Tra accademia e professione. La comunicazione secondo i docenti coinvolti in un processo di riprogettazione di due corsi di laurea triennale in ambito comunicativo
Matteo Adamoli, Michela Drusian, Tiziana Piccioni
Istituto Universitario Salesiano Venezia (Iusve), Italia
Il contributo che le pratiche comunicative danno al processo di produzione di senso e definizione dei comportamenti è sempre più caratterizzato da quel fenomeno di mediatizzazione profonda imputabile al reciproco intrecciarsi di media diversi, il quale è stato favorito dalla digitalizzazione dei contenuti e dall’apertura di uno spazio di interconnessione pressoché illimitato, quale è l’internet (Couldry & Hepp 2017). In un mondo oramai costantemente ibridato con i media, i cambiamenti che hanno investito la comunicazione sicuramente riguardano sia gli strumenti, sia le infrastrutture, così come gli aspetti organizzativi. Nello specifico, a livello universitario i docenti si trovano a dover rispondere a questa radicalizzazione della mediazione tecnologica che sta trasformando le pratiche didattiche, alcune dimensioni dell’identità professionale e, in primis, la propria agency di docenti in grado di progettare corsi universitari adatti al contesto digitale (Bandura; 2012; Pellerey, 2021).
Se fino a pochi anni fa “studiare la comunicazione significava analizzare strumenti, contesti, usi molto diversi da quelli attuali” (Colombo, Boccia Artieri & Gili 2022), viene da domandarsi quali siano oggi le rappresentazioni sociali della comunicazione, intesa come ambito disciplinare e professionale, all’interno del quale si sviluppa una parte importante del processo sia di stabilizzazione e riproduzione, sia di cambiamento del sistema di quadri interpretativi e punti di riferimento per l’azione disponibili a livello collettivo (Moscovici 1984; Lalli 2000). Per indagare questo aspetto, abbiamo raccolto il punto di vista di 30 docenti universitari, che in buona parte svolgono una professione in ambito comunicativo.
Tale lavoro è pensato in una logica interdisciplinare ed è parte di una ricerca-azione progettata per comprendere se e come sia presente o sia possibile l’aggiornamento costante dei contenuti offerti dai corsi relativi alle attività formative di base e quelle caratterizzanti (Cohen, Manion & Morrison, 2017). L’obiettivo generale è verificare la congruenza tra le esigenze del mercato del lavoro e l’offerta accademica relativa ai profili professionali in uscita, coinvolgendo i docenti nella fase di riprogettazione di due corsi di laurea triennale (Advertising & Marketing e Digital & Graphic Design) del dipartimento di Comunicazione ed Educazione di un istituto universitario presente sul territorio italiano. La caratteristica di questi corsi universitari risiede nell'ampio spazio dedicato alla formazione laboratoriale, che si affianca all'offerta di corsi più teorici. Il corpo docenti è così formato da accademici e da professionisti che portano la loro esperienza pratica in continuità con quella più speculativa.
Prendendo in considerazione una prima parte dello studio, svolta attraverso la raccolta di 30 interviste in profondità, la nostra riflessione si inserisce proprio nella cornice di un fitto e continuo intersecarsi, nelle pratiche e nei discorsi, delle discipline che vanno a comporre il quadro di conoscenze, competenze e abilità del laureato e della laureata con le istanze del mondo produttivo - dalle agenzie di comunicazione ai vari settori aziendali (Eugeni & Vittadini, 2017; Barbato, Moscati & Turri, 2019). In particolare, ci focalizzeremo su come, nella specifica contingenza, si articola la rappresentazione del settore della comunicazione così come emerge dalle interviste. Cercheremo di riflettere sul senso che docenti con esperienze così diversificate condividono, con riferimento al mondo dell’università, della comunicazione e delle sue professioni.
