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Sessione 4 - Panel 5: Ambiente e comunicazione
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Presentazioni | ||
La crisi ecologica come cifra della crisi moderna Università degli Studi di Torino, Italia Il paper vuole offrire una riflessione sulla nozione di “crisi” come modo di essere paradigmatico della società moderna, ragionando in particolare lungo i tre seguenti registri, tra loro sempre in parte sovrapposti: il registro descrittivo, quello interpretativo/esplicativo e quello pratico. Rispetto al primo si tratta di mettere in luce una fenomenologia della crisi; rispetto al secondo si considerano invece le diverse semantiche della crisi; percorrendo la terza direttrice, infine, ci si interroga circa il “che fare”, ragionando innanzitutto sul senso di questo interrogarsi. Sul piano teorico-metodologico si procede lungo il solco che collega i campi della sociologia e della filosofia, interrogandosi circe le possibili analogie tra l’analisi di due autorevoli studiosi italiani e torinesi, tra loro idealmente lontani al punto da sembrare inconciliabili, come il filosofo Augusto Del Noce e il sociologo Luciano Gallino. Entrambi, all’interno del proprio campo disciplinare, hanno offerto una disamina della crisi moderna tanto profonda e pregnante quanto tendenziamente inascoltata. Con l’espressione “tarda modernità” si vuole qui indicare l’epilogo del processo di modernizzazione, vale a dire, con Del Noce (1964, 1971, 1978), il completamento del programma moderno nella sua accezione razionalistica e il conseguente avvento della società tecnocratica. In questa accezione il razionalismo esprime la vocazione rivoluzionaria della modernità, il cui programma prevede per l’umanità il ribaltamento del proprio rapporto tanto con il divino quanto con la natura. Tuttavia, la riuscita della rivoluzione nella sua pars destruens, come affermazione del suo registro storico-materialistico, ottiene altresì l’effetto di azzerare ogni plausibilità anche per il suo registro storico-escatologico. Ciò sancisce di fatto il fallimento, sotto forma di suicidio, della rivoluzione stessa, la quale lascia il campo libero alla piena affermazione della società radical-borghese. Al contempo la tarda modernità ha anche il pregio di porre l’umanità di fronte alla crisi di questa sintesi moderna razionalista e tecnocratica; tale crisi si manifesta negli effetti perversi del processo di modernizzazione, vale a dire in una serie di esiti imprevisti, indesiderati, o addirittura opposti, a quelli perseguiti dai programmi moderni sviluppati su quella linea. La teoria sociologica contemporanea si è prodigata a descrivere una fenomenologia della crisi, configurando quella tardo-moderna come una società endemicamente rischiosa in forza dell’ambivalenza dei processi che essa innesca (Beck 1986; Luhmann 1986, 1991). Il caso più emblematico per evidenza, dimensioni e potenza è forse quello del capitalismo occidentale nel suo stadio odierno da intendersi nell’accezione di “neoliberalismo” (Gallino 2011). Più precisamente: in quanto comprende non solo una “dottrina politica” e una “teoria economica” bensì anche una “teoria dell’istruzione”, esso si mostra “inesauribile nella sua vocazione puntigliosamente totalitaria” (28). Com’è noto, l’esito totalitario dei processi di modernizzazione costituisce una delle principali cifre della crisi moderna. Gallino richiama l’attenzione su alcuni caratteri della “civiltà-mondo” che scaturisce coerentemente dalla teoria politica del neoliberalismo; tra loro inscindibili, essi delineano anche una possibile definizione della crisi ecologica: il primo consiste nell’enorme squilibrio tra il potenziale di benessere psicofisico e la realtà delle concrete condizioni di esistenza per la popolazione mondiale; il secondo, da me qui parzialmente rivisitato nella sua esplicitazione, consiste nel paradosso definito da un lato, dalla quantità e qualità dei segni di “intenibilità” di questo assetto e, dall’altro lato, dalla pervicacia nel riprodurlo e radicalizzarlo. Per Gallino questa situazione chiede un impegno di pensiero e di analisi che diciamo in sintesi “metasociologico” (Gallino 1992); è su questo percorso che egli può incontrare Del Noce il quale invece intravede nello scenario scaturito dal suicidio della rivoluzione, di cui la “crisi ecologica” è senz’altro un aspetto, le condizioni per una riapertura della questione religiosa all’interno di un profondo ripensamento del moderno, in un registro che tuttavia non si vuole necessariamente anti-moderno. Il debunking in Italia delle bufale verdi: un’analisi delle pratiche partecipative attorno al climate change Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia Il clima della disinformazione In questo contesto hanno trovato spazio circa 400 gruppi nazionali ed internazionali di fact-checker (Stencel, Ryan, Luther, 2022). Tuttavia appaiono critiche alcune questioni come la difficoltà di misurazione dell’efficacia del fact checking (Lewandowsky et al., 2012; Ecker et al., 2022), la presenza di dinamiche che spingono gli utenti a schierarsi a priori a favore o contro il consenso scientifico (Zollo et al., 2017; Williams et al., 2015) E infine il ruolo dei bias cognitivi all’interno delle attività redazionali dei fact-checker (Dimitrova & Nelson, 2017; Shoemaker & Reese, 2013). Ciononostante, la trasparenza delle fonti, un informazione contestuale e la vividezza dei contenuti sono individuati come fattori chiave nell’attivazione dell’engagement online. (Kim et al. 2022) Ipotesi e domande di ricerca HP: Gli utenti usano i contenuti di debunking per funzioni che prescindono dal contrasto alla disinformazione. RQ1: Quali sono i temi maggiormente rappresentati nell’azione di debunking legati al discorso ecologista? RQ2: A quali formati giornalistici riconoscibili si rifanno gli articoli di debunking?
