Lo sport, quale fatto sociale totale (Mauss 1950), opera da sempre lungo un continuum caratterizzato dall’esigenza di perpetuare tradizioni, valori e costumi sociali radicati nella società, che vengono condivisi e consolidati tramite pratiche rituali (Dal Lago 2001), da un lato, e dal suo contributo in favore del cambiamento, della sperimentazione, della capacità di travalicare confini e superare limiti per rintracciare e diffondere approcci, strumenti e tendenze innovative che favoriscono il rinnovamento in una prospettiva di integrazione, comunione e benessere sociale, dall’altro. Non a caso le concezioni principali afferiscono, storicamente, al ruolo che lo sport assolve in favore della formazione e della regolamentazione sociale (Huizinga 1938, Elias 1939, Durkheim 1963, Elias & Dunning 1986, Vinnai 1970, Brohm 1992) dello sviluppo del capitale sociale (Putman 2000), della gestione di dinamiche di integrazione e inclusione sociale (Rowe 2007, Del Guercio 2016, Bifulco 2019, Maulini et al 2017, Ferrara 2021), del consolidamento e dell’affermazione di identità nazionali nel sistema geopolitico mondiale (Hoberman 1974, Russo 1998, Bielanski 2014, Brohm 2021). Al tempo stesso però, il fenomeno sportivo è divenuto una chiave interpretativa fondamentale per l’interpretazione delle dinamiche postmoderne del loisir (Germano, 2012), della ridefinizione dei legami sociali e delle spinte innovative di natura partecipativa che provengono dal basso (Pioletti & Porro 2013) o, meglio, dalla strada prima ancora che dagli ambienti digitali, nonché della promozione di principi di uguaglianza, pari opportunità, multiculturalità e pace. Questi ultimi sono considerati alla base delle democrazie moderne in una prospettiva polifunzionale. Del resto, i principi del rinnovamento vengono aggiornati e dettati dalle revisioni periodiche del Libro Bianco dello Sport prodotte dalla Commissione Europea. Essa interviene al fine di attualizzare le principali questioni sociali per concorrere al benessere delle collettività (Martelli & Porro 2018), stimolando anche forme di discontinuità rispetto al passato e alla tradizione laddove intercetta esigenze politiche, economiche, culturali, integrative, ecc. di particolare rilevanza. Queste istanze richiedono nuove modalità di intervento e nuove prospettive di gestione, coesione e relazione. In tale scenario, gli studiosi della Sociologia dello sport intendono interrogarsi sullo stato attuale della capacità dello sport di interpretare e rappresentare i fenomeni sociali. Sono, infatti, consapevoli che esso replica ed evidenzia tutte le contraddizioni dell’era contemporanea. Tra le principali derive che saranno discusse nel panel vi sono quelle relative alla mercificazione dell’eduzione fisica che produce significazioni distorte persino nell’ambito dell’attività sportiva nelle scuole, e ancor di più nelle dinamiche di lettura e interpretazione della corporeità. Quest’ultima soggiace a logiche di datificazione delle performance, spettacolarizzazione e di stereotipizzazione del corpo che ne alterano valori e significati collettivi. Il panel mostra anche le difficoltà scientifiche e operative legate al ruolo dello sport in ogni ambito della sfera sociale, con particolare attenzione a quello nel Terzo settore e sottolinea l’importanza di valorizzare la dimensione valutativa dello sport proprio per leggere e interpretare in una chiave proattiva sfide, cambiamenti e innovazione di settore e nella più società contemporanea. Tra i principali cambiamenti introdotti nella riflessione sociologica dell’ecosistema sportivo, da quasi un trentennio, la disciplina ha abbandonato la logica della ricerca scientifica mono disciplinare in favore di quella interdisciplinare che, secondo una prospettiva ecologica ed organica, ha maggiore probabilità di sistematizzare dati e orientamenti e di cogliere approcci e dinamiche (Burwitz, Moore & Wilkinson 1994, Glazier, 2017). Ma l’urgenza più attuale attiene alla necessità di superare modelli e pratiche che hanno mostrato la loro parzialità e inefficacia, come ad esempio, alcuni modelli di inclusione dello e nello