Il panorama delle Scienze della Comunicazione in Italia. Indagine sulle classi di laurea L-20 e LM-59 in relazione ai professionali in uscita
Michela Drusian, Nicolò Cappelletti, Matteo Adamoli
Istituto Universitario Salesiano Venezia (Iusve), Italia
Il corso di laurea in Scienze della Comunicazione è stato introdotto nell’ordinamento degli studi universitari italiani trent’anni fa in seguito al lavoro di un’apposita commissione ministeriale presieduta dall’allora ministro dell’università, della ricerca scientifica e tecnologica Antonio Ruberti (Morcellini, 2003). Si trattava di un’assoluta novità che doveva rispondere a un mercato del lavoro che stava profondamente cambiando e soprattutto a un mondo che stava diventando sempre più globalizzato e interconnesso grazie alle nuove tecnologie mediali. I corsi di laurea in scienze della comunicazione, nel corso degli anni e soprattutto in seguito al D.M. 509, hanno avuto un successo sempre maggiore in termini di iscrizioni, nonostante i momenti di crisi, fino ad arrivare all’attuale offerta universitaria (Borrelli, 2015). Stante il paradigma della crisi che investe anche l’istituzione universitaria (Moscati, 2022), tale offerta è stimolata ad evolversi, aggiornarsi e migliorare per assicurare alle studentesse e agli studenti la possibilità di allineare le proprie attitudini e competenze con le esigenze del mercato del lavoro (Eugeni & Vittadini, 2017; Ceravolo 2021) e con la nascita di nuove professioni a partire dalla trasformazione digitale (ALMED, 2019; 2021; Costa, 2019). Il presente contributo si basa su un’indagine, condotta nel 2022, relativa alla presenza di percorsi di laurea triennali e magistrali in scienze della comunicazione sul territorio italiano e sulle loro caratteristiche.
Attraverso la consultazione dei dati di AlmaLaurea rielaborati dal Lab24 del Sole24Ore è stato costruito il dataset degli enti universitari presi in analisi. Nella prima fase dell’indagine si è proceduto a identificare le istituzioni universitarie italiane con all’attivo i corsi di laurea in scienze della comunicazione (Educationaround, 2021). Nello specifico si sono analizzati i corsi di laurea triennale - classe di laurea L-20 e i corsi di Laurea magistrale - classi di laurea LM-59, LM-19, LM-91 e LM-92. Rispetto al panorama dei percorsi di laurea magistrale in scienze della comunicazione, si è optato per focalizzare l’analisi sulla classe LM-59 perché questa rappresenta il percorso più scelto (38,9%) dai laureati di primo livello (Almalaurea, 2018). Sono state oggetto di indagine 38 università statali, 6 università non statali riconosciute dal MIUR e 6 università telematiche, per un totale di 50 enti universitari in territorio italiano.
I dati analizzati fanno riferimento a 124 percorsi di laurea, 88 percorsi di classe L-20 (lauree in Scienze della Comunicazione) e 36 percorsi di classe LM-59 (lauree magistrali in Scienze della Comunicazione pubblica, d’impresa e pubblicità). In particolare, in base alla proposta di aggiornamento della classe di laurea L-20, emerge che i tre settori scientifico disciplinari maggiormente presenti negli 88 corsi attivi in Italia sono:
- per le attività formative di base: SPS/08, M-STO/04, SPS/07;
- per le discipline semiotiche, linguistiche e informatiche: L-LIN/12, M-FIL/05, INF/01;
- per discipline sociali e mediologiche: SPS/08, M-STO/04, SPS/07;
- per le attività formative caratterizzanti: L-ART/06, SECS-P/08, M-PSI/05;
- metodologie, analisi e tecniche della comunicazione: L-ART/06, SECS-P/08, M-FIL/04;
- scienze umane ed economico-sociali: M-PSI/05, M-PSI/01, SECS-P/10;
- discipline giuridiche, storico-politiche e filosofiche: IUS-09, IUS-01, M-FIL/03.
A partire dalla descrizione puntuale dell’attuale offerta universitaria che riguarda le scienze della comunicazione in territorio italiano, e in prospettiva interdisciplinare, i dati raccolti sono esplorati e analizzati al fine di: discutere la relazione tra gli ambiti disciplinari dominanti dei corsi di laurea e i profili professionali in uscita; verificare se sia possibile individuare un profilo professionale di riferimento e come questo si leghi ai settori disciplinari predominanti; mettere in evidenza somiglianze e differenze tra i vari corsi di laurea in relazione ai profili professionali richiesti dal mercato del lavoro.
(Soprav)vivere nell’Università italiana tra emergenza e mobilitazione
Emiliano Ilardi, Marco Pitzalis
Università di Cagliari, Italia
Questo paper intende presentare le ipotesi di un progetto di ricerca focalizzato sulle trasformazioni che negli ultimi venti anni hanno investito l’università modificando in profondità ricerca, insegnamento, governance e, in generale, lavoro e cultura professionale degli universitari.
