio che, tuttavia, è rigidamente vincolato alle loro condizioni predeterminate e vuole, quindi, indagare le conseguenze che questa unidirezionalità ha sui micro-influencer.
Lo studio utilizza una metodologia qualitativa basata su interviste a micro-influencer del second-hand e vintage su Instagram e/o TikTok. I partecipanti sono stati selezionati tramite snowballing. Le interviste semi-strutturate esplorano le loro esperienze, opinioni e percezioni.
L'ipotesi, già supportata dai risultati preliminari, suggerisce che questi giovani adulti abituati all’insicurezza cronica tendano ad accettare in modo passivo le regole totalitarie imposte dalle piattaforme. Essi riconoscono l'imprevedibilità algoritmica come un aspetto intrinseco della propria realtà sociale e professionale, reagendo in conformità con le norme sociali predominanti, dunque intensificando i loro sforzi lavorativi. Il loro meccanismo di adattamento consiste nell'allinearsi con i presunti meccanismi della piattaforma (ad esempio pubblicando almeno tre video al giorno su TikTok). Questa condizione di difficile gestione spinge numerosi content creator a raccontare di stati di ansia o burnout legati alla cura dei loro profili social. L'ordine algoritmico dall'alto verso il basso, iniquo e spesso per loro razionalmente inspiegabile, è parte di uno sfruttamento sistemico del lavoro, riconosciuto e passivamente accettato dai content creator che, anzi, sentono di venire meno quando non riescono a compensarvi abbastanza con i loro sforzi. “Alla fine”, confessano, “per avere successo sui social l’unica cosa che devi avere è la personalità e la costanza”.
Verso un professionalismo di piattaforma? Note a partire da una ricerca sulla piattaformizzazione dei servizi di cura
Francesco Bonifacio
Università Cattolica del Sacro Cuore, Italia
Buona parte di ciò che sappiamo sul lavoro di piattaforma proviene da un consolidato filone di ricerca nell’ambito della cosiddetta gig economy, che si è concentrato su settori di mercato nuovi – come quello del food-delivery (Bonifacio, 2023) – o scarsamente regolati – come quello dei freelance. I pochi studi che hanno preso in esame la piattaformizzazione delle professioni e del lavoro esperto tendono ad inquadrarla entro la retorica della disruptive innovation, intendendola cioè come un fenomeno capace di alterare le tradizionali logiche di funzionamento dei campi professionali, innescando processi di “de-professionalizzazione” (Haug, 1975). L’apertura caratteristica delle piattaforme digitali, infatti, tende ad erodere il valore di titoli e credenziali , mettendo in discussione il monopolio del “sapere esoterico” su cui si fonda l’autorità dei gruppi professionali (cfr. Maestripieri & Bellini, 2023). Ad esempio, la verifica dei titoli necessari per svolgere un dato servizio professionale avviene successivamente all’ingresso dei professionisti in piattaforma. Non viene svolta dalle figure normalmente accreditate alla valutazione, ma è demandata agli utenti attraverso i sistemi di rating e ranking alla base del cosiddetto management algoritmico (Stark & Pais, 2020). Inoltre, la centralità dei sistemi reputazionali assegna ai clienti un ruolo quasi-manageriale (Healy & Pekarek, 2023), producendo un parziale slittamento dal credenzialismo alla reputazione quale sistema di riferimento (Pais et al., 2023) e riequilibrando le asimmetrie di potere alla base della relazione fra professionisti e clienti.
Per contribuire a questo dibattito, il presente contributo indaga i processi di piattaformizzazione in corso in alcune aree del settore sanitario, attingendo ai risultati del progetto di ricerca WePlat: Welfare Systems in the age of platforms (https://www.weplat.it/). In particolare, il contributo intende confrontare i risultati dell’analisi condotta su tre piattaforme digitali nate ed attive in Italia che erogano, rispettivamente: 1) servizi di psicologia online; 2) servizi di teleconsulto medico; 3) servizi sanitari e socioassistenziali a domicilio. I casi esaminati sono accomunati da un più alto grado di strutturazione rispetto al modello classico delle piattaforme digitali.
Non si limitano ad aggregare profili professionali, rendendoli visibili e ordinandoli secondo logiche reputazionali, ma esercitano un controllo diretto su una serie di processi – dalla selezione dei professionisti alla valutazione, fino alla definizione delle tariffe – finalizzato a standardizzare la qualità dei servizi offerti e la facciata dei professionisti. Le piattaforme analizzate non producono semplicemente una disintermediazione dei campi professionali, ma si relazionano in maniera più o meno conflittuale con le logiche che governano tali campi, sia introducendo importanti elementi di novità, sia adattandosi a contesti socioeconomici specifici e allineandosi a dinamiche preesistenti. In particolare, si registrano quattro dinamiche particolarmente significative:
1) Le piattaforme convalidano il valore del capitale culturale istituzionalizzato (Bourdieu, 2015) sotto forma di titoli e credenziali quale criterio di accesso ai campi professionali. Tuttavia, ne riducono il potere di stratificazione;
2) Le piattaforme moltiplicano il capitale sociale dei professionisti, ma lo accumulano al proprio interno, costruendo relazioni di dipendenza economica (Schor et al., 2020).
