Il tema della crisi della religione nel mondo occidentale è molto frequentato all’interno del dibattito socioreligioso contemporaneo. Secondo numerosi studiosi viviamo in una società “secolarizzata” in cui la religione non informa più la vita familiare, il lavoro, l’istruzione, la cura e il tempo libero. Tanto gli studiosi quanto l’opinione pubblica e i media, soprattutto in Europa, restituiscono l’immagine della “scristianizzazione” del mondo contemporaneo. La cristianità è “a fine corsa” (Diotallevi 2017), “i riti sono scomparsi” (Han 2021), “il cattolicesimo è in crisi” (Marzano 2012), e persino gli italiani sono diventati “gente di poca fede” (Garelli 2020). In questo processo di “eroica agonia” la diffusione del nuovo fenomeno delle spiritualità alternative lascia presagire un futuro pagano (Delsol 2022).
A sostegno di questa visione concorrono i dati delle più recenti ricerche internazionali in merito alla pratica religiosa e, in particolare, alla “partecipazione ai riti”. Numerosi studi condotti negli ultimi decenni sulle chiese cristiane in Occidente (tra cui Bruce 2002; Aarts et al. 2008; Biolcati et al., 2022), hanno confermato un calo delle persone che le frequentano, non solo in Europa ma anche negli Stati Uniti, in Canada e in Australia. Lo ribadiscono anche studi recenti che aggregano i paesi occidentali in base all’andamento nella frequenza ai riti (Voas e Doebler 2011; Brenner 2016; Moltemi e Biolcati 2022).
Ma la prognosi per la religione è davvero così infausta? Oggi gli esponenti della tesi della secolarizzazione sono una minoranza. Se fino agli inizi degli anni Ottanta il ritiro del religioso e la progressiva diminuzione degli spazi di incidenza della dimensione sacrale sulle vicende del mondo erano dati per scontati, a partire dagli anni Novanta la situazione cambia radicalmente (cfr., tra gli altri, Casanova 1994; Gorski 2003; Demerath III, 2007; Davie 2007; Fox 2008, Ioas 2013; Christiano et al., 2015). Prendono il sopravvento studiosi e studiose che problematizzano l’idea secondo cui i processi di modernizzazione sfociano più o meno automaticamente nella secolarizzazione e mostrano invece la perdurante presenza del fenomeno, benché in forme diverse da quelle che siamo stati abituati, in passato, a considerare religione.
Inoltre, numerosi studiosi hanno fatto osservare che per comprendere il ruolo della religione nel mondo contemporaneo non è più possibile fare esclusivo affidamento sugli indicatori di religiosità coniati da Glock a metà degli anni Sessanta del secolo scorso (Heelas and Woodhead 2005; McGuire, 2008; Ammerman 2013). La pratica, la credenza e l’appartenenza non possono più essere le uniche misure con cui si soppesa il rapporto con il sacro nel XXI secolo.
L’ambito cosiddetto “secolare” è oggi uno dei luoghi più interessanti del “re-incantamento religioso” (Berzano 2019), dove fioriscono nuovi immaginari religiosi e spirituali. Ne sono esempi, tra i tanti, il successo mondiale della religione digitale; il forte richiamo al religioso nella sfera pubblica a seguito dei recenti eventi drammatici o catastrofici, come i disastri ambientali (Cherry et al. 2018), gli attacchi terroristici (Uecker 2008), l’emergenza pandemica da Covid-19 (Upenieks 2022) e la guerra in Ucraina (Jha et al., 2022); o ancora, l’influenza di leader e partiti religiosi nella geo-politica globale (Ozzano 2020; Giorgi 2021).
All’interno di questa cornice, il panel si propone di approfondire quadri teorici innovativi e nuovi campi di ricerca che mettono in dialogo la sociologia della religione con i temi della cura e della medicina (paper 1), del genere (paper 2), dell’ambiente (paper 3) e dei media (paper 4).