sport, di formazione attraverso lo sport, a forme di vetrinizzazione e di commercializzazione esasperata, ecc. all’interno di un contesto sociale sempre più anestetizzato che tende ad accettare derive e devianze alla stregua di prassi inevitabili e immodificabili. Per questa ragione, i quattro paper che saranno oggetto di discussione in questo panel sono stati selezionati proprio perché riflettono su limiti e potenzialità del fenomeno sportivo quale agente di rinnovamento al fine di rintracciare gli elementi più virtuosi su cui la comunità scientifica può ridefinire le proprie chiavi di interpretazione dei fenomeni e concorrere al loro sviluppo in favore del benessere della collettività
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L’educazione fisica al mercato. L’attività sportiva tra scuola e organizzazioni private
Luca Bifulco (Università degli Studi di Napoli Federico II), Antonietta De Feo (Università Roma Tre)
La svolta neoliberista delle politiche educative nello scenario nazionale e internazionale (Ball 1998; Lawn 2006; Pitzalis, De Feo 2019) sembra immergere sempre più gli istituti scolastici in dinamiche concorrenziali, con un impiego crescente di pratiche di marketing e customizzazione indirizzate al cliente-studente. Non sembra casuale, in diversi casi, che anche l’attività sportiva extracurriculare possa rientrare in questa logica competitiva, in virtù della sua capacità attrattiva (Bifulco, Catone 2022). In modo ormai radicato in diversi contesti internazionali, ma secondo processi che tendono a svilupparsi anche in Italia, si assiste a fenomeni di esternalizzazione dell’educazione fisica scolastica a soggetti privati (corporations, imprese, associazioni, ecc.) o consulenti esterni. Il contesto socioculturale che accoglie queste dinamiche è contrassegnato dalla commercializzazione come dimensione prioritaria dell’organizzazione dello sport nel suo complesso e dall’incidenza della cultura dei consumi (Horne 2006) anche in ambito sportivo e nell’attività fisico-motoria. Parliamo di quell’impianto culturale secondo cui ogni cosa può essere in qualche modo mercificabile, in cui il mercato e i suoi operatori organizzano la prevalenza delle relazioni e dei processi di pubblico interesse, dove prevale la logica della responsabilità personale dell’attore razionale o della privatizzazione delle opportunità. Le principali motivazioni che in genere inducono le scuole a esternalizzare le attività di educazione fisica sembrano legate alle loro difficoltà in termini di: 1) strutture fisiche, strumentazioni, facilities; 2) esperienze e attività; 3) competenze del corpo docente (Williams, Hay, Macdonald 2011; Williams, Macdonald 2015). In diversi casi, grandi corporations possono entrare in gioco e inserirsi così nei contesti educativi scolastici e cittadini (Kohe, Collison 2019), palesando l’ambiguità tra le motivazioni di sviluppo del brand – in termini economici o di immagine – e il concreto sostegno alle comunità locali e scolastiche. Così, se da un lato queste pratiche di esternalizzazione possono garantire un supporto effettivo all’attività fisico-motoria dei più giovani, dall’altro lato va compreso in che termini questi servizi siano totalmente in linea con la missione educativa e con i bisogni formativi di fondo (Petrie et al. 2014; Powell 2015; Williams, Macdonald 2015; Dyson et al. 2016). Questo contributo si rivolge allo scenario italiano, analizzando i progetti attraverso cui alcune corporations – soprattutto quelle attive nella produzione di abbigliamento e accessori sportivi – si propongono negli ambienti educativi promuovendo l’attività sportiva tra i giovani. Ciò al fine di investigare il rapporto tra i vari interessi pubblici e privati in gioco e di comprendere in che misura questa formulazione dell’attività sportiva, nella sua relazione con la cultura prevalente in termini di benessere, focus sull’individuo e la sua esperienza, considerazione più o meno diligente dei fattori sociali alla base dei problemi collettivi (Andrews, Silk 2018; Coakley 2011), definisca un’azione di sviluppo sociale o invece di supporto a vantaggi di parte.
