Programma della conferenza

V Convegno Nazionale SISCC “Mondi possibili. Tra crisi, conflitti e pratiche creative” / Bari, 22-23 giugno 2023

Il convegno della SISCC intende esplorare le complesse relazioni fra crisi e pratiche creative, il corto-circuito fra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale nonché le potenzialità delle nuove pratiche creative e culturali di disegnare nuovi scenari e ipotizzare nuovi mondi possibili. Per andare oltre il paradigma della crisi e della emergenzialità, bisogna pensare e operare in modo nuovo senza rispondere a crisi con crisi e a emergenze con post-emergenze. Quali fenomeni di questo tipo sono oggi visibili?

 
 
Panoramica della sessione
Sessione
Sessione 4 - Panel 7: Moda
Ora:
Venerdì, 23.06.2023:
9:30 - 11:30

Chair di sessione: Roberta Paltrinieri
Luogo, sala: Aula 23

Secondo piano, Dipartimento di Scienze Politiche Palazzo Del Prete, P.zza Cesare Battisti 1

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Presentazioni

TIGRE CONTRO TIGRE Gli animali nella moda. Due comunicazioni a confronto

Simona Segre-Reinach

Università di Bologna, Italia

Paradossalmente se gli animali nell’abbigliamento ancora ci sono, per esempio nel riferimento al materiale di cui sono fatti, dalla moda sembrano assenti. Trasfigurati dall’immaterialità della moda, gli animali scompaiono nella loro realtà ontologica di esseri viventi, per ritornare sotto altri registri, come il lusso estremo di una lavorazione o la rappresentazione simbolica. Più ci si muove verso la rarefazione, più ci si separa dalle origini. Il soffio della divina creazione pone la moda in uno spazio puro, liberato da ogni traccia di sofferenza e di fatica. La moda, tuttavia, può anche essere sofferenza. Non solo per chi la indossa, ma soprattutto per chi ne fornisce i materiali, cioè per gli animali.

Il paper si focalizza su due momenti di comunicazione di moda e cioè il lancio della collezione Gucci Tiger nel gennaio 2022 e la sfilata di Schiaparelli nelle sfilate di haute couture a Parigi primavera estate 2023. Entrambe hanno al centro uno o più animali. Benché ci sia una lunga tradizione di animali come sfondo e accessori, questi due casi portano alla luce la densità del dibattito attuale su moda e animali. Gucci ha utilizzato una vera tigre che compare in un salotto insieme a modelli e modelle, grazie alla tecnologia che permette di “unire” due immagini riprese in momenti diversi. L’intento di Gucci era di celebrare l’anno cinese della Tigre. La campagna ha suscitato le proteste di World Animal Protection che si è opposta all’uso di animali selvatici per fini pubblicitari. Schiaparelli, rifacendosi alla vicinanza al surrealismo della fondatrice, ha inserito delle finte teste di un leone, una lupa, un leopardo in resina e a grandezza naturale sugli abiti delle modelle. Alcuni hanno visto un incoraggiamento ai vecchi trofei di caccia e al non rispetto per gli animali in via di estinzione - mentre altri hanno apprezzato il riferimento dantesco e la perizia della finta tassidermia. Altri ancora hanno rilevato l’ipocrisia nel criticare l’indosso di finti animali, mentre viene accettato quello di utilizzare pelle e pelliccia di quelli veri.

La decostruzione delle due immagini- la tigre vera di Gucci da un lato, le finte fiere di Schiaparelli dall’altro - mi porteranno a dimostrare come la pratica culturale della moda stia anche modificando il nostro sapere su di essa. Per analizzare i due eventi comunicazionali, la campagna pubblicitaria Gucci Tiger e la sfilata “tassidermica” di Schiaparelli, utilizzo una metodologia situata all’intersezione tra fashion studies e sociologia della cultura: analisi dei due marchi e dei due direttori creativi al momento della campagna e della sfilata; la polivalenza del concetto di natura per l’antropologia post-strutturalista e trasformativa. Ne emerge il corto circuito della moda tradizionale e l’emergere di una moda “postumana” in grado di sfidare il divario tra produzione e rappresentazione.

