Big clash. L’audiovisivo tra piattaforme online e AI generativa: uno sguardo sociologico sulle (vere) funzioni dello storytelling nelle serie TV riflessive
Elisa Giomi
Università di Roma Tre, Italia
Il paper esplora narrazioni e immaginari sociali attorno alla tecnologia, con particolare riferimento a piattaforme online da un lato e AI generativa dall’altro, partendo dal presupposto che tali immaginari siano plasmati soprattutto dalle serie televisive di ultima concezione e mirando dunque ad esplorarne la politica della rappresentazione. Le produzioni di prestige cable channels (HBO, Showtime) e soprattutto degli streamers (Netflix, Amazon Prime, Diseney+, ecc.) portano in scena ciascuno dei meccanismi costituitivi delle piattaforme online isolati da Van Dijk et al. (2018) - dati, datification, algoritmi, sistemi di profilazione e raccomandazione – con riferimenti ad un’ampia pluralità di servizi, come piattaforme di dating (serie come Osmosis, Netflix 2019 o The One, Netflix 2021), di ridesharing, education, parenting, intrattenimento (Westworld, HBO 2020) ma anche con riferimento a specifiche applicazioni: dal micro-targeting pubblicitario (Upload, Prime Video 2020) ai sistemi di rating (Mythic Quest: Raven’s Banquet, Apple TV 2020). Non manca poi una serrata critica di molti aspetti della platform society, come la disintermediazione (Dark web, Prime Video 2019) o la retorica dell’economia partecipativa (Startup, Sony Pictures Television 2016). Anche l’intelligenza artificiale, che affascina da sempre il racconto audiovisivo, è oggetto di una rappresentazione quasi didascalica nelle serie TV contemporanee: se l’assistente personalizzato al centro di A Murder at the End of the World (Hulu 2023) sembra anticipare alcune caratteristiche di ChatGPT5, quello dalla forma di ciondolo sviluppato da Rewind AI nello scorso ottobre ricorda incredibilmente il dispositivo “grain” protagonista di una puntata di Black Mirror (2017). Ed è proprio il primo episodio dell’ultima stagione di questa saga sulla tecnologia (Joan è terribile, 2023) che troviamo un racconto interamente metatestuale, sull’impiego di AI generativa per realizzare deepfake di attori famosi che recitano in una serie TV prodotta da una Netflix finzionale. La puntata, significativamente, è stata trasmessa nel periodo dello sciopero di Hollywood, indetto dalla Writers Guild Association, che tra le varie richiese includeva proprio il divieto di utilizzare l’AI per sostituire gli attori. Tutte le narrazioni esaminate stigmatizzano piattaforme online e AI come forme più compiute del progetto neoliberista di neutralizzazione della variabile umana che si esprime nell’imprevedibilità delle logiche del consumo, da controllare con profilazione e raccomandazione, e nella presenza stessa di una forza lavoro, da rimpiazzare con i deepfake generativi. L’ipotesi alla base della ricerca, tuttavia, è che il racconto in chiave distopica non risponda tanto (o solo) alla funzione di cautionary tale (racconto di “ammonimento”) tradizionalmente attribuita alla fantascienza ma ad una precisa politica di rappresentazione che sposta sul piano dell’immaginario la cosiddetta “guerra dello streaming”, offrendo cioè complemento simbolico alle strategie economico-commerciali attuate da VODs e SVODs per difendere la propria quota di mercato dalla concorrenza delle big tech nel mercato audiovisivo. Lo stesso tipo di operazione interessa la rappresentazione, assai coerente benché ancora marginale nelle trame delle produzioni, dell’applicazione dell’AI generativa nelle industrie creative. La cornice teorica, oltre ai principali contributi sociologici sulla piattaformizzazione della società, consiste in quella tradizione dei Critical TV studies che sottolinea la funzione «autoriflessiva» mediale e televisiva (ad esempio Brooke et al. 2011; Szalay, 2014), con particolare riferimento alla “riflessività industriale” (Caldwell, Lynn 2008). La parte empirica è stata condotta con gli strumenti dell’analisi del contenuto/analisi del discorso e riporta i risultati relativi a 10 serie televisive.
