Chair: Stefano Cristante, Università del Salento
Understanding Media di McLuhan compie 60 anni. Istruzioni per l’uso di un classico irregolare
Nel 1964 comparve nelle librerie americane Understanding Media di Marshall McLuhan, e in poche stagioni ne furono pubblicate traduzioni in varie lingue. In Italia l’editore Il Saggiatore lo rinominò Gli strumenti del comunicare e lo fece uscire nel 1967. Ovunque uscì, quel testo suscitò interesse e polemiche. Molti furono i fattori che contribuirono alla popolarità del volume: il modo brillante, originale ed eccentrico in cui era scritto, la stagione culturalmente innovativa in cui aveva preso forma (alle soglie dell’ondate controculturale della seconda parte degli anni ’60), la diffusione planetaria dei media, rappresentata in modo plastico dal successo della televisione. Ma, soprattutto, il successo di Understanding Media si dovette alle tesi espresse da McLuhan. Per lo studioso canadese i media andavano considerati essenzialmente delle estensioni degli esseri umani, e come tali dovevano essere trattati. Prima di capire se potessero essere usati per migliorare la specie umana o per vessarla, andava capito come funzionavano, secondo una constituency tecnico-sociale. I media cambiavano gli equilibri e le proporzioni tra sensi e oggetti, tra percezioni e conoscenze umane. La loro “forma” interessava a McLuhan assai più del loro contenuto: allo studioso interessava il “cinema”, e non il genere di film proiettato o la storia che andava raccontando. Sul medium influiva la forma tecnica, cioè la definizione (alta o bassa), il grado di partecipazione che richiedeva al consumatore (forte o debole), la ristrutturazione dei rapporti spazio-temporali, il cambiamento che induce nell’organizzazione sociale. Prendevano così il via le celebri definizioni mcluhaniane di media caldi e media freddi, accompagnate dalle incursioni sull’intorpidimento del consumatore di fronte a media non ancora assimilati (da cui la metafora di Narciso), sull’inversione del medium surriscaldato e sui media come metafore attive. E, soprattutto, veniva a delinearsi l’aforisma-principe del nuovo linguaggio mcluhaniano, “the medium is the message”. Nel libro – ricordiamolo – dopo una complessa introduzione di una settantina di pagine McLuhan presentava una seconda parte di analisi dettagliate su un nutrito set di media, dalla “parola parlata” alla “automazione”, passando per “stampa”, “radio”, “televisione”, per un totale di 26 schede dedicate, tra cui trovavano posto media raramente considerati tali, come “gli alloggi”, “il numero” e “il denaro”.
Understanding Media fece la fortuna di McLuhan ma fu anche molto contestato in numerose sedi accademiche, e anche in ambito sociologico. Oltre alle questioni di metodo (che McLuhan mutuava da un insieme di pratiche degli studi letterari e che non erano insensibili al fascino delle prassi delle avanguardie storiche), veniva contestato a McLuhan lo scarso interesse per la questione degli “effetti dei media” a breve termine, e il suo ignorare le vicende dei contenuti mediali, cioè delle rappresentazioni socio-culturali che attraversavano le narrazioni dei media. Inoltre, l’insistenza di McLuhan sull’impatto sociale delle tecnologie della comunicazione fu da più parti tacciata di “determinismo tecnologico”. Dopo essere stato osannato e criticato, il testo fu quasi dimenticato, fino a quando l’irrompere di internet e del digitale connesso nelle vite planetarie ne soffiò via la polvere accumulata. Diversi commentatori, a partire dal primo decennio del nostro secolo, ne sottolinearono il carattere di anticipazione strategica, in particolare basandosi su una lettura “profetica” del capitolo sull’automazione, in cui McLuhan parla di “creazione di una rete globale”, di “movimento istantaneo”, di “ritiro di manodopera dall’industria”, di “interdipendenza totale come punto di partenza”.
Approfittando del 60° anniversario dell’uscita del libro, il panel si propone di articolare una riflessione sulla sua attualità e sul posto che può occupare in un cammino mediologico articolato e plurale, attento a questioni di carattere teorico generale e a problematiche più specifiche.