Il paper evidenzia una recente tendenza che può essere inserita nella ricerca di sostenibilità, pur presentando una specificità che la colloca in un più ampio discorso del rapporto della moda con la “natura”. Mi riferisco alla moda cruelty free o vegana o gentile (priva cioè di materiali che siano ottenuti mediante crudeltà sugli animali) che attraversa diversi ambiti: la ricerca di nuovi materiali e il nuovo lusso; il posizionamento di Homo sapiens nel discorso filosofico, antropologico, etologico; la rappresentazione degli animali nella moda. La moda può essere considerata una pratica culturale dove il saper fare è intimamente collegato al sistema culturale di riferimento e alle sue trasformazioni. Si deduce la capacità non solo interpretativa della moda, ma anche predittiva in merito alle trasformazioni culturali.



TRA CREATIVITA’ E PROPAGANDA - La moda in Italia durante il Secondo conflitto mondiale

Sofia Gnoli

IULM, Italia

Allo scoppio del Secondo conflitto mondiale, a differenza dei paesi anglosassoni che vararono una sorta di moda di stato attraverso il programma “Utility”, in Italia la moda non mostrò molti segni di cambiamento. L’importanza che il regime attribuiva alla moda e al suo valore propagandistico fecero si che, anche in tempo di guerra, si mantenesse viva la produzione di eleganti abiti e accessori. Anzi, la moda divenne allora una sorta di simbolo della certezza che tutto andava bene.

Prova ne è il fatto che nel 1941, alcuni mesi dopo l’inizio della Guerra, venne lanciata addirittura una nuova rivista: “Bellezza”. Pensata per competere con periodici patinati internazionali, come “Vogue” e “Harper’s Bazaar”, “Bellezza” fu concepita dall’architetto Giò Ponti. Diretta da un comitato composto oltre che dallo stesso Ponti, da Cipriano Efisio Oppo, Lucio Ridenti, e pubblicata dalle Edizioni Moda di Torino, era rivolta a un pubblico alto-borghese e poteva contare sulla collaborazione delle firme più note dell’editoria e dell’illustrazione di moda. Fino alla fine del 1941 per motivi propagandistici furono ben pochi, nelle riviste di moda, gli accenni fatti al conflitto. Mentre infatti i paesi anglosassoni vararono allora una sorta di moda di stato attraverso il programma Utility Clothing Scheme, in Italia il regime cercò propagandisticamente di minimizzare ogni difficoltà.

Anche l’attività dell’Ente Nazionale della Moda, istituzione creata dal regime al principio degli anni Trenta con l’intento di promuovere una moda italiana svincolata dall’imperante influenza francese, si fece sempre più serrata. Fu allora, proprio nel corso del 1941 che L’Ente Nazionale della Moda cominciò ad applicare la tanto vagheggiata Marca d’Oro, uno speciale talloncino che certificava i più meritevoli modelli di alta moda. Sempre nel contesto della valorizzazione della moda italiana nell’agosto del 1941 si tenne a Venezia un’imponente manifestazione sul tessile italiano, La Rassegna del tessile e dell’abbigliamento autarchico. Anche quando le speranze nei confronti di una rapida fine del conflitto iniziarono a scemare, le riviste continuarono a proporre i consueti servizi su abiti da ballo e da teatro, cappellini e pellicce. Solo verso la fine del 1941, con il peggiorare della situazione bellica, il regime iniziò a prendere atto della situazione. Fu allora che introdusse la disciplina del tesseramento e dei punti anche per l’acquisto di capi di vestiario e di stoffe. Nonostante, in diversi casi, le disposizioni del Regime venissero evase, le signore furono costrette a rivedere il loro guardaroba e a riciclare abiti e accessori. Gli orli, vista la carenza di tessuti, si accorciarono, si diffuse la moda di finte pieghe e il capo di abbigliamento più in voga divenne il tailleur in quanto, a seconda dell’occasione, poteva essere modificato con gli accessori.

Nel frattempo le riviste suggerivano come modificare abiti e accessori riutilizzando tende e vecchi copriletti. In altre parole, come spesso era avvenuto in passato, la guerra sollecitò la creatività. Vista l’impossibilità di importare modelli dalla Francia, si assistette al nascere di una moda autenticamente italiana. Fu allora che, in un momento in cui ancora la nostra moda non era internazionalmente riconosciuta, emersero talenti quali Roberta Di Camerino, Salvatore Ferragamo e Giuliano Fratti, soprannominato ‘re dei gioielli matti’. Tutti nomi che si distinsero nel campo degli accessori e che in una fase di assoluta mancanza di materie prime giocarono la carta della creatività.

