Fin dall’inizio di marzo 2020, quando il lockdown è stato introdotto in diversi paesi come risposta alla diffusione esponenziale di un nuovo coronavirus chiamato SARS-CoV-2, i mass media hanno contribuito alla creazione e diffusione di un linguaggio allarmistico ed emergenziale. Sebbene motivato dalla circostanza di dover mobilitare un Paese di fronte ad una situazione eccezionale, l’utilizzo reiterato del lessico emergenziale ha finito per compromettere il difficile equilibro tra gestione della crisi pandemica, affidamento ai saperi esperti e capacità delle persone di prendere decisioni informate e consapevoli. In particolare, alcune delle critiche principali fatte all'impiego del linguaggio emergenziale da parte dei media istituzionali sono state di essersi concentrato troppo sulla diffusione del contagio e sull'aumento dei casi e dei decessi, trascurando la presentazione di informazioni equilibrate sui sintomi, i fattori di rischio, le cure e le strategie di prevenzione. In questo modo, la comunicazione ha contribuito a creare un clima di ansia e incertezza, che ha portato molte persone a sentirsi sopraffatte e impotenti rispetto ad un pericolo visto come inevitabile e ingestibile. In secondo luogo, il tono emergenziale ha rischiato di danneggiare la credibilità dei mezzi informativi e delle autorità sanitarie stesse, riducendo l'efficacia dei messaggi di prevenzione e di controllo della pandemia e contribuendo a diffondere disinformazione e fake news. In terzo luogo, aumentando la percezione di un nemico comune da combattere, il linguaggio emergenziale ha esacerbato le dinamiche di polarizzazione tra opinioni diverse in merito non solo alle scelte di gestione politica e sanitaria del rischio pandemico, ma alle stesse premesse epistemologiche che orienterebbero tali scelte. Infine, alcuni critici sostengono che il linguaggio emergenziale potrebbe essere stato utilizzato per mascherare le cause strutturali sottostanti alla pandemia, sovraccaricando eticamente l’individuo di ogni responsabilità e partecipando così a un processo di deviazione del senso di colpa dagli organi decisionali verso i cittadini e le cittadine.
Il panel si proporrà di esplorare il modo in cui il portato della comunicazione allarmistica veicolata dai media, dove appare costante l’utilizzo del tema emergenziale, abbia contribuito non solo a modellare il dibattito pubblico intorno alla gestione della pandemia a e ai temi ad essa connessi, ma sia stata fondamentale nella costruzione di alcune figure chiave di tale dibattito, quali gli esitanti vaccinali, i “no vax” e i cosiddetti “complottisti”. Nel primo intervento verrà studiato il modo in cui i media hanno agito come moral entrepreneurs, proponendo una narrazione della paura e del pericolo che ha mirato a identificare chiaramente colpevoli e vittime. Nel secondo intervento si verificherà quanto la costruzione di strategie comunicative di blaming abbia contribuito ad alimentare un clima di sfiducia nelle istituzioni, nella scienza e nei media di cui hanno risentito soprattutto i cosiddetti “esitanti vaccinali” che, pur non pregiudizialmente contrari alla vaccinazione né inclini a posizioni complottistiche, non solo non hanno visto rappresentare la propria posizione e i propri dubbi durante l’emergenza pandemica ma sono stati spesso stigmatizzati come “novax”. Il terzo intervento si concentrerà proprio sul variegato mondo degli esitanti vaccinali. Mentre tali soggetti sono stati spesso descritti come populisti di destra, antiscientifici, ignoranti e inclini a credere alle teorie del complotto, l’intervento dimostrerà l’esistenza di un ambiente composito ed eterogeneo accomunato da una medesima sfiducia nei confronti delle istituzioni tradizionalmente considerate depositarie dell’autorevolezza epistemica e quindi legittimate a sanzionare la conoscenza considerata attendibile. Infine, l’ultimo intervento estenderà la riflessione all’uso del termine complottismo, che ha avuto una decisa accelerazione proprio nel periodo della pandemia. L’intervento dimostrerà come a questa accelerazione è conseguita un’estensione pressoché incontrollata del valore euristico del suo utilizzo, al punto che l’appellativo “complottista”, al pari di quello di “no vax”, ha cambiato completamente significato, andando a coprire funzioni semantiche nuove e assumendo una inedita rilevanza politica.