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Datificazione della performance e colonizzazione del corpo atletico: una nuova frontiera di sfruttamento capitalistico di massa
Pippo Russo (Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali – Università di Firenze)
Il corpo è uno degli oggetti d'analisi privilegiati in sociologia dello sport. Intorno a esso si snodano tematiche cruciali come quelle della salute, della fitness, dell'immagine, della disciplina, dell'estetica e del corretto rapporto fra statica e dinamica. Ma, fra tutte, la tematica più rilevante in termini di studi sociologici sullo sport è la tematica della performance. Che in termini di definizione sociologica è “prestazione effettuata per il conseguimento di un obiettivo, in condizione di difficoltà dal vario grado” e si presenta indifferentemente in qualsiasi grado e circostanza dell'azione sportiva organizzata, dall'alta competizione ai livelli amatoriali. Il corpo performativo è fra i principali oggetti di studio in sociologia, ma è anche un oggetto sociale soggetto a costante risignificazione. L'approccio cruciale per condurre questa analisi necessita di essere quello del rapporto fra l'attore sociale e il suo corpo performativo. Un approccio che trova in sociologia dello sport il suo terreno prioritario perché è proprio nello sport che il corpo esprime una performatività esplicita, evidente e misurabile. Nel mondo dello sport, specie quando ci si approssima sempre più al livello dell'alta competizione, esiste un rapporto peculiare fra l'attore sociale (l'atleta) e il suo corpo: si tratta di un rapporto di alienazione, il più radicale che si possa immaginare nella contemporaneità. Nello sport d'alta competizione il corpo è una “macchina da performance” che smette di appartenere all'atleta dal momento stesso in cui questi sceglie di professionalizzare la propria attività agonistica. Per costui il corpo diventa uno strumento di lavoro da mantenere costantemente in condizioni di fitness, come se si trattasse di un oggetto altro da sé. Quell'oggetto gli verrà restituito al termine della carriera agonistica e in condizioni d'incerta qualità. Ma fino a che dura la carriera agonistica l'atleta dovrà essere mero manutentore di quell'oggetto, alla cui efficienza dovrà piegare ogni condotta della vita quotidiana. Da questo quadro deriva un punto fermo: dacché esiste lo sport d'alta competizione, il corpo performativo è un oggetto di massimizzazione e sfruttamento capitalistici che alimenta un'industria orientata alla produzione di due merci: performance (risultato sportivo) e spettacolo (da definirsi, sociologicamente, come “circostanza organizzata per generare emozioni collettive”). Ma il mutamento culturale, e le successive risignificazioni del corpo atletico (a partire da quelle commesse a un'estetica pubblica della seduzione e della desiderabilità) hanno aperto nuovi versanti di sfruttamento del corpo atletico-performativo. Il fronte più recente di questo sfruttamento coincide con la svolta dei Big Data. Il corpo performativo si trasforma in un deposito di dati da estrarre a beneficio di diversi settori industriali legati alle scienze della performance. Ancora una volta l'atleta deve sottostare, anche a costo di vedere colonizzare quote sempre più ampie della vita personale. Succede, per esempio, nel caso degli studi che monitorano il sonno dell'atleta, con evidenti proiezioni sulla privacy personale. Ma si può anche paventare il rischio che il monitoraggio della propensione agli infortuni (come da recente programma della NFL) riduca la forza contrattuale degli atleti. La proposta di intervento nel panel intende presentare un quadro teorico e una rassegna delle esperienze fin qui maturate, per poi riflettere sui possibili scenari (monitoraggio dell'attività sessuale?) nei quali collocare il futuro del corpo performativo.