Nonostante le numerose incongruenze della politica fascista e dell’Ente Nazionale della Moda, in questo clima di emergenza la creatività italiana, unita a un’antica tradizione di alto artigianato, formò un cocktail esplosivo che diede i suoi frutti all’indomani del conflitto.



L’insostenibile leggerezza della moda mainstream: decolonizzare e decostruire la dimensione del processo creativo.

Flavia Piancazzo

Università di Bologna, Italia

Con questo lavoro si vuole contribuire al dibattito accademico sul tema della sostenibilità sociale e culturale, con una riflessione sui marchi di moda e sulla loro reale attenzione a decostruire e decolonizzare le pratiche creative. Nello specifico, l’autore presenterà alcuni casi studio più rappresentativi della sua ricerca di dottorato, in cui ha raccolto e confrontato informazioni fattuali per capire gli sviluppi dell'appropriazione culturale nelle produzioni di moda.

Infatti, nonostante nell’antropologia tedesca del XX secolo già si cominciò a concettualizzare l’appropriazione come un processo di scambio o prestito tra le culture (Schneider 2011: 13-32), ancora oggi, teorizzare e analizzare l'appropriazione culturale richiede una considerazione approfondita dei suoi molteplici aspetti, in qualsiasi campo (Kawamura 2022: 150) e il fatto che si verifichi in molti sistemi diversi tra loro, ne rende la definizione di piuttosto impegnativa.

L'autore ha dunque condotto un'analisi dettagliata mappando l'industria della moda mainstream. Con un'analisi sistemica e la rielaborazione del sistema di classificazione dell'abito proposto in The Visible Self (Eicher et al., 2000), è stata realizzata una tabella per l'inserimento dei dati secondo un approccio misto: la Content Analysis e l'Image Content Analysis delle immagini prodotte, integrato con l'etnografia virtuale (Gobo e Molle 2016: 57).
Partendo da un periodo che va dal 2010 al 2020, è stato stilato un elenco di 106 brand che avevano presentato in dieci anni almeno dieci collezioni, prêt-à-porter o alta moda. Sono state così analizzate 2281 sfilate attingendo dall'archivio di Vogue.
Gli oggetti di analisi sono stati gli abiti, gli accessori e le stampe ritratti nelle fotografie. L’osservazione delle 106 sfilate prese a campione è stata facilitata da due aree di classificazione, individuate all'inizio di questa ricerca: una commerciale e una limitata alla classificazione del sistema del vestito, secondo la quale ogni dettaglio è riconducibile a una società o a una cultura, con il suo significato socio-culturale (cerimonia, protezione, ornamento, rituale, ecc.).

Alcune osservazioni preliminari indicano che, tra i marchi di moda esaminati, un quinto di essi non ha presentato elementi di appropriazione culturale. Mentre, in altri brand, l’appropriazione culturale si è verificata almeno sette volte in cinque collezioni, nei dieci anni presi in esame. I risultati di questa ricerca, che saranno presentati durante il convegno, potrebbero essere considerati scoraggianti poiché confermano soprattutto le posizioni critiche che mettono in discussione la dicotomia moda occidentale/capi etnici, con una sovrapposizione che crea forme schematiche e stereotipate (Segre-Reinach, 2018: 153). Inoltre, se il patrimonio immateriale deve garantire un senso di identità e continuità ed incoraggiare il rispetto per la diversità culturale, la creatività umana e lo sviluppo sostenibile (Calanca 2020: 11-25), le pratiche di appropriazione culturale attuate con leggerezza e molto spesso involontariamente dai brand, sgretolano tale senso di identità confermando la necessità di decostruire e decolonizzare l’industria della moda occidentale, compreso il relativo processo creativo.

Se la moda di Simmel era ritmata dai motivi della imitazione, vedremo come la mancanza di autenticità nelle creazioni di moda odierne, trova ancora il suo posto all'interno della dimensione eurocentrica che non prevede un approccio integrato alla sostenibilità culturale.