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Il contagio della paura e i protagonisti del risentimento. Elementi della comunicazione allarmistica del Covid-19
Elisabetta Risi IULM -.Libera università di lingue e comunicazione di Milano
In questo contributo verrà esplorata una porzione dell’alluvione comunicazionale scatenata dalla diffusione della Covid19, relativa in particolare alle news online e ai blog giornalistici, per analizzare come il dispositivo della paura e i meccanismi di risentimento e blaming verso capri espiatori abbiano costituito degli attivatori di emergenze continue nel biennio 2020-2022.
Lo studio verte su un’analisi del discorso (relativa al trimestre Ottobre-Dicembre 2021 e Marzo-Maggio 2022) che ha avuto come obiettivo quello di fare emergere alcuni elementi delle informazioni relative alla diffusione del Covid-19, focalizzandosi sull’utilizzo di alcune terminologie utilizzate per costruire le cornici di significato (il framing, Goffman 1974) dell’esperienza che abbiamo vissuto. I risultati sono utili a descrivere il portato della comunicazione allarmistica veicolata dai media, dove appare costante l’utilizzo del tema emergenziale (Miconi 2021), come un mantra che nella sua insistenza ha consolidato l’affermarsi di stati emozionali noti per le loro connessioni rispetto al potere di indirizzo e di controllo dei sistemi politici.
Verranno descritte e discusse alcune condizioni di possibilità del cosiddetto panico morale (Cohen, 1972, Goode, Ben-Yehuda 2009) i cui protagonisti diventano dispositivi utili contro cui scaricare le responsabilità, esorcizzando il patto sociale tra Stato e società. In tale contesto i media hanno agito come moral entrepreneurs (Cohen 2011), indicando di chi/cosa avere paura e contro chi/cosa canalizzare il risentimento sociale.
Il mantenimento di alcuni elementi linguistici quali l’emergenza e all’allarme infinito associato a continue nuove varianti, nonché ad alcuni connotati bellici (Boccia Artieri, Farci 2021), dal bollettino degli infetti ai sanitari “in prima linea”, è andato ad alimentare quel sentimento di paura, già di per sé presente in una popolazione che stava affrontando una patologia ignota e altamente diffusa. La paura è uno stato emotivo già considerato come centrale nelle società contemporanee (Beck 2009; Bauman 2014) su cui si innestano alcuni discorsi politico-mediatici, che rafforzano la stigmatizzazione dei soggetti considerati come pericolosi (Di Fraia, Risi, Pronzato 2019), costruendo un sapere sulla sicurezza spesso sganciato dall’oggettività di certi elementi fattuali e che però ha condotto a un insieme di pratiche, strategie e politiche. I discorsi mediatici sembrano avere dunque offerto le condizioni di possibilità per il panico morale, alimentando dalle reazioni viscerali intorno ad un tema che tocca direttamente ampie fasce della popolazione, proponendo una narrazione della paura e del pericolo che identifica chiaramente colpevoli e vittime.
Oltre alla paura, abilmente mantenuta dei media nel clima di emergenza continuativo, e che trova oggi un prosieguo nella narrazione della guerra russo-ucraina, la suddetta costruzione di strategie di comunicative di blaming verso categorie specifiche di soggetti (Boni 2021) può essere anche ricondotta all’alimentarsi di un altro componente emotivo, quello del risentimento.