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Curare lo spirito. Integrare religione e spiritualità nella pratica clinica
Stefania Palmisano, Università di Torino
L’obiettivo dell’intervento è duplice. In primo luogo intendo ricostruire lo stato dell’arte su un tema originale, quello della spiritualità e della sua integrazione in ambito clinico, che, sebbene già da tempo trattato nella letteratura infermieristica, solo di recente è entrato nel dibattito delle scienze sociali. In particolare, discuterò dell’integrazione della spiritualità nella pratica clinica e degli strumenti elaborati per l’identificazione dei bisogni spirituali dei pazienti e per l’implementazione nel contesto ospedaliero degli interventi di cura spirituale. In secondo luogo, alla luce di una ricerca sul campo svolta in un grande ospedale piemontese, evidenzierò le criticità che emergono nell’applicazione di tali interventi spirituali. In conclusione evidenzierò lo specifico contributo che le scienze sociali possono fornire alle scienze infermieristiche relativamente al dibattito teorico sulla cura spirituale, alle questioni metodologiche riguardanti la sua implementazione empirica e alla riflessione sul modello terapeutico seguito dagli operatori sanitari nel rapporto con i pazienti.
La ricostruzione dello stato dell’arte incomincia dagli anni Ottanta, quando due campi fra loro distinti – da un lato gli studi sulla religione, dall’altro quelli sulla salute – si intrecciano aprendo nuove prospettive nel contesto clinico: l’incontro interdisciplinare fra scienze biomediche e scienze sociali permette di avviare una indagine sulle relazioni che legano gli orientamenti, le credenze e le pratiche religiose alle condizioni di malattia e ai percorsi di benessere e guarigione psicofisica (Vanderpool, 1980). All’origine di questo filone di studi è un insieme di fattori socio-culturali che includono la consapevolezza delle lacune della medicina scientifica nel rispondere ai bisogni esistenziali degli individui, la crescente diffusione nell’impiego delle medicine alternative e complementari come l’agopuntura o l’omeopatia, le richieste pubbliche per incentivare la prevenzione delle malattie facendo leva su precetti e stili di vita legati alle diverse tradizioni religiose e, non da ultimo, la scoperta che la fede e la spiritualità possono rappresentare risorse di senso per fronteggiare situazioni di crisi connesse alla malattia (Koenig et al., 2012). Si fa strada quindi una rinnovata sensibilità che pone le basi per un modello di “cura spirituale” intesa come l’attenzione professionale degli operatori sanitari - i medici e soprattutto gli infermieri -, verso i bisogni di natura religiosa/spirituale che gli individui esprimono quando fanno esperienza di una patologia severa (VandeCreek, 2010).
Ma in che modo gli interventi di cura spirituale sono effettivamente messi in campo? La ricerca empirica svolta in un grande ospedale piemontese che, per primo in Italia, ha avviato un progetto di “cura dello spirito”, consente di evidenziare best practices e criticità che accompagnano questa sperimentazione, sollevando alcune questioni fondamentali per la policy relativa alla gestione della diversità religiosa negli ospedali.
In conclusione, ragionando in termini più teorici, intendo argomentare che, sebbene il tema della cura spirituale sia ancora oggi prevalentemente indagato dalle scienze infermieristiche, le scienze sociali potrebbero, invece, utilmente arricchire questo campo, apportando un contributo importante su almeno tre piani: la definizione del concetto di spiritualità, la metodologia di ricerca, i modelli di cura adottati nella relazione terapeutica. Su quest’ultimo punto va detto che la relazione terapeutica si basa, spesso inconsapevolmente, su un modello asimmetrico che assegna al paziente, in quanto destinatario delle prestazioni di cura, un ruolo passivo. La sociologia può offrire agli infermieri indicazioni per elaborare un modello alternativo in cui il paziente diventi propriamente un attore sociale, portatore di esperienza e capacità riflessiva, in grado di prendere parte attivamente al percorso di cura spirituale, rafforzando così il suo empowerment e il suo coinvolgimento nel processo decisionale (Ingrosso, 2019).
Il proficuo scambio tra scienze sociali ed infermieristiche rappresenta, attualmente, una sfida sia teorica che empirica che potrà aprire, nel prossimo futuro, piste di ricerca e maggiore legittimazione scientifica alla pratica della cura spirituale nel contesto clinico.