RQ3: Quali framing applicano gli utenti nella condivisione delle notizie di debunking? Risultati preliminari Metodologia Oltre il panico. Per un diverso immaginario su crisi climatica e regimi di mobilità Università di Bologna, Italia Diversi autori (Barca 2020; Solòrzano, Yosso 2022) denunciano come la narrazione dominante che associa la crisi climatica con l’entrata nell’Antropocene - una nuova epoca geologica caratterizzata dagli esseri umani come principale agente di trasformazione ambientale, capace di manipolare l’intero pianeta - banalizza e mistifica la realtà, perché nasconde l’intersezione sistemica di razzismo, colonialismo, disuguaglianza di classe, eteropatriarcato e supremazia dell’essere umano nella produzione della crisi ambientale (Armiero 2021). Il che conduce a una generale mancanza di responsabilità, nonché alla depoliticizzazione e alla graduale normalizzazione della crisi (Giuliani 2020), perpetuando di fatto le ingiustizie sociali ed economiche da cui la crisi climatica è caratterizzata. Si tratta di una narrazione, preannunciata da almeno mezzo secolo, in cui prevalgono i sintomi (disastri ambientali) e non le cause (politiche, economiche e sociali): vediamo le immagini degli orsi polari affamati e le minacce di invasione prossima di milioni di migranti climatici, quasi mai le relative riflessioni sull’indole predatoria del nostro modello di sviluppo o delle disuguaglianze globali alimentate dall’individualismo antropocentrico. Per denaturalizzare il cambiamento climatico è dunque fondamentale indagarlo come «una costruzione culturale molteplice a cui si attribuiscono diversi significati morali, politici, economici, atmosferici e sempre più di cittadinanza» (Van Aken 2020, p. 9). Diviene così evidente che il cambiamento climatico è di fatto una questione di giustizia sociale: chi subisce di più gli effetti del cambiamento climatico sono le persone rese più vulnerabili, che spesso vivono nei paesi del Sud globale, e sono anche quelle che lo hanno causato, e tuttora causano, di meno. Tale disuguaglianza diviene ancora più stridente se consideriamo l’ineguale diritto alla mobilità (Sheller 2018) che da un lato intrappola le persone più vulnerabili nelle aree ad alto rischio di disastri ambientali, e dall’altro classifica come migranti o rifugiati gli stranieri provenienti da paesi classificati come poveri, costringendoli nelle categorie di vittime o criminali, comunque in una condizione di inferiorità sociale e politica, con relativa esigenza di controllo da parte delle autorità dei paesi riceventi (Ambrosini 2020; Musarò, Parmiggiani 2022). E questo vale anche quando si parla dei cosiddetti migranti climatici, richiamati dalle tante statistiche allarmanti che ne prevedono milioni nei prossimi decenni (Durand-Delacre et al. 2021). Come decostruire, dunque, questa narrazione dominante e stimolare una presa di coscienza sul nesso clima-migrazione, spingendosi oltre i racconti riduttivi, apocalittici e depoliticizzati dell’epoca contemporanea? Come svelare le tensioni e le contraddizioni relative al nesso tra crisi climatica e ingiustizia dei diversi regimi di mobilità? Muovendo dai risultati del progetto europeo End Climate Change, Start Climate of Change. A Pan-European Campaign to build a better future for climate induced migrants, the human face of climate change (Giacomelli et al. 2022) che ci ha visto direttamente coinvolt* negli ultimi tre anni, il nostro intervento si propone di rispondere a queste domande, in primis evidenziando il ruolo che rivestono i media nell’inquadrare il nesso tra cambiamenti climatici e migrazioni come fenomeni culturali. Il progetto ClimateOfChange affronta la mancanza di consapevolezza e comprensione critica delle migrazioni indotte dal cambiamento climatico come una delle più grandi sfide contemporanee. La ricerca effettuata, e la relativa campagna di sensibilizzazione, rappresentano, di fatto, un interessante esempio di oggetto culturale capace di intervenire, attraverso strumenti diversi, sulla percezione e sull’immaginario