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McLuhan Reloaded
Giovanni Ragone, Università di Roma “La Sapienza”
Pur strettamente legato alla cultura francese, dove su McLuhan profeta o scienziato ci fu un notevole dibattito, il nostro ambiente intellettuale si dimostrò refrattario alla riflessione mediologica per oltre trent’anni. Interessanti le uniche due recensioni, di Arbasino e Flaiano, e la celebre stroncatura di Eco, nel 1967, l’anno della traduzione per Il Saggiatore (seguita da Il medium è il messaggio nel 1968 da Feltrinelli, e da una raccolta di scritti a cura di Plebe nel 1969). Nel 1974 Understanding Media viene rilanciato da Barilli come nuova base teorica per l’arte d’avanguardia, nel 1976 da Gamaleri come guida indispensabile per la produzione televisiva, ed esce anche la Gutenberg Galaxy, e nel 1980-1981 dai due volumi fondamentali di padre Mario Baragli. Il nome di McLuhan risultava impronunciabile nelle scienze umane e sociali laiche e di sinistra, sdraiate su semiologia e nuova storia, mentre le traduzioni (Armando e SugarCo) circolavano fuori dalle università, in ambito produttivo, aziendale e cine-televisivo cattolico. La riscoperta avvenne tra il 1989 e il 1994 in fase di gestazione della mediologia italiana (Ragone, Abruzzese, la rivista MassMedia), entro studi sugli sviluppi dell’industria culturale; poi le frequentazioni di De Kerchkove inauguravano una fase di coltivazione, anche se paradossalmente le traduzioni di Remediation di Bolter e Grusin, nel 2003, e di Convergence culture di Jenkins, nel 2007, funzionarono in un certo senso permettendo di trascurare la loro fonte McLuhan. Intanto la mediologia italiana di scuola abruzzesiana e soprattutto il giornalismo di opinione lo adottavano in pieno, con un totale sdoganamento nel 2011 – anno di numerosi convegni. I riferimenti al nostro autore proliferano in modo esponenziale e globale (crescendo di 10 volte, fino a oltre 3.500.000 su Google nel 2019-2020, quando riguardo ai media la fortuna di Understanding Media risulta inferiore e di poco solo al libro di Jenkins).
Eppure, ancora oggi non si sfugge al riduzionismo: tipicamente “cosa dice UM sul medium cinema, o sulla tv?” o “quanto è determinante in UM la tecnologia?”. In ambito scientifico la tendenza prevalente orientata sull’oggetto (gli effetti dei media, le pratiche) tuttora lo occulta, nettamente in contrasto con quella ancora minoritaria orientata sullo sviluppo della soggettività nell’ambiente dei media, che lo considera come riferimento-base. La lettura integrale del testo sembra invece funzionare positivamente per la nuova generazione: il suo stile, combinando volutamente l’argomentazione complessa con i flash, e costringendo a intuire più che a formalizzare una rete concettuale stabile, sembra fare da ponte tra il libro saggistico e i tipici interventi nei social, adattandosi perfettamente ai gusti intellettuali di chi oggi continua a produrre riflessione, ma senza gli obblighi della sistematicità. Ma dietro a questa tuttora oscillante ricezione si celano problemi di fondo sul senso e sul metodo della ricerca sui media, orientata a comprendere e interpretare i cambiamenti della società, che sarebbe bene rendere espliciti. E già solo in Understanding Media, del resto, le scelte rivoluzionarie di McLuhan emergono con vivacità intellettuale. Proviamo a enunciarne tre, in sintesi: a) la scelta del paradigma indiziario, con il suo procedere puntando sui processi e non sulla deduzione dalle caratteristiche dei fenomeni, e sulla lunga durata (contro lo “specchietto retrovisore”); b) il focus sulla soggettività e sul tempo/spazio, che utilizza lo studio delle pratiche come conferma (e non viceversa); c) la centralità dell’interpretazione dei testi e delle opere d’arte, ribaltata sul complesso dei media, fino a utilizzare gli oggetti come metafore (e non l’analisi del contenuto). Erano posizioni necessariamente scandalose, in un ambito delle scienze umane che allora come oggi resta ancorato prevalentemente a schemi funzionalisti e neokantiani, quando non empiricamente relativisti.
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I media come metafore attive: McLuhan e i mezzi del comunicare
Andrea Lombardinilo, Università degli studi “G.D’Annunzio” Chieti-Pescara
Sessant’anni dopo la prima pubblicazione di Understanding Media (1964), val la pena riflettere sulla portata cognitiva di alcune delle definizioni metaforiche utilizzate da McLuhan per esprimere l’innovazione comunicativa della modernità e della contemporaneità, atteso che «quando noi guardiamo ad una situazione attraverso un’altra situazione, usiamo una metafora. Questo è un processo intensamente intellettuale. Ed ogni lingua sorge in questo modo» (Umanesimo cattolico e lettere moderne, 1954, p. 35).