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Immaginare mondi possibili – re-immaginare la religione sotto lo sguardo del genere
Alberta Giorgi, Università di Bergamo
Nelle società contemporanee il ruolo delle religioni viene spesso letto attraverso il paradigma della crisi – una crisi di senso e di adesione. In particolare, la diminuzione della partecipazione alle attività delle istituzioni religiose porterebbe all’affermarsi di una religione “vicaria” (cfr. Davie, 2006): una religione che resta importante come riferimento identitario e culturale per una maggioranza, ma che viene praticata da una minoranza. La crisi riguarda anche il ruolo della religione nella sfera pubblica e politica, nella misura in cui la religione come riferimento culturale entra nelle dinamiche di polarizzazione politica come elemento di battaglie identitarie, per esempio nel caso del populismo di estrema destra.
Diverse analisi hanno messo in luce come questa lettura della “crisi” della religione sia strettamente connessa a un approccio tradizionale alla secolarizzazione, che immagina la religione sul modello della religione cristiana e articola il rapporto tra secolare e religioso generalizzando la specifica esperienza storica europea e “occidentale”. Rovesciando la prospettiva, l’approccio delle ‘multiple secularities’ (Wohlrab-Sahr & Burchardt, 2012) invita invece a esplorare come le categorie di secolare, modernità e religione sono costruite e intrecciate in diversi contesti e processi: per esempio, la religione non è in tutti i contesti (o da tutti gli attori concettualizzata come) l’opposto del secolare.
In questa prospettiva, il presente contributo di concentra sul femminismo religioso – cioè quell’attivismo femminista che articola le trasformazioni sociali attraverso un linguaggio religioso e per cui la religione è intesa come, allo stesso tempo, motivazione e risorsa culturale e politica per pensare e agire il cambiamento sociale. Nel contesto contemporaneo, analizzare il ruolo delle femministe religiose sembra particolarmente interessante perché le femministe religiose sembrano dover affrontare una triplice sfida di esclusione: sono spesso emarginate nelle loro comunità religiose, sono spesso trascurate nel discorso pubblico e femminista, e le questioni che promuovono sono sotto attacco da parte di populisti di destra e di estrema destra. L’analisi del discorso del femminismo religioso contemporaneo permette quindi di esplorare le forme in cui un gruppo marginalizzato argomenta in favore della comune appartenenza a una cultura, a una comunità, a un gruppo – in questo senso, permette di mettere in luce sia la comunità “immaginata” sia quella “desiderata”, nonché quelli che sono i problemi e le tensioni visti dai margini.
In particolare, l’attenzione è rivolta all’attivismo digitale nella forma della produzione di podcast esplicitamente rivolti all’esplorazione dei temi che riguardano gli intrecci tra religione e femminismo. Gli studi recenti hanno messo in luce come le dinamiche del mondo digitale contribuiscano alla ridefinizione di quali siano i tipi e le fonti di autorità religiose più rilevanti, aprendo quindi uno spazio di trasformazione delle culture religiose e anche uno spazio di “voce” per soggetti e attori non istituzionali o non egemonici. Inoltre, lo spazio digitale è uno dei luoghi attraverso i quali il femminismo religioso (e non solo) costruisce la propria voce e trova visibilità nel mondo contemporaneo. L’analisi presentata si basa su una serie di interviste rivolte a podcasters che si definiscono religiose e femministe in merito alle pratiche di attivismo digitale e ai processi di soggettivazione.
Collocandosi all’interno di una sociologia delle classificazioni (Lamont e Molnár, 2002), si adotta un approccio intersezionale (Rebughini, 2022) per analizzare come le categorie sociali situate di “femminismo” e “religione” agiscono sulle soggettività e sono agite, sfidate e trasformate dai soggetti, e come le femministe religiose immaginano nuovi mondi possibili articolando rivendicazioni a un tempo religiose e femministe. In particolare, l’attenzione è posta alle risorse culturali usate dalle intervistate per parlare di obiettivi, desideri e immaginari – per esplorare, cioè, come intendono il cambiamento sociale – attraverso l’analisi dei riferimenti ai concetti e valori di cura, eguaglianza, parità.