L’università, fino agli anni Novanta, ha assorbito le riforme che l’hanno interessata ma senza cambiare in modo sostanziale funzionamento e pratiche di ricerca (Pitzalis 2002). Questa capacità di adattamento e di continuità delle culture organizzative e professionali è stata definita dagli studiosi dei sistemi universitari in termini negativi di resistenza al cambiamento (Moscati 2011) e più recentemente di resilienza (Capano et al. 2016) dovute a una sostanziale inadeguatezza dei docenti rispetto alle esigenze di modernizzazione provenienti da politica e mercato.
In questo modo si rischia però di sottovalutare la portata dei cambiamenti e i loro effetti sulla vita universitaria:
- Una iperburocratizzazione senza precedenti dei flussi amministrativi a tutti i livelli;
- Un eccessivo incremento della competizione universitaria e delle diverse forme di valutazione quantitative e qualitative sul lavoro del docente, dalla didattica alla ricerca, e il loro preteso rapporto con la qualità e l’innovatività delle stesse;
- Il forte aumento della pressione sui docenti in termini di impegno lavorativo e differenziazione dei compiti (rendicontazione, organizzazione, valutazione, progettazione).
La nostra ipotesi di partenza è che, a differenza di quanto affermato da Capano et al., il sistema universitario è cambiato profondamente negli ultimi 15 anni e che i docenti hanno collaborato in modo massiccio a questa trasformazione. Il progetto intende analizzare alcuni dispositivi che hanno reso possibile questa adesione (spesso obtorto collo, altre volte entusiastica) al nuovo ambiente universitario:
- Dispositivi di mobilitazione politica che pretendono l’adesione attiva degli attori universitari alla realizzazione degli obiettivi di policy (si pensi oggi al PNRR).
- Dispositivi di ordine morale, diretti a creare un ordine di valori e nuove forme di coesione e di integrazione sociale (e professionale) nei dipartimenti e nelle comunità scientifiche e di converso forme di marginalizzazione ed espulsione per chi decide di non collaborare (ad esempio non partecipando alla VQR).
- Dispositivi “ludici” che sollecitano la libido del ricercatore e lo spingono a partecipare attivamente al “gioco” grazie a continue ricompense e secondo una prospettiva che può essere analizzata in termini di strategie di self-management e gamification (Fuchs et al. 2021; Graeber 2016; Vidaillet 2018).
In definitiva, oggi, il docente universitario è costretto ad operare in un contesto bellico-emergenziale, in una permanente mobilitazione, che è totale (Jünger 1931; Ferraris 2015) perché caratterizzata da una competizione contemporaneamente individuale (tra i suoi simili) e tribale (tra le organizzazioni in cui è inserito: Atenei, Dipartimenti, CdS) (Spanò 2017). Una competizione non tanto basata sulle idee, come dovrebbe essere la norma nell’università, ma essenzialmente sulla capacità di rispondere “militarmente”, in maniera quasi pavloviana, a parametri e requisiti imposti dall’esterno (Borrelli 2015). Il ricercatore-soldato fin dal Dottorato costruisce (o, meglio, si fa costruire) ossessivamente il suo curriculum e il suo profilo di ricercatore adattandolo ai mutevoli parametri di coerenza con il suo SSD, alle mediane dell’ASN, alle “classifiche” delle riviste scientifiche, ai regolamenti barocchi che normano qualsiasi tipologia di bando o selezione; la sua attività didattica deve adeguarsi alle esigenze performative dell’Ateneo; la sua attività di governance è rigidamente calendarizzata dalle continue scadenze imposte dalle amministrazioni locali e nazionali. L’agenda del ricercatore è scandita da sempre più ravvicinate deadline che lo fanno vivere in un perenne stato di eccezione. Una situazione da cui sembra difficile uscire anche perché è stata sostanzialmente accettata dagli universitari che, pur lamentandosene continuamente, non hanno mai esercitato efficaci pratiche collettive di opposizione. Questo progetto vuole provare ad analizzarne le ragioni.