In Understanding Media McLuhan compie il tentativo di legare letteratura, media e conoscenza, secondo una prospettiva epistemologica che vede nella retorica (classica e cristiana) un volano fondamentale di conoscenza della realtà. Per questa ragione è opportuno analizzare la portata mediologica di alcune delle metafore con cui si designano il cinema («Il mondo in bobina»), gli orologi («il profumo del tempo»), la fotografia («Il bordello senza muri»), l’automobile («La sposa meccanica»), il telegrafo («L’ormone sociale»), la radio («Il tamburo tribale»), la televisione («il gigante timido»).
Ciascun capitolo di Understanding media si configura come una straordinaria incursione nella dimensione comunicativa di ciascun medium, secondo un approccio interdisciplinare che sfrutta l’argomentare asistematico e caleidoscopico di McLuhan. Ci si chiede se questa prospettiva retorica possa rendere la complessità del nostro panorama mediale, sempre più connesso e globale. Partendo dalla madre di tutte le metafore mcluhaniane, «the medium is the message», è infatti possibile riflettere sull’attualità delle metafore mediali impiegate dallo studioso canadese per tracciare lo iato tra media caldi e media freddi, preconizzando la rivoluzione prodotta dall’automazione sulla vita di tutti i giorni, anche sul piano comunicativo: «Tutti i media sono metafore attive in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove» (Understanding Media, p. 71).
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Da McLuhan alle Wearable Technologies: gli avamposti di un ecosistema customercentrico, phygital e multimodale
Nello Barile, Università IULM, Milano
Negli ultimi anni è stata prodotta una quantità significativa di ricerche sulle cosiddette tecnologie indossabili: dalla riflessione seminale di N. Negroponte in Essere Digitali (1995), passando per le la dimensione mobile delle ICT (Quinn 2002; Katz 2003; Ryan 2014); fino alla più recente investigazione sul mondo dei Big Data, degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale Mayer-Schonberger e Cukier 2013; Manovich 2018; Cheney-Lippold 2017; van Es e Schafer 2017).
Più recentemente, tali tecnologie sono state considerate “ottimisticamente” come un trend della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale (Schwab 2016), mentre gli studiosi più critici le classificano tra le “tecnologie radicali” (Greenfield 2017) che penetrano spregiudicatamente il modo della vita quotidiana. A metà strada tra le due posizioni, altri studiosi riflettono sull’interazione tra tecnologia ed emozioni dei “media empatici” (McStay 2018).
La visione lungimirante di Marshall McLuhan aveva già individuato una serie di concetti teorici capaci di supportare lo studio di tali innovazioni tecnologiche. Nel dodicesimo capitolo di Understanding Media, Clothing: Our Extended Skin, si propone una concezione specifica dell’abito come “medium” che dalla fase meramente funzionale, si sviluppa come mezzo di comunicazione delle identità sociali e dei valori culturali (McLuhan. 1967). Per questo i Fashion Studies hanno recentemente rivalutato la centralità dello studioso canadese (Rocamora e Smellik 2016). La riflessione di McLuhan e la sua applicazione al campo delle Wearable Technologies vanno a colmare un sostanziale gap di conoscenza, ponendosi come l’anello mancante che collega i Media Studies e i Fashion Studies.
Oltre alle produzioni più commerciali che coprono una vasta gamma di dispositivi gestiti dai brand globali (Smart Glasses, Fit Bit, Smart Watch ecc.), le idee più sperimentali vengono realizzate da designer che coniugano l’estetica con l’innovazione tecnologica, grazie alle collaborazioni con Intel: dalle installazioni di Hussein Chalayan che scansionano lo stato emotivo interiore, fino alle più recenti creazioni cyber-femministe di Anouk Wipprecht (Wernimont, Losh 2019). L’utilizzo di queste tecnologie educa gli utenti a una nuova “materialità tecnologica” (Küchler 2008) e a una esperienza phygital (Barile 2022) che integra la dimensione virtuale e quella fisica. La loro interazione con l'Intelligenza Artificiale Multimodale aumenterà la penetrazione dell’AI nella vita quotidiana gestendo tutte le possibili “prestazioni” dell’utente, posto al centro di un universo automatizzato e Customer-Centrico che richiama la “partecipazione” mcluhaniana, ma che la spinge verso una sfruttamento radicale della vira emozionale. Come ha efficacemente notato Greenfield: “All’interno del quadro del tardo capitalismo, la diffusione dei dispositivi indossabili di monitoraggio biometrico non può non essere vista come una forma di potere disciplinare che attraversa il corpo e i suoi flussi. Un potere che neanche Frederick Taylor avrebbe mai potuto immaginare, e se Foucault avesse osato parlarne, non sarebbe stato nemmeno preso sul serio” (2017, p. 20).