Un rito di carta. Libri e “librarietà” nella comunicazione delle imprese italiane
Valentina Martino
Sapienza, Italia
Scenari e stato dell’arte
Il contributo approfondisce il fenomeno delle monografie organizzative di carattere librario e la sua evoluzione nel contesto italiano.
I libri editi dalle organizzazioni per documentare la propria storia e attività rappresentano un genere distintivo e di lunga tradizione dell’industria culturale, caratterizzato da rilevanti espressioni sul piano quantitativo e qualitativo. Tuttavia, con poche eccezioni, tali artefatti culturali spiccano tra i generi meno conosciuti e indagati, al punto da rappresentare un singolare caso di «libri-non libri», sovente derubricati come nicchia e accidente di puro colore nella storia della comunicazione.
La marginalità del filone può essere spiegata piuttosto alla luce di alcuni storici «paradossi comunicativi»: prima fra tutti, l’autoreferenzialità delle organizzazioni stesse, che tendono a condannare tali pubblicazioni a un ciclo di vita effimero e d’occasione e, dunque, a una difficile accessibilità da parte dei ricercatori.
Obiettivo e metodo
A partire da questo scenario, il contributo punta a discutere l’evoluzione storica e contemporanea del fenomeno nella prospettiva degli studi culturali e di comunicazione, nell’intento di ripercorrere le peculiarità del caso italiano, lo stato dell’arte nel settore e le implicazioni per la teoria e ricerca. Il binomio organizzazioni-libro appare infatti pregnante e meritevole di essere decifrato attraverso gli strumenti critici dell’indagine culturale: ciò con speciale riferimento, da una parte, ai temi della formazione e comunicazione dell’identità e memoria organizzative e collettive; dall’altra, al ruolo cardine che il libro e la librarietà giocano nel panorama dei media e delle forme culturali della modernità.
Il contributo offre una rassegna ragionata della letteratura interdisciplinare e dei risultati delle ricerche di carattere esplorativo condotte da chi scrive nel contesto delle attività scientifiche che fanno capo a BiblHuB, biblioteca culturale e di ricerca sulla comunicazione di imprese e organizzazioni promossa alla Sapienza dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale. Le attività di ricerca, a tutt’oggi in corso, hanno previsto la realizzazione di casi di studio, interviste ai testimoni privilegiati, analisi delle caratteristiche testuali e contestuali dei company book. Tali approfondimenti quali-quantitativi hanno consentito di delineare il sistema culturale dei company book e mettere a fuoco le principali fasi, gli attori e i «classici» di settore che, nel tempo, hanno animato lo sviluppo di una distintiva tradizione nazionale attraverso l’apporto di una molteplicità di approcci e discipline (storia, letteratura, arte e design, scienze sociali).
Implicazioni per la teoria e ricerca
Le implicazioni sono discusse nella prospettiva dell’analisi culturale e della comunicazione, ambito nel quale i company book dispiegano appieno la propria qualità «serendipitosa» di oggetti (apparentemente) fuori posto e persino provocatori. Da una parte, relativizzano infatti il concetto di libro e, in particolare, quei requisiti di autorialità e credibilità che è consuetudine invalsa considerare alla base del «patto comunicativo» con il lettore; dall’altra, la loro natura «ibrida» evidenzia ricorrenti e soprendenti intrecci tra sfera spirituale e materiale – tra figure di intellettuali, artisti, editori e imprenditori – che innervano la tradizione culturale italiana e, in generale, la storia sociale del libro.
I libri delle organizzazioni hanno la funzione di oggettivare la cultura e preservarla in forma «materiale» e «documentata», ma non possono essere considerati degli statici artefatti: rappresentano, piuttosto, l’esito di un complesso rito identitario – l’esperienza del «farsi libro» – che coinvolge le organizzazioni e i loro leader, segnando un «prima» e un «dopo» nella vita aziendale, finanche a innescare un positivo effetto d’iniziazione e dipendenza culturale. Tale processo attiene, inoltre, alla produzione di media analogici che «rimediano» l’antica tradizione del libro come oggetto d’arte e di design, per rilanciarne – al tempo della Rete – la qualità di potente macchina culturale e di comunicazione attraverso il tempo.