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Nella natura sacra, un “nuovo mondo possibile”. La promessa di senso dell’ecospiritualità e la crisi della società contemporanea
Antonio Camorrino, Università degli Studi di Napoli Federico II
Una delle dimensioni costitutive della vita sociale contemporanea ruota intorno al suo carattere di incertezza. La sociologia del rischio ha ampiamente documentato quanto i progetti emancipativi della modernità si siano tradotti, in modo del tutto inintenzionale, in scenari sociali nei quali l’imprevedibilità assurge a cifra distintiva (Beck, 2003; Beck, Giddens, Lash, 1999). Le “grandi narrazioni” hanno impattato contro eventi tragici che hanno profondamente minato l’autorità su cui queste si reggevano (Lyotard, 2008). In ultimo – vicenda drammatica che tuttora in parte ci coinvolge – la pandemia COVID-19 è venuta ad aggravare uno stato di crisi che già accompagnava, in modo particolare, la quotidianità degli abitanti della società occidentale. Gli orizzonti di senso che abbracciavano l’esistenza hanno patito un ulteriore indebolimento, capace di accrescere un sentimento di “smarrimento” già assai diffuso (Berger e Luckmann, 1995).
La modernità è parsa colta di sorpresa da fenomeni che l’hanno travolta, al punto da metterne in discussione alcune idee-motore (Harvey, 2002). Con ciò non si afferma che la modernità sia un’epoca i cui esiti sono riducibili a un grigio elenco di fallimenti. Mete grandiose sono in realtà state raggiunte. Si può piuttosto sostenere che alcuni immaginari che vengono conoscendo un crescente successo si fondano su promesse di “nuovi mondi possibili” che si oppongono programmaticamente al modello culturale della modernità capitalistica.
Come è stato rilevato da importanti ricerche, già da qualche decade nella società occidentale prevale un certo orientamento degli individui verso valori “post-materialistici” (Inglehart, 1971). Da questo punto di vista si assiste a un processo di ristrutturazione sociale dei fini considerati significativi dai soggetti, che confluisce in un più ampio fenomeno di “ritorno del sacro” (Bell, 1978). È in virtù di solide evidenze empiriche che la teoria della desecolarizzazione gode da qualche tempo di una crescente autorevolezza scientifica (Berger, 1999). Ciò non significa che la relazione sociale con il sacro si articoli esclusivamente in modo tradizionale. Il rapporto con la religione è difatti mutato, così come è mutato il rapporto con la trascendenza (Camorrino, 2022).
Un esempio paradigmatico di questo inedito stato di cose è la significativa diffusione delle nuove forme della spiritualità (Palmisano e Pannofino, 2021). Queste ultime possono considerarsi un fenomeno esito di processi tipicamente postmoderni in virtù dei quali la relazione con il sacro viene esperita per mezzo di credenze e “pratiche creative” vieppiù individualizzate, delineandosi in modo indipendente ed eccentrico rispetto alle forme istituzionalizzate (Giordan, 2004; Heelas e Woodhead, 2005).
Esemplare, in questo senso, l’ecospiritualità. Un fenomeno fondato sulla “sacralizzazione della natura” (Cardano, 1997; Filoramo, 2022), quest’ultima sperimentata come luogo di esperienze “reincantate” (Maffesoli, 2021) e privilegiata porta di accesso verso esperienze capaci di produrre durevoli e profonde trasformazioni interiori. L’ecospiritualità gioca la propria promessa di senso in aperto conflitto con i valori promossi dal modello razionalista e materialista su cui – i “devoti” polemizzano – si basa la società capitalistica: le narrazioni, le credenze e le pratiche che producono e riproducono l’immaginario di questa peculiare forma di spiritualità, rappresentano il precipitato di un profondo sentimento di crisi, alimentato dalle fosche prefigurazioni legate al Climate Change, ma non solo (Camorrino, 2020a). Nell’ecospiritualità l’immaginario della natura – di un certo tipo di natura, a tratti “disneyficato”[1] – assurge a rifugio di senso, luogo ideale per costruire un “nuovo mondo possibile” sotto la maestosa egida della “geodicea” (Camorrino, 2020b).