della relazione tra crisi climatica e migrazione. In particolare, attraverso le diverse pratiche intraprese in questi tre anni - lo spettacolo di circo WeLand, i Climate Diaries (Giacomelli, Walker 2021), i Debates, gli strumenti di Casual Learning, etc. - riflettiamo su come una diversa narrazione del nesso tra crisi climatica e diritto di mobilità possa supportare processi di empowerment e cambiamento. Sistemi vitali e sfide (ultra)terrestri nei progetti di “space farming” tra tutela della Terra ed escapismo post-umano Università di Napoli Federico II, Italia Questo contributo indaga promesse e tensioni inscritte nei progetti di ricerca sui “sistemi biorigenerativi di supporto alla vita” (Bioregenerative Life Support Systems - BLSSs) che consentono agli umani di sopravvivere in condizioni ambientali estreme, come quelle incontrate nelle missioni spaziali. Il caso di studio oggetto della proposta è quello degli “orti nello spazio”, ovvero la sperimentazione in corso nella rete dei laboratori del Progetto MELiSSA (Micro-Ecological Life Support System Alternative), finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA), volto a sviluppare “sistemi rigenerativi di supporto vitale per missioni spaziali di lunga durata”. Alcuni degli esperimenti condotti in questo campo mirano a comprendere quali specie vegetali si rivelano più adatte alla costruzione di siffatti sistemi. Da tale punto di vista, la tecnoscienza si pone come ambito di costruzione non solo di proposte per il futuro della società ma anche di promesse espresse in termini di “scenari sociotecnici”, legati alla possibilità di offrire previsioni sul futuro tali da aprire orizzonti di aspettative e incoraggiare la mobilitazione di risorse nel presente (Jasanoff e Kim, 2015; Selin, 2008). In particolare, questo lavoro analizza la comunicazione del progetto MELiSSA e di programmi analoghi, nell’intento di rispondere alle seguenti domande di ricerca: a) quali discorsi, strutture argomentative e repertori narrativi vengono attivati a sostegno di questo tipo di ricerche; b) quali “scenari sociotecnici” si intravedono in tali progetti, ovvero quali rappresentazioni del futuro e orizzonti di aspettative - in virtù delle quali mobilitare risorse nel presente - emergono in relazione alle relative promesse tecnoscientifiche; c) attraverso quali forme di rinegoziazione la convivenza tra umani e organismi vegetali viene prefigurata. L’analisi mostra come uno dei nodi significativi intorno cui sono costruite le narrazioni volte a legittimare l’avanzamento della scienza nel quadro dell’esplorazione spaziale sia l’urgenza di salvaguardare il pianeta Terra. Queste due spinte, apparentemente in contrasto e invero da sempre dialetticamente legate (Scharmen, 2021), orientate al contempo verso la Terra e al di là della sua orbita, sono tenute insieme in un’unica proposta scientifica che guarda alle sfide poste dal futuro dell’umanità sul piano della sua stessa esistenza. Nella letteratura di riferimento, non a caso, questa tensione è espressa nei termini di un paradosso – con riferimento proprio all’ambito di ricerca oggetto del presente contributo (Walker and Granjou, 2017) – o di narrazioni situate al confine tra sperimentazione scientifica e immaginari tecnologici e culturali, come nel caso del cosiddetto post-terrestrial escapism o del green utopianism (Alberro, 2022). In tal senso, il contributo attiene pienamente alla questione posta da Latour in merito alla contrapposizione tra una tensione verso il “Terrestre” – cioè verso un recupero della terra – oppure verso il “fuori suolo” (Latour, 2017), ovvero una “fuga” dalla terra. Geologia dei media e cyborg coloniale: la crisi ecologica come crisi ancestrale e il postumano oscuro a partire dalle pratiche artistiche del collettivo on-trade-off Università degli studi di Napoli L'Orientale, Italia La crisi ecologica è forse la cifra più caratterizzante dell’epoca, dispiegandosi non tanto come crisi dell’ambiente, ma come crisi di mondo (de Martino 1977), nella quale i riferimenti quotidiani