Tra Pixel e Paillettes. Nuovi paradigmi e nuove disuguaglianze nella moda del futuro
Michele Varini
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Italia
La moda e il progresso tecnologico sono sempre stati due campi collegati. Il ruolo della moda nella formazione delle distinzioni di classe, degli immaginari, della co-produzione di autocoscienza, degli stereotipi di genere e della formazione e costruzione dei corpi è stato a lungo studiato, e l'avvento delle nuove tecnologie digitali ha accelerato queste dinamiche. Al contempo, le forme assunte dalla filiera della moda si sono moltiplicate, a partire dalla produzione, fino alle opere creative e comunicative. È noto che la moda, storicamente, ha giocato un ruolo potente nel determinare stereotipi fisici e immaginari di genere: il suo ruolo nella co-produzione della consapevolezza di sé e nella formazione e costruzione dei corpi è uno dei cardini degli studi di settore. Inoltre, un altro ruolo fondamentale della moda è sempre stato quello di marcare le differenze di classe, come consumo ostentato, come "desiderata" a cui solo pochi privilegiati potevano accedere.
Questo lavoro si interroga sulle questioni delle disuguaglianze materiali e della rappresentazione del
corpo, dove il digitale sfida sempre più il confine tra materialità e non-materialità, realtà e immaginazione. Gli
ambienti ludici virtuali si pongono, da questo punto di vista, come i campi più di frontiera, perché, da un lato,
sono sempre più oggetto di interesse da parte dei brand, dall'altro, sono aperti alla possibilità di creazione da
parte degli utenti, non sempre seguendo un canone consolidato.
La relazione tra moda, gioco e media tradizionali è ibrida, a cavallo tra online e offline, tra materiale e "non materiale", tra realtà e finzione. La domanda di ricerca è se le dinamiche di costruzione di immaginari, definizione di stereotipi di bellezza estetica, azioni sui corpi sia "meccaniche" che culturali, istanze di genere attribuite alla moda dalla letteratura esistente siano replicate anche nel contesto digitale, oppure se queste dinamiche stanno cambiando con e per l'azione di questo nuovo tipo di fruizione del prodotto moda, sia come "oggetto materiale" che come "oggetto culturale".
Per fare ciò, questa ricerca impiega, in maniera sinergica, un approccio netnografico e uno visuale, utilizzati per costruire e analizzare un set di dati composto da pubblicità e immagini di personaggi di videogiochi; l’approccio metodologico scelto vuole rispondere alla natura stessa dell'oggetto di studio: sia la moda che i videogiochi hanno una natura spiccatamente visiva; entrambi dipendono e vivono all'interno di contesti mediatici digitali, interconnessi e globali.
I materiali delle pubblicità e le immagini dei personaggi dei videogiochi selezionati vengono campionati in base a tre peculiarità ben definite: 1. la possibilità di essere giocati online in modalità multiplayer; 2. la popolarità della piattaforma scelta; 3. la presenza di personaggi antropomorfi. Le piattaforme di gioco così selezionate sono: 1. League of Legends; 2. Fortnite; 3. Apex Legends; 3. Overwatch; 4. Valorant; 5. PUGB. All'interno di queste piattaforme, gli utenti svolgono il duplice ruolo di consumatori e produttori. Fanno quindi parte della "prosumer culture" e contribuiscono attivamente alla definizione di rappresentazioni e idee riferite al corpo. Tuttavia, i contenuti selezionati per questo studio non sono basati sui fan, infatti la scelta di concentrare l'analisi sulla pubblicità e sui contenuti "ufficiali" di queste piattaforme è legata al desiderio di esplorare quali significati, rappresentazioni e immagini vengono veicolati dai produttori, in una dinamica top-down, seguendo quindi la modalità di comunicazione dei canali tradizionali della moda.
La pandemia, che tra le sue conseguenze ha portato un aumento del tempo trascorso utilizzando media digitali, soprattutto tra i giovani, ha generato un diffuso aumento del fenomeno del ritiro sociale, ragione per cui questi mondi “altri”, questi “metaversi”, con le loro regole, estetiche e dinamiche, meritano, più che mai di essere esplorati.