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“Fit gaze”: lo sguardo sportivo sui corpi. Stereotipie, stigmi e risignificazioni
Alessia Tuselli (Centro Studi Interdisciplinari di Genere, Università di Trento)
Negli spazi sportivi il corpo è soggetto, oggetto e strumento (Tuselli, Vingelli 2019): soggetto dell’azione; oggetto di osservazione e controllo; strumento per la performance. Il corpo è dunque al centro, così come le sue forme. L’ obiettivo di questo contributo è quello di presentare e rappresentare lo sguardo sportivo sui corpi, come e se è cambiato nel tempo, i significati che produce, in particolare rispetto al genere; le retoriche, le norme, le rappresentazioni, i processi che reitera e quali invece trasforma. Il tentativo è quello di guardare agli spazi di movimento1 attraverso le categorie proprie dei gender studies e dei fat studies, per osservare come e se lo sport veicoli visioni grassofobiche sui corpi e/o articoli nuovi significati, decostruendole. Negli anni Ottanta del Novecento si costituisce il legame fra attività di movimento, corpo, forme del corpo e salute, dove il corpo diventa “luogo di piacere” (Ferrero Camoletto 2005, p. 35). Jane Fonda è il simbolo di quegli anni, pioniera di ciò che poi si chiamerà fitness: con l’aerobica propone “break the weaker sex mold” (Fonda 1981, p. 45) assegnato, di fatto, questa attività sportiva al genere femminile. Il corpo di Fonda (e il “corpo aerobico” in generale) diventa spazio di contestazione dei canoni di bellezza, delle norme corporee sulla femminilità del periodo precedente; allo stesso tempo l’aerobica si pone in un asse di continuità (Bordo, 1988) rispetto alla cultura popolare degli anni '80 che idealizzava, disincarnava e sminuiva le donne (Freedman, 2002; Kagan & Morse, 1988). L'aerobica sembrava aver cooptato, modificato ma allo stesso tempo assegnato significati precisi al concetto di “forma fisica”: è in questo periodo che si afferma il concetto di corpo sano=corpo snello, applicato in particolare alla femminilità (Ellison, 2023). A partire dagli anni 80 dunque l’attività aerobica diventa strumento per mantenere una certa “forma fisica” così da avere un corpo in “salute”. Proprio a partire da questi cambiamenti di significato è importante chiedersi: ma quale “forma” e quale “salute”? Nella pratica sportiva si alternano visioni e significati, ma rimane paradigmatico il concetto di slim to win, non solo a livello agonistico: si traduce in una motivazione che investe la vita di tutti i giorni. In questo quadro, dalla mera osservazione della forma del corpo si tende a dedurre lo stato di salute di una persona (corpo magro=sano; corpo grasso2=non sano), i suoi desideri e le sue necessità. La “salute” diventa responsabilità individuale e valore morale, a partire dalle retoriche sportive (“se vuoi puoi”, “no pain no gain”) in un rafforzarsi di stigmi precisi rispetto ai corpi grassi e al loro status psico-fisico. All’interno degli spazi sportivi sono dunque radicate visioni grassofobiche sui corpi, che hanno una genealogica precisa: è interessante, oggi, indagare cosa comportano questo tipo di visioni, come si traducono nelle pratiche, nei significati e nelle proposte che oggi attraversano i contesti di movimento. Il “fit gaze” tende a offrire “ricette”, tracciare percorsi standardizzati, precise rappresentazioni: retoriche che responsabilizzano l* individu*, indicando vie predefinite per la salute, la felicità, il successo, proponendo spesso una forma del corpo univoca (magra). Capire cosa comportano certi stigmi, gli impatti che hanno sulle persone, la loro salute e i loro percorsi di vita e fondamentale per fare chiarezza su due aspetti in particolare: come e perché alcune soggettività tendono ad allontanarsi dai contesti di movimento; come si può lavorare attraverso lo sport per decostruire certe visioni grassofobiche, modificando linguaggi e attività, accogliendo una pluralità di corpi ed esigenze per promuovere “la salute” nella sua complessità, slegata dall’imposizione di un certa forma corporea.
1 All’interno del contributo si farà riferimento ai contesti sportivi non agonistici, agli ambiti di attività fisica, del fitness, di movimento appunto.
2 In questo contributo si fa rifermento ai corpi grassi non con accezione negativa: a partire dalle teorizzazioni dei fat studies e dal fat activism, si utilizza “grasso” come aggettivo neutro e non con significato dispregiativo.