3) Le piattaforme costruiscono un “discorso professionale” (Evetts, 2006) per consolidare la propria reputazione, ma riducono l’autorità dei professionisti, sia attraverso sistemi reputazionali algoritmici, sia attraverso più convenzionali forme di controllo gerarchico;
4) Le piattaforme riconfigurano il contenuto del lavoro professionale, contribuendo all’istituzionalizzazione di nuove pratiche – ad esempio, la psicoterapia online – su cui rivendicano una giurisdizione esclusiva.
In conclusione, l’obiettivo del presente studio è quello di inquadrare i processi di piattaformizzazione oltre l’idea di una innovazione disruptive. Intendendo le piattaforme come agenti organizzativi, e non semplicemente come tecnologie, il presente contributo analizza il modo in cui riconfigurano i campi professionali in cui operano, riarticolandone i saperi istituzionalizzati, le dinamiche di potere e le logiche di stratificazione.
Tra autenticità e omogeneizzazione visiva: l'estetica del lavoro neo-artigianale su Instagram
Alessandro Gandini, Gaia Casagrande, Giulia Giorgi, Gianmarco Peterlongo, Marta Tonetta
Università degli Studi di Milano, Italia
L'obiettivo di questo contributo è indagare le estetiche del lavoro "neo-artigianale" su Instagram e la relazione che intercorre tra le pratiche di produzione culturale e visuale tipiche di questo lavoro, da un lato, e le logiche e i linguaggi della produzione culturale su piattaforma dall’altro.
Secondo Manovich, viviamo in una società "estetica", dove "la produzione di belle immagini è centrale per il nostro funzionamento economico e sociale" (2019: 3). Instagram, più di altri social media, ha contribuito all'estetizzazione dei momenti quotidiani attraverso una grande varietà di funzioni per l'editing di immagini e video, tra cui filtri ed effetti. Alcune delle estetiche distintive di Instagram, come lo stile minimalista o quello retro-nostalgico, hanno guadagnato una grande popolarità tra utenti, creatori di contenuti e piccole e grandi aziende che pubblicizzano i loro prodotti sulla piattaforma (Boy & Uitermark, 2024). Il lavoro “neo-artigianale” o “neo-craft” - una nuova forma di lavoro post-industriale che consiste nella “artigianalizzazione” di alcuni lavori manuali, tradizionalmente associati alla working class (Ocejo, 2017), che vengono “risignificati” attraverso un processo di produzione discorsiva caratterizzato da forme di “distinzione marginale” basate sull'autenticità e sulla "particolarizzazione" (Gandini e Gerosa, 2023) - rappresenta un caso di studio ideale per l’osservazione di questo processo. Le piattaforme di social media, in particolare Instagram, sono fondamentali per attualizzare questo processo di risignificazione discorsiva che è emblematico di questa nuova forma di lavoro.
Al fine di individuare i modelli estetici ricorrenti attraverso cui i lavoratori e le lavoratrici in questo settore presentano se stessi ed il loro lavoro su Instagram, abbiamo effettuato un'analisi visiva qualitativa (Aiello e Parry, 2020) di 346 account Instagram di attività neo-artigianali con sede nell'Unione Europea, raccolti secondo un approccio digital methods (Caliandro e Gandini, 2019). I risultati indicano che un alto grado di omogeneizzazione estetica caratterizza queste attività, indipendentemente dalla loro posizione geografica e dal tipo di business e nonostante l’autenticità sia un valore centrale del lavoro neo-artigianale (Gandini e Gerosa, 2023). I profili Instagram analizzati presentano caratteristiche molto simili, con analogie di colori e tropi; le immagini di laboratori, studi o locali di lavoro sono presentate con uno stile visivo comune e una ricorrenza di componenti simboliche che sembrano parlare lo stesso linguaggio visivo. Allo stesso tempo, la presentazione del prodotto impiega forme e colori specifici che richiamano uno stile minimalista; i loghi e i caratteri utilizzati dagli artigiani sono simili tra loro, richiamando elementi vintage, luoghi specifici e una generica allure postindustriale di stampo hipster (Gerosa, 2024).
Sulla base di questa analisi, è possibile rilevare la dimensione paradossale che caratterizza questo fenomeno, che può essere letta in due direzioni interpretative diverse e complementari tra loro. Da un lato, osserviamo empiricamente il potere estetico omogeneizzante delle piattaforme di social media rispetto al display di pratiche culturali e materiali eterogenee e talvolta molto distanti tra loro. Nel contempo, emerge come le imprese artigiane debbano a un tempo differenziarsi dai loro concorrenti ed essere percepite come parte della stessa scena culturale, con la conseguenza che i lavoratori e le lavoratrici neo-craft sono costretti a piegarsi alle logiche di piattaforma per esistere nel loro mercato di riferimento, agendo di fatto “forzatamente” come content creator digitali pur non avendone le competenze, o non essendo questo espressamente parte del proprio lavoro. Ciò conferma quanto suggerito da Jarrett (2022), secondo cui qualunque attività di lavoro, anche non direttamente legata alla sfera digitale o alla tecnologia, può subire un processo di piattaformizzazione - un processo di cui il caso del neo-craft è evidenza diretta.