Due anni di “Blooming Sustainability” – analisi critica del discorso relativo alla sostenibilità presente sulle pagine di Vogue Italia

Nadica Maksimova

Università di Bologna, Italia

Nel contesto contemporaneo, con la produzione centralizzata e industrializzata dei contenuti mediatici, l’analisi critica dei media raggiunge sempre nuovi livelli di urgenza e significato sociale (Gerbner 2011, p.13). D’altra parte, la sostenibilità, intesa in senso lato, può essere percepita come un “hot topic” degli ultimi decenni. In particolare, è un tema ampiamente affrontato nell’ambito dei fashion studies. Le ricerche academiche dedicate all’analisi della relazione fra moda e sostenibilità sono principalmente focalizzate sugli aspetti di maggiore e minore sostenibilità della produzione nonché sulla relazione con l’oggetto moda nella sua manifestazione materiale. Diversamente, la produzione simbolica dei discorsi legati alla sostenibilità nel contesto moda, resta largamente inesplorata. Nonostante si renda sempre più necessaria una spinta teorica “verso i fashion media per la sostenibilità” (Skjold, 2016), le riflessioni critiche sulle pratiche e sulle posizioni assunte dai fashion media, relativamente alla sostenibilità, rimangono principalmente limitate e circoscritte alle analisi delle pratiche di marketing (Beard, 2008) o alle confutazioni dell’uso improprio, e della svalutazione, della terminologia eco (Thomas, 2008; Winge, 2008). Solo negli ultimi anni, si assiste all’emergere di un interesse più concreto per l’analisi sistemica dei discorsi mediatici legati al tema (Baker Jones, 2019; Baker Jones and Hawley, 2017; Le Masurier, 2020, [in uscita] Laing 2023).

Nel rispondere alla necessità di un’investigazione approfondita della produzione simbolica generata dei discorsi sulla moda sostenibile, il presente contributo si focalizza sull’analisi delle pratiche discorsive generate da una delle più influenti riviste di moda nel mondo – Vogue Italia. Seppur informato da un’analisi approfondita dell’intero archivio della rivista, il contributo riserverà particolare attenzione, in questa sede, a specifici tratti osservati nei due anni di “blooming sustainability” – annunciati nella dichiarazione ufficiale di novembre 2019, quando Condé Nast ha espresso il suo impegno “a svolgere un ruolo più proattivo e significativo nell’informare i propri lettori sull’emergenza climatica, nonché di ispirarli a intraprendere azioni concrete”. A partire da gennaio 2020, la rivista si è progressivamente presentata come impegnata in questioni politiche, proponendo contributi che riguardano, tra gli altri aspetti, questioni di inclusione, diversità, razzismo e sostenibilità. Il contributo proposto proporrà un’analisi critica di questa autopresentazione, mettendo in discussione le pratiche contraddittorie del magazine. L’arco temporale dell’analisi si chiude con il numero di settembre 2021, che è stato l’ultimo con Emanuele Farneti come caporedattore.

Come sarà discusso, i risultati dello studio critico del discorso, metodologicamente basato al Discourse-Historical Approach, riveleranno come, nonostante l’autodeterminazione di Vogue Italia come una rivista attenta alle tematiche della sostenibilità nel contesto moda, il periodico mensile sta sistematicamente impiegando strategie discorsive che mitigano significativamente il significato dell’“impegno sostenibile”, e quindi, anche il significato dei concetti come “moda sostenibile” e/o “sostenibilità della moda”. Le osservate strategie discorsive si rivelano ancora più problematiche in un contesto di opinioni pubbliche polarizzate. Inoltre, proprio come espresso anche nella call for papers del convegno, le soluzioni all’insostenibilità del sistema si presentano in “termini prevalentemente populisti, tecnocratici e comunque post-democratici” – un modo di fare informazione che impedisce una transizione verso una società della cura.

Presentandosi principalmente come un lavoro diagnostico, volto a evidenziare la mancanza di informazioni accurate, nonché critico dell’approccio quick-fix con il quale si affrontino le problematiche del sistema moda, il contributo mette in discussione il sistema predominante. In fine, saranno proposti anche alcuni esempi di contenuti più inclusivi, olistici e utili verso una visione narrativa di mondi possibili – esempi che purtroppo, almeno nel caso di Vogue Italia, rimangono oscurati dal cumulo di contenuti in servizio dei centri di potere.