Esso non va considerato come un contenuto psichico intrandividuale, ma come cifra emotiva del sociale, nella sua natura dinamica e processuale, culturalmente e socialmente situata (Tomelleri 2004), che sorge in situazioni socialmente percepite come ingiuste nelle quali però è difficile (se non impossibile) innescare un meccanismo di sfogo del disagio disforico verso un colpevole, specie se esogeno e microscopico (il coronavirus in questo caso). L’analisi del discorso delle news online fa emergere dunque la canalizzazione mediatica del risentimento sociale verso coloro che sono diventi di volta in volta i capri espiatori del proprio sentire, polarizzando su di sé e attorno a sé i malumori, sono stati lo strumento utile al rafforzamento dei legami di appartenenza a una società, ammansendo le rivalità interne ad essa.
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Vaccine wars. La costruzione mediatica dei “novax” tra infodemia, scientismo e stigmatizzazione
Manolo Farci Università degli studi di Urbino Carlo Bo
Marco Pedroni Università di Ferrara
Fin dall’inizio della pandemia, i resoconti mediatici hanno adottato un linguaggio e un’iconografia prettamente bellicista (Musolff 2022; Sabucedo, Alzate, Hur 2020). Tali narrazioni sono state usate con l’obiettivo di aumentare la percezione sociale dei pericoli posti dal virus, giustificare la necessità di cambiamenti radicali nello stile di vita e generare un senso di responsabilità collettiva e sacrificio per uno scopo comune (Castro Seixas 2021). In realtà, come molte ricerche hanno dimostrato, le metafore belliche finiscono per produrre numerosi effetti negativi. Uno dei principali è stato il progressivo deperimento del dibattito pubblico attorno alla COVID-19, che ha finito per assumere i toni di una vera e propria guerra culturale (Hunter 1992), uno scontro di natura morale tra gruppi sociali che sembrano farsi portatori di visioni del mondo che si considerano antitetiche e inconciliabili e dove ciascuna interpreta l’altra come una minaccia esistenziale per la propria sopravvivenza. Se parte di questo scontro è stato alimentato da forze politiche e movimenti sociali che hanno provato a contrastare i consigli ragionati sulla salute pubblica e le misure cautelative adottate in nome di una etica libertaria, un ruolo importante è certamente da imputare alla copertura mediatica della Covid-19 nei media mainstream, specialmente in Italia, dove il sistema dei media ha optato entusiasticamente e sin da subito per una copertura frenetica, allarmistica e ossessiva dell’epidemia (Boccia Artieri, Farci 2021).
Le conseguenze della metafora della guerra culturale nell’informazione italiana sono duplici. Da un lato, si è assistito ad una vera e propria drammatizzazione del normale procedere del dibattito scientifico, con conseguente spettacolarizzazione del conflitto tra scienziati, che ha contribuito a creare una profonda “disillusione” rispetto a un modello ideale di scienza e un progressivo declino della fiducia nei confronti del sapere scientifico (Gobo et al. 2022). In secondo luogo, l’idea della guerra culturale ha trasformato il meccanismo dell’attribuzione di colpa, quello che l’antropologa Mary Douglas definisce come blaming (1994), in una pratica ordinaria del dibattito pubblico, prima stigmatizzando i comportamenti di una nutrita serie di categorie, spesso rubricate con termini dispregiativi quali “covidioti” (Pedroni 2020; Ricolfi 2021), poi fornendo nuovi significati semantici all’etichetta “novax”, considerati alla stregua di dissidenti e disertori alla guerra al virus (Scambler 2020).
Il lavoro qui proposto intende rileggere il biennio pandemico 2020-2021 alla luce delle categorie di guerra sociale e blaming, con lo scopo di identificare i meccanismi mediatici di costruzione del dibattito pubblico intorno alla gestione dell’emergenza e ai temi ad essa connessi (virus, vaccino, scienza, libertà di scelta, limitazione delle libertà costituzionali, etc.). La riflessione si avvarrà di materiale empirico proveniente da due ricerche qualitative su altrettante popolazioni caratterizzate da posizioni di perplessità o rifiuto nei confronti delle politiche e delle narrazioni pandemiche: un corpus di 20 interviste in profondità a persone non vaccinate; un secondo corpus di 15 interviste a “esitanti vaccinali”. Si farà riferimento, in particolare, ai processi di auto ed etero-etichettamento e di stigmatizzazione (l’uso delle categorie “no vax”, free-vax, o il rifiuto delle stesse), alle pratiche di fruizione mediale (rifiuto/accettazione della narrazione dei media “mainstream”, ricorso a fonti definite “alternative”). Sarà possibile concludere come la polarizzazione del dibattito pubblico abbia contribuito ad alimentare un clima di sfiducia nelle istituzioni, nella scienza e nei media di cui hanno risentito soprattutto gli esitanti che, non pregiudizialmente contrari alla vaccinazione né inclini a posizioni complottistiche, non hanno visto rappresentare la propria posizione e i propri dubbi durante l’emergenza pandemica.