dell’esperienza perdono di senso e agibilità. È l’angoscia di «non-poterci-essere-in-nessun-mondo-possibile» (de Martino 1977, p. 85), il futuro non sembra più possibile in quanto proiezione sociale. Tuttavia, sembra delinearsi una via d’uscita, profetizzata dalle grandi compagnie della tecnologia: le twins transitions, ecologica e digitale, promettono una futura società transumana, ecosostenibile, smaterializzata e iper-connessa (Muench et al., 2022). Partendo dalle intuizioni del teorico dei media Jussi Parikka, e la sua proposta di iniziare a pensare alle tecnologie digitali a partire dalla terra verso una “geologia dei media” (Parikka 2015), cercherò di riflettere sulla transizione ecologica e digitale a partire dal minerale, in quanto non-detto della transizione, in collegamento con le riflessioni di Elisabeth Povinelli e Kathryn Yusoff sul non vivente. Se la prima ha tematizzato il geontopotere come forma di governo dell'esistente che costruisce il non vivente come spazio coloniale (Povinelli 2016), Yusoff ha esplicitato il nesso costitutivo tra geologia e razzializzazione (Yusoff 2018) e ha delineato le Inhumanities come campo di studio di questa relazione (Yusoff 2021). A partire da queste teorizzazioni, la crisi appare non come una catastrofe futura e a venire ma come catastrofe ancestrale (Povinelli 2021), ovvero come catastrofe coloniale. La transizione digitale, infatti, impone uno spropositato aumento dell’estrazione dei minerali coinvolti nelle nuove tecnologie – litio, cobalto, nichel, terre rare… – con conseguenze enormi sul piano ecologico quanto sociale (Pitron 2020). L’estrazione di litio, per esempio, avviene in regioni aride con precipitazioni estremamente ridotte ma comporta l’utilizzo di un’enorme quantità di acqua. (Whitmore 2021). Questo comporta non solo la distruzione di ecosistemi già fragili ma mette a rischio le società locali, minacciate dalla distruzione del loro ambiente ecologico e culturale. La transizione ha un lato oscuro che la lega alla storia coloniale ed estrattivista del capitalismo occidentale. Le miniere di Manono (RDC) sono state sfruttate, insieme alla popolazione, per tutto il '900 grazie all’abbondanza di stagno. Oggi, queste miniere saranno riaperte dopo la scoperta di giacimenti di litio, rendendo evidente la continuità e ricorsività del colonialismo in questi luoghi. Il collettivo di artisti belgi e congolesi On-trade-off lavora, con differenti forme espressive, per ricostruire questa storia coloniale ma, soprattutto, per immaginare un futuro alternativo di coabitazione nel territorio devastato della miniera (Arndt & Gueye 2023). A partire da questi lavori, intendo riflettere sulla figura tecnosociale dell’utente, in quanto segno dell’agenzialità umana sulla tecnologia, e del cyborg postumano, come figura ibrida di emancipazione (Haraway 1991), per mostrare come essi implichino anche l’esistenza di un postumano oscuro o inumano che emerge nello spazio rimosso e negato dell’estrattivismo e del colonialismo dove le tecnologie sono sinonimo di sfruttamento, contaminazione e tossicità. Il cyborg coloniale apparirà come il volto delle soggettività razzializzate, implicate ed entangled (Barad 2007) nelle tecnologie ma attraverso gli scarti, le polveri di metalli pesanti che intasano polmoni esposti e vulnerabili, e i residui tossici degli e-waste. A partire da questo postumano oscuro, effetto della violenza coloniale, razziale ed estrattiva, che prospettive si aprono per pensare al futuro? Se non esiste soluzione al colonialismo, una società o mondo precedente a cui tornare, ma nemmeno un “post” che ne cancella la storia, un mondo possibile si dischiude non proiettandosi verso un futuro smetarializzato ma facendosi carico di questo passato/presente, del postumano oscuro e della storia coloniale, razziale ed estrattiva in tutta la sua materialità. Analizzerò dunque alcune opere selezionate di On-trade-off per mostrare come esse aprano a un immaginario sociale alternativo, verso un mondo possibile che si dischiude proprio a partire dalla miniera. |