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La dimensione valutativa nello sport: ricerca, cambiamento e innovazione sociale
Francesca Pia Scardigno (Università di Chieti)
Il contesto nazionale sta vivendo in questi ultimi anni un momento di rinnovato interesse sul versante sportivo, caratterizzato da cambiamenti normativi che a cascata si riflettono sul tessuto sociale, economico e organizzativo da parte di tutti gli enti preposti alla formazione ed elargizione di servizi sportivi. In Italia, una nozione di sport giuridicamente solida si è avuta solo con il d.lgs 36/2021 il quale all’art 2 definisce lo sport: «qualsiasi forma di attività fisica fondata sul rispetto di regole che, attraverso una partecipazione organizzata e non organizzata, ha per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica o psichica, delle relazioni sociali o l’ottenimento di risultati in competizione di tutti i livelli». Tale definizione segna un cambiamento sostanziale che disciplina non solo la pratica dello sport intesa come pratica di benessere fisico e psichico; definisce i ruoli e le competenze dei professionisti e degli enti preposti a generare una educazione sportiva; ancor di più, sancisce nella disciplina sportiva praticata a qualsiasi livello, un portatore di cambiamenti nella dimensione sociale e relazionale degli individui (Perissinotto 2012; Martelli, Porro, 2018). La Costituzione italiana, a differenza di altri paesi, non contiene, nel suo testo originario, alcun riferimento esplicito allo sport, né per prendere atto del fenomeno sportivo né, tanto meno, per indicare eventuali competenze in materia di sport degli enti pubblici territoriali; difatti, lo sport per molti anni non è stato concepito come un sistema giuridico, dal momento che l’impatto sociale prodotto dalla pratica sportiva sport era, in sostanza ritenuto assimilabile a quello di una forma di spettacolo. Il d.lgs 31/2021 meglio conosciuto con Riforma dello Sport e successive modifiche, inaugura per la prima volta quel cambiamento epocale di riordino di una disciplina che comporta una “rinnovamento sociale” in termini di organizzazione e riordino di una plurisoggettività di attori che afferiscono all’ordinamento sportivo. Questi cambiamenti, a quasi tre anni dalla sua compiuta attuazione, necessiterebbero di essere misurati, per comprendere l’impatto che questo programma normativo sta generando sul territorio a livello istituzionale, organizzativo tra gli enti preposti alla formazione e alla erogazione dei servizi sportivi educativi. La valutazione di impatto mira a dimostrare che i risultati previsti derivano, sia direttamente che indirettamente, dalle attività del programma (Stern, 2016) ed esso rappresenta un metodo sempre più consolidato, nel momento in cui la Legge 106/2016 richiede agli Enti di Terzo Settore di misurare qualitativamente e quantitativamente l’impatto dei loro interventi (Stame, 2020). In questo preciso scenario, ancor di più lo sport in quanto partner preferenziale in gran parte degli interventi territoriali, diventa una leva imprescindibile da utilizzare, per generare cambiamenti sul territorio. Si attivano infatti collaborazioni partenariali con associazioni e società sportive, si creano interventi sportivi ritagliati sul territorio e su precisi target di riferimento, si creano relazioni e reti che generano cambiamenti e si innestano idee sempre più innovative (Marchetti, 2013; Fazzi, 2019). L’obiettivo di questo lavoro è presentare il contributo che la dimensione valutativa può apportare alla sociologia dello sport. Tale dimensione, nella sua precisa accezione sopra definita, è intesa come lente di ingrandimento per l’osservazione di quei percorsi in cui la pratica sportiva diventa promotrice di azioni collaborative e di innovazione sociale realizzando quanto previsto dalla Riforma del Terzo Settore ma ancor di più dalla Riforma dello Sport, il cui obiettivo principale è creare un ambiente sportivo più equo, sostenibile ed inclusivo per tutti i cittadini italiani.L’obiettivo di questo lavoro è presentare il contributo che la dimensione valutativa può apportare alla sociologia dello sport. Tale dimensione, nella sua precisa accezione sopra definita, è intesa come lente di ingrandimento per l’osservazione di quei percorsi in cui la pratica sportiva diventa promotrice di azioni collaborative e di innovazione sociale realizzando quanto previsto dalla Riforma del Terzo Settore ma ancor di
più dalla Riforma dello Sport, il cui obiettivo principale è creare un ambiente sportivo più equo, sostenibile ed inclusivo per tutti i cittadini italiani.