"Dateci il diritto di fallire". Discorsi social di student* contro l'università della performance
Paolo Inno
Università degli Studi di Bari "Aldo Moro", Italia
La recente intitolazione di un dicastero del governo italiano all’istruzione e al merito ha riportato al centro del dibattito nazionale il tema “scabroso” della meritocrazia, alimentato negli ultimi anni anche attraverso la pubblicazione di testi che hanno goduto di ampia ricezione (Boarelli, 2019; Santambrogio, 2021).
Come noto, il termine meritocrazia compare per la prima volta nel 1958 nel titolo del libro di Michael Young, The Rise of Meritocracy. An Essay on Education and Inequality (Young, 1958). L’opera, scritta in forma di fiction sociologica, descrive con sfumature distopiche gli esiti elitari e anti-democratici delle riforme scolastiche adottate a partire dal secondo dopoguerra che, attraverso criteri inoppugnabili di selezione e certificazione delle eccellenze, puntavano alla fondazione di un nuovo ordine sociale: la cosiddetta società dei migliori.
La lunga storia della meritocrazia, iniziata nella tradizione confuciana e proseguita nell’età moderna, ha subìto nel corso del Novecento un vistoso “rovesciamento valoriale” (Tesini, 2011). All’inizio degli anni Settanta, infatti, anche in ragione dell’influenza dei lavori di Bourdieu sui meccanismi di riproduzione sociale delle diseguaglianze alimentate dalle istituzioni educative francesi (Bourdieu, 1970), tale parola veniva evocata per indicare la “falsa coscienza dei meritevoli” e i rischi connessi alla costruzione di una società classista; venticinque anni più tardi, sotto gli effetti della contaminazione della terapia neo-liberista thatcheriana, la sinistra della “terza via” (Giddens, 1998) riabilitava il concetto di merito e lo poneva alla base dei percorsi di mobilità sociale e inclusione dei cittadini, nel contesto della trasformazione dello Stato sociale keynesiano in un “welfare state delle capacità” (Paci, Pugliese, 2011; Jessop, 2002; Gilbert 2002).
All’interno del laboratorio neo-liberista, il discorso sul merito individuale si è saldato fatalmente con quello che Ehrenberg ha definito “le culte de la performance” (Ehrenberg. 1991). Esportando il modello agonistico tipico della competizione economica e degli sport professionistici negli altri campi della vita sociale, la cultura neo-liberista ha edificato poco a poco una “società della prestazione” (Chicchi, Simone, 2017) basata sulle regole sociali dell’intraprendenza e del successo. Questo progetto societario ha trovato nelle fasce di popolazione giovanile il proprio target di destinazione naturale (Inno, 2022): la retorica della performance ha invaso (anche) il mondo dell’università, spingendo i media a dare spazio crescente al racconto di storie di giovani capaci di conseguire risultati accademici in tempi record e con risultati straordinari.
Nella misura in cui legittimano opinioni, pratiche e condotte sociali coerenti con la visione neo-liberale della performance e con un’asfissiante ideologia del positivo (Han, 2012), tali narrative rivelano la loro problematicità, alimentando un immaginario dagli esiti potenzialmente tossici. Come ha sottolineato Ehrenberg, infatti, la pressione sociale al successo mette l’individuo a confronto con “una patologia dell’insufficienza” (Ehrenberg 1999) che può produrre conseguenze negative sulla salute psichica e sociale dei più giovani. L’altra faccia delle storie di student* apparentemente fuori dall’ordinario, infatti, sono i casi di giovani che denunciano sintomi depressivi e che, anche in seguito a fallimenti sperimentati nel corso della propria carriera educativa, realizzano comportamenti auto-lesionisti o suicidari.
Negli ultimi mesi, sulla scia della diffusione di notizie di questo genere, alcun* media e attivist* digitali hanno provato ad avviare una battaglia contro il racconto performativo dell'università. In particolare, pagine social come Torcha, Æstetica Sovietica e TPI hanno dato il via a un dibattito che ha generato centinaia di interazioni, da cui sembrano emergere istanze relative alla necessità di una nuova narrazione del fallimento e della salute mentale, che si traduce nella proposta di pratiche di de-soggettivazione dal discorso egemonico neoliberale.
Obiettivo dell’intervento sarà la discussione dei risultati emergenti dall’analisi delle conversazioni tra utenti di Instagram e Facebook di alcune delle pagine socal indicate.