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Il milieu dell’esitazione vaccinale: confini interni ed epistemologie
Alberta Giorgi Università degli Studi di Bergamo
Maria Francesca Murru Università degli studi di Bergamo
Le proteste contro le politiche adottate dai governi europei durante la pandemia da COVID-19, comprese le campagne di vaccinazione, sono state oggetto di rappresentazioni mediali polarizzanti. I manifestanti sono stati spesso descritti come populisti di destra, antiscientifici, ignoranti e inclini a credere alle teorie del complotto. Le ricerche condotte sin qui indicano tuttavia una composizione più diversificata che merita di essere esplorata e compresa.
Alcuni studi confermano un'elevata correlazione tra esitazione vaccinale e voto o sostegno a partiti populisti (Kennedy 2019) e scarsa istruzione (Egin e Vezzoni 2020). Un atteggiamento perplesso risulta inoltre legato sia alla sfiducia nei confronti della medicina tradizionale (Trujillo e Motta 2020), che all’ampia circolazione della disinformazione sui vaccini (Carrieri et al. 2019). Altre ricerche rivelano al contrario una correlazione positiva con elevati livelli di istruzione e una altrettanto elevata propensione ad assumersi la responsabilità sulla propria salute (Peretti-Watel et al. 2019), mentre chi si oppone alle vaccinazioni conferma la sua fiducia nella scienza (Rozbroj et al. 2020) ma non necessariamente nella ricerca scientifica contemporanea. Ancora prima delle proteste legate al COVID-19, numerose ricerche avevano infatti sottolineato come il rifiuto dei vaccini si accompagnasse, più che a un rifiuto dell’approccio scientifico tout court, alla richiesta di una ricerca scientifica più accurata, indipendente e svincolata da logiche finanziarie e politiche (Lello 2020).
Emerge dunque un ambiente composito che include non solo background politici differenziati ma anche gradi variabili di conflittualità, consapevolezza e preoccupazione rispetto alle politiche attuate. Ad accomunare posizioni così eterogenee è la medesima sfiducia nei confronti delle istituzioni che sono tradizionalmente considerate depositarie dell’autorevolezza epistemica e quindi legittimate a sanzionare la conoscenza considerata attendibile.
Il contributo qui proposto discute i risultati di una ricerca empirica che si è concentrata nello specifico sugli esitanti vaccinali la cui appartenenza politica è riconducibile alla variegata area della sinistra. Sono state svolte interviste semi-strutturate su un gruppo composto da nove donne e cinque uomini di età compresa tra i 35 e i 55 anni, residenti in diverse parti d’Italia, con livello di istruzione medio-alto. L’ipotesi è che la critica nei confronti delle politiche vaccinali sia emersa soprattutto in quella parte della sinistra maggiormente interessata a questioni come l'ecologia, la sostenibilità, l'economia circolare, la cui articolazione discorsiva è stata ampiamente trascurata dalla politica degli ultimi vent'anni. Questa mancata tematizzazione è sfociata nell’elaborazione di prefigurazioni ecologiche radicali (cfr. Monticelli, 2022) e, in alcuni casi, nella costruzione di una convergenza non del tutto inedita con varie espressioni della spiritualità contemporanea (Farahmand, 2022; Palmisano e Pannofino 2021).