Gli immaginari di Harry Potter tra fantasy e spiritualità: Una ricerca quantitativa sugli studenti italiani
Marco Guglielmi
Università degli Studi di Padova, Italia
Esiste un cospicuo dibattito in ambito sociologico, e più in generale nelle scienze sociali, rispetto al fenomeno sociale e mediatico generato da Harry Potter. Questa saga ha rappresentato un vero e proprio fenomeno sociale per una generazione di ragazze e ragazzi, spingendo gli scienziati sociali a interrogarsi sull’impatto che avuto nel campo religioso. Al di là dello studio della dimensione religiosa all’interno della produzione editoriale e mediatica di Harry Potter, nonché delle reazioni delle diverse tradizioni religiose rispetto alla dimensione magica di questa saga, alcuni sociologici hanno esaminato il fenomeno sociale generato dall’opera di J. K. Rowling alla luce delle teorie della modernità e della secolarizzazione sviluppate e applicate negli ultimi decenni nei paesi occidentali.
Quest’ultimo dibattito può essere schematizzato delineando due posizioni generali che ipotizzano due tendenze sostanzialmente opposte. Da una parte, seguendo la teoria dell’“hyper-real religion”, gli elementi delle religioni tradizionali e della cultura popolare si intrecciano per rispondere alle tendenze moderne in termini di consumo e individualizzazione religiosa. Pertanto, fenomeni come quello di Harry Potter promuovono forme di reincanto del mondo attraverso una proliferazione di “miti soggettivi”. Le pratiche dei fans di Harry Potter sono state così analizzate adottando i concetti di “fandom religion”, “film-based religion” ed “implicit religion”. Dall’altra parte, un numero minore di studiosi ha individuato nel fenomeno sociale generato da Harry Potter una dimensione prevalentemente secolare, la quale ripropone modelli e logiche in linea con i processi della secolarizzazione. Tale condizione favorisce quindi molteplici forme di disincanto in linea con le dinamiche sociali diffuse nei paesi occidentali. Ad ogni modo, all’interno di questo dibattito sono molto pochi gli studi che analizzano evidenze empiriche sull’argomento.
Questa presentazione discute i dati di una ricerca quantitativa che ha visto nel biennio 2022-2023 la raccolta di 872 questionari rivolti a ragazzi e ragazze dai 17 ai 23 anni nelle regioni Emilia-Romagna, Sicilia e Veneto. La ricerca ha approfondito gli immaginari dei giovani italiani su alcune importanti opere letterarie che hanno avuto una trasposizione cinematografica. Questa indagine ha esaminato gli elementi più importanti all’interno di questi immaginari giovanili e se essi ricadono entro categorie secolari o afferenti al campo spirituale/religioso. Per rispondere a questa domanda è stato chiesto ai rispondenti di leggere dei lunghi stralci delle suddette opere – scelti appositamente poiché significativi – e poi di rispondere a dei quesiti su ciascuno degli immaginari riconosciuti.
Secondo l’analisi dei dati raccolti, circa il 6% dei ragazzi e delle ragazze che hanno partecipato alla ricerca individua nella saga di Harry Potter un immaginario spirituale e/o religioso, il quale si integra con un ulteriore immaginario (nel questionario è stato chiesto difatti di individuare i due principali immaginari per ogni opera). Nella larga maggioranza dei casi, tuttavia, i rispondenti identificano in Harry Potter un immaginario morale, mitico e/o metaforico. Una successiva analisi dei dati permette di approfondire i profili dei ragazzi e delle ragazze che associano Harry Potter all’immaginario spirituale e/o religioso. In effetti, sono riscontrabili delle variazioni per quanto riguarda il genere del rispondente, il suo orientamento religioso (ateo; agnostico; in ricerca/curioso; religioso) e la religione in cui è cresciuto (cattolicesimo; islam; ortodossia).
In conclusione, questa ricerca suggerisce che, sebbene gli studi che indicano nel fenomeno sociale di Harry Potter la presenza di forme di reincanto non siano di certo privi di un riscontro empirico, essi sembrano comunque marginali tra i giovani della ricerca a distanza di quasi 15 anni dalla proiezione dell’ultimo film. Rispetto ai processi di secolarizzazione nei paesi occidentali, infine, questa attrazione spirituale/religiosa per Harry Potter sembra concentrarsi nei ragazzi che si riconoscono come “in ricerca” o “curiosi” e non in quelli che dichiarano un orientamento religioso più definito.
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