L’immaginario scolastico nella produzione audiovisiva italiana
Alessio Ceccherelli
Università di Roma Tor Vergata, Italia
Uno dei luoghi in cui entriamo in contatto con fatti e avvenimenti che condividiamo un po’ tutti è la scuola: i processi di socializzazione primaria e secondaria, le esperienze nel primo ambiente dopo quello familiare, il rapporto con adulti significativi diversi dai genitori, con il gruppo dei pari, con la cultura giovanile, etc. A partire dai romanzi di formazione dell’Ottocento, la relazione della scuola con i diversi immaginari nazionali è evoluta nel tempo e nei media, restituendo rappresentazioni che possono essere lette come specchio o anticipazione (desiderata o temuta) della realtà sociale. Sono le due funzioni tipiche dell’immaginario, che nelle sue forme espressive rielabora gli stimoli che provengono dai contesti e dalle pratiche sociali, a volte provando a risolvere i conflitti (funzione problem solving) o prefigurarli (funzione anticipatoria).
Negli ultimi anni la presenza delle dinamiche scolastiche nella produzione audiovisiva è aumentata notevolmente, anche in virtù di una particolare attenzione delle piattaforme di produzione alla fascia di pubblico teen. Moltissime sono le serie tv incentrate, oltre che sull’età adolescenziale, specificatamente a scuola. Qualche esempio recente, soltanto in Italia: Provaci ancora prof! (2005-2017), I liceali (2008-2011), Fuoriclasse (2011-2015), Skam Italia (2018-2022), Un professore (2021).
L’intervento intende mettere in luce come è cambiata l’immagine della scuola (nello specifico, italiana) e del fare scuola, con la consapevolezza che la rappresentazione che ne viene fatta può fornire utili indicazioni sull’evoluzione della società e del sentire comune rispetto all’ambito più ampio dell’educazione (di per sé in stretta relazione con la società), potenzialmente influendo sul sentire stesso. Come viene descritta, ad esempio, la relazione tra docente e studenti? Quali metodologie vengono rappresentate? Quali gli stereotipi usati? E qual è il rapporto tra quest’immagine e i contesti reali, così come emergono dalle diverse indagini specifiche? Qual è, in definitiva, l’idea di scuola che la nostra società esprime attraverso il filtro dell’immaginario? Estremizzando: è più strumento di emancipazione o di repressione? In che misura queste rappresentazioni rispecchiano la contemporanea evoluzione socio-culturale? Hanno soltanto una funzione descrittiva o si pongono anche con valenza educativa, agendo dunque in modo più esplicito sull’audience.
L’intervento si concentra sulle opere audiovisive (cinema e serie tv) italiane più significative dagli anni ‘50 ad oggi, attraverso l’uso di una griglia di indicatori per la rilevazione della dimensione didattica ed educativa. Questa griglia è stata elaborata e predisposta nell’ambito di un insegnamento universitario sulle rappresentazioni mediali della scuola, al fine di osservare – anche grazie al lavoro degli studenti – diversi ambiti mediali (letteratura, cinema, serie tv, musica, videogiochi), diversi periodi (dall’Ottocento a oggi) e diversi immaginari nazionali. Quanto si intende presentare è dunque parte di una ricerca più vasta, iniziata da un paio di anni, e che si svilupperà nei prossimi anni, prendendo in considerazione anche interviste svolte dagli studenti sulla base di una traccia costruita sugli stessi criteri della griglia di analisi. In questo senso, l’intervento si pone come un primo tentativo di elaborazione dei dati a disposizione.
Da una prima lettura delle informazioni raccolte, e limitatamente alla nazione e al periodo indicati, emerge una scuola (intesa sia come istituzione che come comunità) diversa a seconda del suo essere figura o sfondo della narrazione: da un lato (figura), una scuola spesso luogo di sperimentazione sociale, attenta ai cambiamenti culturali e anche alle innovazioni pedagogico-didattiche; dall’altro (sfondo), un contesto quasi sempre stereotipato, che reitera disuguaglianze e pratiche didattiche tradizionali. Discorso simile riguardo alla figura del docente o educatore, anche essa mutevole rispetto al suo essere personaggio centrale o personaggio di sfondo. Molto spesso, la sua funzione emancipante e positiva viene raccontata in contrasto al contesto in cui opera: un’eccezione rispetto alla regola.
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