A partire da una prospettiva socio-costruttivista, la ricerca approfondisce due principali questioni:
(1) in che misura sia possibile definire l’area dell’esitazione vaccinale come un “milieu” (Stolz and Favre 2005). Considerando la prossimità tanto con alcune espressioni della spiritualità contemporanea quanto con il pensiero cospirazionista (Murru, 2022), l’analisi delle interviste ha messo a fuoco in che modo i partecipanti percepiscano la composizione politica e sociale dei gruppi che si oppongono ai vaccini, prestando particolare attenzione a quelle attività di boundary-work (Lamont e Molnàr, 2002) tramite cui si marcano identificazioni e differenziazioni.
(2) quali siano le epistemologie validate dai partecipanti e quali le autorità riconosciute come portatrici di autorevolezza epistemica, anche e soprattutto alla luce delle complesse trasformazioni dello statuto politico della verità (Giorgi 2022).
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L’estensione del dominio del complottismo. Un’analisi del dibattitto intorno alla popolarizzazione dei risultati del questionario Censis del 2021
Oscar Ricci Università degli Studi di Milano-Bicocca
Negli ultimi anni le teorie cospirazioniste hanno guadagnato una grande ribalta mediatica. Sebbene le teorie del complotto siano sempre state in circolazione, sembra innegabile che i social media le abbiano rese più popolari, o almeno più facilmente accessibili a persone che probabilmente non ne sarebbero venute a contatto (Venturini 2022). Dalle teorie cospirative sull'11 settembre a quelle relative all'epidemia di Covid-19, gli ultimi due decenni minano la fiducia nella possibilità di rappresentazioni accurate di una realtà sociale condivisa (Harambam 2020, Shahsavari 2020) . In particolare, l'epidemia di Covid-19 sembra aver velocizzato il processo di creazione e diffusione delle teorie del complotto, in molti casi mescolando teorie provenienti da ambienti di destra e di sinistra.
La situazione legata all’epidemia di Covid-19, inoltre, ha accelerato l’impiego di un linguaggio emergenziale per descrivere manifestazioni di critica al potere legato alla gestione della situazione sanitaria. Tutto ciò ha portato a un utilizzo sempre più frequente del termine “complotto”, “complottismo”, o “cospirazionismo”, sia da parte di studiosi che della cittadinanza in generale (Grodzicka, Harambam 2021). Un caso particolarmente interessante è avvenuto il 3 dicembre 2021, quando il Censis pubblica il suo cinquantacinquesimo rapporto sulla situazione sociale del Paese. Nel rapporto è contenuta una rilevazione mirata a inquadrare la presenza nella popolazione italiana del “neo-cospirazionismo ideologico”. La questione del cospirazionismo viene collocata in una parte dedicata a sondare il rapporto degli italiani con “l’irrazionale”. All’interno della batteria di domande scelte per sondare la presenza di tendenza all’ “irrazionale” si trovano mischiate assieme critiche al potere molto blande, perplessità sulla natura dell’emergenza pandemica, ma anche terrapiattismo e movimenti anti 5g.
La popolarizzazione dei risultati del questionario provoca un dibattito molto serrato, tra chi critica come lo stesso sia stato costruito e chi invece ne commenta allarmato i risultati. Questo intervento è incentrato su un’analisi della ricezione della popolarizzazione dei risultati del questionario Censis sull’irrazionale, basta prevalentemente su una social media analysis di diversi gruppi Facebook dedicati a questioni relative alla pandemia.
I risultati ci suggeriscono come l’uso del termine complottismo ha avuto una decisa accelerazione nel corso negli ultimi dieci anni, ma a questa accelerazione è conseguita un’estensione pressoché incontrollata del valore euristico del suo utilizzo. Di più, in certi casi l’utilizzo di questo termine ha completamente cambiato significato, andando a coprire funzioni semantiche del tutto nuove. Nel caso del rapporto Censis vediamo come l’uso di questo termine possa andare a coprire concetti molto distanti, sia come significati sia come rilevanza politica.