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Trasporto, accelerazione, iperstizione: nuovi paradigmi spazio-temporali
Claudia Attimonelli, Università degli Studi Aldo Moro di Bari
Vi è un parafrago nella seconda parte del volume Understanding Media dal titolo Roads and Paper Routes che si apre così: “It was not until the advent of the telegraph that messages could travel faster than a messenger”. Come sovente accade negli scritti di Marshall Herbert McLuhan, questioni complesse vengono proposte a partire da affermazioni apparentemente banali; in questo caso, se è ovvio adesso come allora – nel 1964, quando il telegrafo era in uso in maniera stabile già da un secolo, non solo, esso era stato ampiamente soppiantato dal telefono – che un messaggio fosse in grado di viaggiare più velocemente del suo portatore, il messaggero, è altresì chiaro che una tale affermazione comporti la ridefinizione di un discreto ventaglio di credenze, se non financo paradigmi che di lì a breve avrebbero costituito il cuore pulsante del dibattito sull’accelerazionismo che McLuhan qui ineluttabilmente affronta partendo una semplice constatazione.
Sono le categorie di spazio e tempo ad essere messe in discussione dal mediologo, poiché, indagando la mancata “omogeneità nella velocità del movimento d’informazione” (p. 98) tra gli altri effetti ve n’è uno inquietante che attiene ai processi di opacità che investono l’informazione stessa, la quale, misteriosamente raggiunge un punto B da A, senza percorrere lo stesso tragitto fisico della via (route) che permetterebbe al messaggero X di raggiungere B partendo da A. Cosa accade in questo percorso accelerato, quali segreti – come li intenderebbe Georg Simmel in Il segreto e la società dei segreti (1992) – la comunicazione telegrafica e poi telefonica non garantiscono più che restino tali?
A partire da questa incongruenza generata dall’avvento dell’elettricità, se un’informazione viaggia in uno spazio e in un tempo che non coincide con le vie della comunicazione, tra le innumerevoli conseguenze una ci sembra di estrema rilevanza ed è quella che insiste sull’incertezza e l’imprevedibilità di ciò che accade nel suddetto passaggio da A a B poiché, venendo meno l’unità di tempo e azione, si generano effetti di relativismo e complessità nella restituzione dei fatti. Tutti elementi che destabilizzano in modo radicale i valori della Modernità e dell’Umanesimo : “Le nostre estensioni elettriche scavalcano lo spazio e il tempo” (McLuhan, p. 109).
La linearità del progredire della storia subisce non poche interferenze, dovute all’avvento del cyberspazio e della percezione di una serie di presenti puri e scollegati dall’asse spazio-temporale tradizionale, ivi hanno luogo fenomeni di accelerazione e di iperstizione (Fisher, 2009): stanti ad indicare quella traccia di futuro capace di operare già nel presente fino al punto di modificarlo, una sorta di profezia che si autoavvera che riguarda tanto le analisi predittive quanto la profilazione dei soggetti in rete. La CCRU (Cyber Culture Research Unit) propone la seguente definizione per iperstizione: “Elemento della cultura che si fa reale, per mezzo di dosi di fiction/finzione che aprono a potenziali viaggi nel tempo”.
È di estremo interesse il pensiero di McLuhan in tal senso, poiché favorisce e in un certo senso prova a legittimare, attraverso il suo incedere per metafore – termine di cui peraltro l’autore offre in un paragrafo dello stesso capitolo che stiamo analizzando una ricostruzione etimologica utile ai fini del discorso – riflessioni che sempre di più cercano di intrecciare, secondo modalità transdisciplinari, il campo umanistico che ruota intorno all’archeologia dei media e ai prodotti culturali della visual culture (Pinotti, Somaini 2014) e dei sound studies (Schafer 1994), con la fisica quantistica la quale guarda sempre di più alla produzione di raffinate narrazioni fantascientifiche (si pensi a potenti visioni quali Videodrome, Croneneberg 1983; la serie inglese Black Mirror, 2011-2023; Interstellar, Nolan 2014) al fine di rendere accessibili e talvolta di spiegarsi concetti e questioni altamente complessi.