L’economia dell’autenticità tra controllo capitalista e pratiche creative dal basso
Alessandro Gerosa
Birmingham Business School, Regno Unito; Gran Bretagna
L’avvento del ventunesimo secolo ha restituito ai prodotti artigianali un posto d’onore nella società post-industriale (Kroezen et al., 2021) nel cuore e nel palato dei consumatori. L’economia ‘hipster’ urbana, in particolare i settori del cibo e del bere, rappresentano l’epicentro di questo fenomeno (Ocejo, 2017). Chris Land (2018) definisce questo movimento come ‘neo-artigianale’, argomentando come la preservazione dell’immaginario tradizionale dell’artigianato si combini con una produzione innovativa e abile di prodotti di alta qualità. Basata su un corpus di 40 interviste semi-strutturate a micro-imprenditori neo-artigianali – proprietari di gourmet food trucks e bar e ristoranti - nella città di Milano, questa presentazione illustrerà la tesi per cui le industrie neo-artigianali si configurino come la manifestazione più pura di un regime estetico di consumo fondato sull’ideale dell’autenticità. Questo regime estetico di consumo è diventato paradigmatico del tardo capitalismo moderno nella sua configurazione postfordista (Amin, 1994) e, a livello concettuale e nella sua applicazione, deve sempre essere considerato nelle sue relazioni con specifici regimi di accumulazione di capitale e modi di regolazione (Aglietta, 1979), nel caso del postfordismo produzione flessibile (Harvey, 1989) e neoliberalismo (Harvey, 2007).
Da questa premessa, la presentazione si concentrerà sui sottili processi di controllo dall’alto e pratiche di resistenza creativa dal basso che caratterizzano le aspirazioni quotidiane degli individui verso forme di consumo – e di vita – più autentiche nel tardo capitalismo moderno. In particolare, analizzerà il rapporto dialettico tra essi tramite tre paradossi e contraddizioni intrinseche all’economia urbana hipster fondata sul paradigma dell’autenticità. Il primo di questi paradossi, focalizzato sulla dimensione di consumo, discute di come le grandi realtà industriali crescentemente tentino di attribuire ai propri prodotti tramite strategie di marketing un’aura ‘artificiale’ (cfr Benjamin, 1936) di autenticità e artigianalità tipica dei prodotti dell’economia neoartigianale, composta da piccole attività indipendenti. Sebbene queste ultime rappresentino un’alternativa più etica e spesso più attraente per gli individui, specialmente quelli appartenenti al ceto medio, il prodotto industriale dotato di un’aura artificiale rimane altamente più accessibile per larghe fasce della popolazione. La seconda contraddizione si concentra sulla dimensione produttiva e di intermediazione simbolica del lavoro neo-artigianale (Smith Maguire & Matthews, 2012). In essa, si analizzano le distinzioni operate dai lavoratori neo-artigianali, sopratutto nell’ambito dei food truck, rispetto ai colleghi considerati legittimi e quelli considerati più distanti dal proprio approccio, in termini culturali ed etici. La categoria comune identificata da essi come più distante da sé è quella di coloro che adottano la medesima estetica senza compiere i sacrifici derivanti dalla dimensione etica dell’economia neo-artigianale. Tipicamente, la figura ideal tipica che rappresenta questo modello sono coloro che vendono fritti ottenuti da materie prime comprate surgelate presso la grande distribuzione. La frittura consente di vendere materie prime industriali e di qualità scadente agli stessi prezzi delle preparazioni ottenute tramite ingredienti di qualità e coltivati eticamente da produttori locali. Tuttavia, i cibi fritti rivestono grande importanza nella tradizione culinaria italiana precisamente per la loro capacità di rendere gustose e appetibili anche materie prime secondarie e di scarsa qualità, tipiche della cucina popolare. Il terzo paradosso si concentra sull’impatto dell’economia hipster sullo spazio urbano, analizzando come le attività commerciali neo-artigianali si configurino allo stesso tempo come un’opportunità unica per il rilancio del commercio di vicinato, storicamente stretto tra grande distribuzione e e-commerce, guidato dalla volontà di creare un tessuto sociale basato su una visione mitizzata delle relazioni sociali autentiche del passato, e una minaccia mortale per la diversità del tessuto commerciale urbano e per la sostenibilità abitativa nei quartieri in cui si diffonde. In conclusione, la presentazione si concentra sulle implicazioni di tali contraddizioni.
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