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Da casi a scandali. Rappresentazioni mediatiche degli abusi sessuali nella chiesa cattolica in Italia
Piermarco Aroldi, Università Cattolica del Sacro Cuore
Giuseppe Giordan, Università di Padova
Molti osservatori hanno evidenziato come gli abusi sessuali sui minori all’interno della chiesa cattolica rappresentino per questa confessione religiosa la crisi più grande dai tempi della riforma protestante (Béraud, 2021; Blasi & Oviedo, 2020). Con tutta probabilità non si tratta di un fenomeno nuovo, ma ciò che oggi rende rilevante tale argomento è la vasta reazione che esso ha suscitato all’interno delle opinioni pubbliche nelle varie parti del “mondo cattolico”, e come tali reazioni stiano ridisegnando il ruolo che la stessa istituzione cattolica gioca in contesti sociali e culturali diversi.
Dall’esplosione dei primi casi denunciati negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, le notizie di abusi si sono imposte all’attenzione di intere società in Irlanda, Australia, Canada, Cile, Austria, Belgio, Germania, Francia, Polonia, Spagna, Portogallo, e infine anche in Italia. In alcuni contesti, come l’Irlanda, il Cile, la Francia e la Germania, la reazione è stata così imponente da minare alle fondamenta la credibilità di cui l’istituzione cattolica godeva all’interno di quelle comunità nazionali, tanto da far pensare che l’immagine della chiesa cattolica ne sia uscita irreparabilmente sfigurata.
La gerarchia cattolica, non potendo più continuare con la strategia del nascondimento e della copertura dei casi, si è vista costretta ad applicare una politica della “tolleranza zero” che però da più parti è stata percepita come un rimedio tardivo, forse non risolutivo, e spesso non pienamente convinto. Molte Conferenze episcopali nazionali hanno poi iniziato un’operazione di trasparenza che ha fatto ricorso a delle commissioni indipendenti che valutassero l’entità del fenomeno, e i risultati del lavoro di queste commissioni è stato scioccante per il numero drammaticamente alto di casi rilevati.
I casi si sono così trasformati, in alcuni contesti nazionali, in veri e propri scandali, intesi come una categoria di eventi critici a carattere trasformativo (Thompson, 2000; Blic & Lemieux, 2005); in questa prospettiva, lo scandalo ha “la capacità di rendere chiare all'osservatore le linee di divisione e le relazioni di dominio che attraversano - normalmente in modo opaco - una società” o almeno alcune porzioni di essa. Mette a nudo un ordine preesistente e costituisce, almeno potenzialmente, un momento di trasformazione sociale: “Lo scandalo (...) non lascia mai le cose come erano. (...) porta a riposizionamenti, a una ridistribuzione delle carte istituzionali (...). Spesso dà luogo a rielaborazioni organizzative, alla produzione di nuove disposizioni legali e alla convalida collettiva di nuove pratiche” (Blic & Lemieux). Se è vero che lo scandalo produce sempre qualcosa di nuovo, le trasformazioni non sono però mai del tutto prevedibili.
Da tale crisi che sta coinvolgendo la chiesa cattolica si sono innescate delle dinamiche di cambiamento: come esempio basti pensare alla reazione della chiesa cattolica tedesca che si è vista costretta ad aprire un sinodo i cui esiti potrebbero essere rivoluzionari su questioni quali il matrimonio dei preti, l’ordinazione delle donne, l’atteggiamento verso le coppie omosessuali.
All’interno di questa cornice storica e teorica, l’obiettivo del paper è quello di analizzare le condizioni culturali che permettono ai casi, rilevati e pubblici, di diventare degli scandali, e cioè dei fattori che costringono l’istituzione ad intraprendere delle azioni di cambiamento. In questa dinamica di passaggio dai casi agli scandali, le opinioni pubbliche hanno evidentemente un ruolo fondamentale, e i media svolgono una funzione chiave. Nell’analizzare il caso italiano, dove si rilevano molti casi ma gli scandali sono (ancora) pochi, ci proponiamo dunque di analizzare la copertura informativa offerta al tema da parte dei principali mezzi di informazione in un arco di tempo sufficientemente ampio da rendere conto delle modalità di rappresentazione del fenomeno, sia dal punto di vista quantitativo, sia in una prospettiva qualitativa attenta alle strategie narrative adottate, alle retoriche ricorrenti, ai processi di tematizzazione.